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Giochi per due: consigli su giochi da condividere

Quando si ama qualcuno si vorrebbero condividere con quella persona le proprie passioni. Spesso per i videogiocatori è difficile farlo perché i giochi da console, soprattutto Xbox, Playstation e PC, sono fatti per essere giocati da soli o in multi­player online. Questo spesso limita l’esperienza del tutto diversa che si può avere nel giocare insieme sulla stessa console, nella stessa stanza, a contatto, ridendo insieme, scambiandosi opinioni e condividendo le sensazioni che il gioco ci suscita. Se condividere di persona i videogiochi non fosse importante, manifestazioni come la Games Week a Milano o Modena Play non esisterebbero più. Io da videogiocatrice ho provato con il mio compagno una serie di giochi che si possono giocare in coppia e sono qui per consigliarveli. 

Vediamo quindi una serie di giochi per due da giocare con una persona speciale. 

Degrees of Separation e il potere della diversità

Degrees of Separation

Ghiaccio e fuoco. Non potrebbe esistere nulla di così diverso. Questi due elementi sono opposti, si escludono a vicenda eppure è su questo contrasto che si basa Degrees of Separation. Il titolo è ispirato alla famosa teoria dei gradi di separazione elaborata dallo scrittore Frigyes Karinthy (se vuoi saperne di più)

I personaggi, Ember e Rime, vengono da due regni diversi uno completamente ghiacciato l’altro torrido e fiammeggiante. I due si incontrano in un terzo luogo, con loro portano i colori e il clima dei loro mondi d’origine dando vita ad uno split screen propedeutico al superamento dei livelli. I colori e lo scambio tra inverno ed estate permettono di apprezzare il lavoro artistico dietro questo gioco. La storia non è molto complicata e nasconde una bella morale su come le differenze possano essere punti di forza. Gli enigmi sono basati infatti sulle diverse reazioni che gli elementi di gioco hanno in base alla metà dello schermo in cui si trovano. Alcuni sono difficili ma fattibili e i comandi sono alla portata di tutti. 

Posso concludere che Degrees of Separation è un gioco breve e ben fatto a livello artistico che con i suoi colori brillanti allieterà i pomeriggi delle coppie che decideranno di giocarlo. 

Giochi per due amici: Unravel Two

Unravel two

Due Yarny sono meglio di uno, questo è il motto del secondo capitolo di Unravel. Gli Yarny, pupazzetti fatti dal filo di un solo gomitolo, sono creaturine magiche nate allo scopo di guidare le persone quando si sono perse. I due Yarny di Unravel Two seguono le orme di due amici legati da un’amicizia profonda. Questo legame è rappresentato da un filo che unisce i due Yarny. Proprio come l’amicizia che rappresenta il filo non è d’ostacolo all’avanzamento dei due pupazzetti anzi aiuta i protagonisti a procedere nei livelli. 

Unravel two è un gioco a scorrimento in coop che immerge i giocatori nell’atmosfera umida e malinconica di un faro. Li spinge ad aiutarsi a vicenda per avanzare nei livelli mentre sullo sfondo le figure sfumate dei bambini continuano la loro storia. 

Si tratta di un ottimo gioco da giocare con un amico o amica di vecchia per celebrare la propria amicizia magari in una serata autunnale, stretti sotto una coperta, col profumo di un tè caldo che riempie la stanza. 

LittleBigPlanet 3

Little Big Planet 3
Little Big Planet 3

Probabilmente conoscete già questo titolo o almeno gli altri che lo hanno preceduto. Nonostante Sackboy abbia ormai i suoi anni non ci stanca mai e torna a farci sorridere e correre con lui in questo nuovo capitolo. I colori di Little Big Planet sono molto vari e la grafica è tridimensionale anche se lo scorrimento è principalmente 2d, la trama è meno complicata di quella dei due giochi precedentemente citati ma di più facile comprensione. Si tratta di un gioco più fanciullesco ma comunque divertente con un mondo di gioco magico da salvare.

È un gioco perfetto da giocare tra amici o col proprio bambino magari per passare un pomeriggio diverso e rinforzare il vostro rapporto. 

Rayman Legends un classico tra i giochi per due

Rayman Legends
Rayman Legends

Anche per Rayman non servono grandi presenta­zioni né ci sarebbe tanto altro da dire se non che è un bel gioco. Ha tanti livelli con varie difficoltà, tante skin diverse con cui giocare e molti contenuti extra oltre alla campagna principale. Personalmente preferisco i giochi con una trama più preponderante ma Rayman è il giusto gioco di coppia per quando si ha voglia di svagarsi senza impegnare troppo la mente. La ragione per cui però questo gioco mi ha conquistato sono i divertentissimi livelli a ritmo di musica

È l’avventura giusta per allietare i pomeriggi piovosi dopo aver concluso i compiti o il tempo libero dopo il lavoro quando si ha solo voglia di svagarsi. 

It Takes Two: Il gioco per due per antonomasia

It takes two
It takes two

Un gioco di terapia. La storia di questo gioco è esattamente questo, un percorso di risanamento del rapporto tra i genitori di una bambina che erano sull’orlo del divorzio. Uno strano libro d’amore guida la coppia di genitori lungo un’avventura con lo scopo di risvegliare i sentimenti che legavano i due. Grazie ad un desiderio della figlia i genitori si risvegliano nei corpi di due pupazzi, per tornare ai loro corpi dovranno avventurarsi nei mondi creati tra i giocattoli della figlia, dovranno risanare il loro giardino o combattere una guerra tra api e scoiattoli. Tra queste bizzarrie riusciranno i due ad apprezzarsi come un tempo? 

Di questo gioco penso solo che parlare bene, lo trovo divertente, graficamente ben fatto con una storia e una morale quasi fiabesche anche se questo dettagli potrebbe infastidire i giocatori un po’ più cresciuti. È un videogame da giocare con il partner o con un figlio per immergersi in un’avventura di dimensioni familiari e contemporaneamente per osservare questa stessa familiarità da un punto di vista differente. 

Children of Morta

Children of Morta
Children of Morta

In quest’ultimo gioco che vi consiglio penso di aver trovato tutto ciò che cerco in un videogioco. Anche se a prima vista la grafica pixelata può sembrare retrò nasconde un curato background artistico, dettaglio che si avverte anche nella scelta della colonna sonora e dei colori meravigliosamente contrapposti delle scenografie. 

Children of Morta, a differenza di tutti gli altri giochi di cui vi ho parlato, è un trial and error diviso in dungeon. Tralasciando il lato artistico però rimane una trama ben strutturata e di semplice comprensione che introdurrà i personaggi giocabili in po’ per volta integrandosi con il gameplay in maniera apparentemente casuale. A livello di gameplay inoltre il gioco non è per niente semplice o scontato, vi è una crescita dei personaggi non troppo ramifica­ta ma ben fatta e dungeon con boss sempre più complicati. 

Questo è un gioco che si condivide più facilmente con altri gamers ma non nego che anche giocarlo con il proprio partner possa essere divertente. Vi perderete nelle lande ai piedi del Monte Morta come la sottoscritta? 

Giochi per due proprio come una volta 

Spero che questa piccola lista di consigli possa esservi stata utile, ovviamente questi non sono gli unici giochi per due disponibili sulle varie console ma sono quelli che mi sono sentita di consigliarvi. La passione per i videogiochi è nata per essere condivisa e spero che questi stralci di unione possano farvi apprezzare ancora di più i videogiochi e le persone con cui li condividerete. 

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Recensioni

Riders Republic – Recensione: sport estremi per streamer

Recensione in un Tweet

Riders Republic porta Steep nel 2021, in un contesto sociale in cui Twitch è un punto nevralgico del gaming, nel bene e nel male. Il titolo è frenetico, immediato e alla fine anche divertente. L’open world permette di godere di ambientazioni molto suggestive, anche se il pubblico di riferimento è quello basato sul caos e il no sense, che non tutti gli amanti degli sport estremi potrebbero apprezzare.

7.5


Non vogliamo cadere nell’errore di fare di tutta l’erba un fascio, ma se dovessimo pensare al pubblico target di Riders Republic, ci viene in mente un videogiocatore (o videogiocatrice) adolescente, amante di Twitch e parecchio spensierato. Crediamo che Ubisoft abbia cercato un prodotto adatto al pubblico più giovane del 2021 in vecchi scatoloni e si sia imbattuta in Steep, videogioco di sport estremi datato 2016 di Ubisoft Annecy. Tolta la polvere e aggiunto il marchio di fabbrica contemporaneo della casa francese, ne è uscito fuori Riders Republic. Una scelta conservativa e audace allo stesso momento, che alla fine ha funzionato.

Caos estremo

Ubisoft si è costruita un nome intorno a due concetti: immediatezza ed eccesso di contenuti e Riders Republic ne è l’emblema; infatti, dopo aver creato il nostro avatar, saremo trasportati all’interno dell’azione, dove impareremo i comandi base e potremmo già farci un’idea di quanto arcade sia il titolo. Cominceremo con un giro in bici, per poi essere trasportati sopra degli sci e termineremo con un jet-pack sulle spalle. Solo dopo avremmo modo di conoscere l’HUB di gioco, Riders Ridge, dove potremmo gestire tutte le attività principali e prendere confidenza con il mood del titolo.

Riders Ridge ospita una serie di personaggi non giocanti, che rispecchiano pienamente lo stereotipo disponibile sui canali Twitch, passatemi il termine, più “pazzi”. In pieno bro-style, ci spiegheranno che scendere da un dirupo in bici vestiti da panda è estremamente cool e che inoltre è il vero obiettivo del gioco; infatti, lo scopo di Riders Republic è semplicemente godersi il viaggio. Nonostante sia possibile progredire nella propria carriera, sbloccando nuovi sponsor e attrezzatura, l’end-game è molto soggettivo. Rispetto a Steep, basato sul competitivo online, Riders Republic può andare a due velocità. La prima basata sulla competizione, gareggiando per avere il miglior tempo o il miglior punteggio di trick. La seconda focalizzata sull’esplorare l’open world alla velocità che preferiamo, con un colpo d’occhio a tratti molto suggestivo.

Riders Republic: consegnare pizze

Estremamente ricco

Riders Republic si basa su tre tipologie di sport: sci e snowboard, mountain bike e jet-pack e tuta alare su cui sono impostate cinque carriere: bici, divisa in gare e trick, sport da neve, anch’essi divisi in gare e trick, e sport aerei. La carriera è una modalità single-player in cui affronteremo i ghost di altri giocatori. In base alla difficoltà scelta, il gioco sceglierà le prove di alcuni giocatori reali, che ci accompagneranno durante gara. Il nostro compito sarà battere il loro punteggio e collezionare stelle, utili a sbloccare nuovi contenuti, come eventi o equipaggiamento. Le stelle si ottengono non solo arrivando per primi, ma ovviamente completando anche delle richieste opzionali, come eseguire dei trick in una gara di velocità o terminare la prova a un livello di difficoltà elevato.

Oltre alla carriera, il single player presenta anche la modalità Zen, dove poter girovagare per l’open world senza alcun obiettivo e nessuna distrazione, che invece subiremo nella modalità normale, ricca di eventi e momenti social. Tra queste modalità multiplayer, da citare la “gara di massa”, in cui affronteremo gli avversari in un contesto scherzoso, che farà felici gli streamer che vorranno passare qualche ora in compagnia dei propri follower all’insegna del no sense.

Riders Republic: in volo.

Arcade

Il gameplay di Riders Republic è basato sullo scendere da un pendio, lanciarsi da una rampa innevata o tuffarsi tra le nuvole, sempre senza pensarci troppo. Per questo motivo, Ubisoft Annecy ha ridotto al minimo i comandi per dare a tutti la possibilità di giocare senza frustrazioni, senza però dimenticarsi di chi vuole prendere sul serio gli sport estremi.

Due ruote

In bici, ci muoviamo pedalando con il trigger destro, inchiodiamo con il sinistro e scattiamo con il dorsale sinistro. Nelle gare seguiremo un percorso fatto di checkpoint obbligatori e nel caso in cui andremo lunghi, possiamo usare il dorsale destro per riportare il nastro della nostra prova all’indietro, riprovando quell’ultima parte pur rimanendo in gara. Abbiamo trovato questa idea, non solo in linea con l’idea del gioco, ma anche molto pratica, perché ogni tanto volevamo semplicemente portare a termine la gara, senza la serietà di doverla ricominciare da zero.

Per quanto riguarda i trick, Riders Republic prevede un trick per ogni combinazione di due tasti. Inizialmente impareremo giusto un paio di combinazioni e l’utilizzo della levetta analogica per spostare la coda della bici, ma sarà possibile andare oltre. In altre parole, la scelta è vincente, perché i casual gamer potranno divertirsi velocemente, mentre i veterani avranno la libertà di legare diverse combinazioni per ottenere il successo.

Tra la neve

Con gli sci sui piedi, il comando dello scatto in bici lascia il posto alla possibilità di scendere in avanti o all’indietro. I salti saranno altamente spettacolari e i trick tantissimi. Personalmente, è la modalità che preferiamo, poiché meno ingessata della bici e sicuramente più ricca degli sport aerei. In questo contesto, è necessario tenere conto delle distanze durante le capriole in aria, pena finire rovinosamente a terra, da cui comunque ci alzeremo velocemente premendo un tasto ripetutamente.

Guarda mamma, sto volando!

Lo sport in aria di Riders Republic è spettacolare per ambientazioni, ma anche sottotono nel gameplay. Ubisoft ha già annunciato nuovi contenuti al titolo, ma ci auguriamo che lo faccia anche sul gameplay di questa modalità. I voli di Riders Republic sono basati sul raggiungere una serie di checkpoint sfruttando anche l’asse verticale, con un design che ci ha ricordato più Star Fox 64 che fisiche moderne. Inoltre, il propulsore non è niente di più che uno scatto della bici. Un’esperienza che alla lunga può solo stancare.

Problemi tecnici

Per una questione di rispetto nei confronti di voi lettori, dobbiamo segnalare che questa recensione è arrivata con estremo ritardo a causa di una serie di bug rilevanti. Riders Republic è afflitto da un problema che ha colpito alcuni utenti durante il tutorial, tra cui noi; in particolare, il bug non permette di cambiare gli strumenti in quelli da neve per proseguire con la narrazione. Attualmente, la risoluzione può avvenire solamente con la cancellazione dei dati di salvataggio da parte del servizio utenti di Ubisoft.

Da un lato, siamo contenti che il customer care di Ubisoft sia molto efficiente; d’altro canto, ci dispiace per tutti quei videogiocatori che hanno dato fiducia alla casa francese acquistando il titolo al day one, a prezzo pieno, e si sono ritrovati a dover posticipare l’azione di svariati giorni.

Tra la natura

Per molti aspetti, Riders Republic ricorda tante altre opere Ubisoft, da Watch Dogs ad Assassin’s Creed: Valhalla. Da quest’ultimo prende il comparto grafico, basato su alti e bassi; infatti, anche se ogni tanto alcune atmosfere sono mediocri e la qualità video scende vertiginosamente, molti scorci di Riders Republic hanno uno stile televisivo di grande impatto.

Le regioni disponibili sono sette ed esaltano i parchi nazionali statunitensi più suggestivi; infatti, ognregione è stata ricreata con l’utilizzo di dati GPS e sono liberamente esplorabili con un design open world. Il risultato è soddisfacente grazie a una buona varietà di contesti climatici in sintonia con circuiti che rispecchiano la conformazione geologica del posto.

La neve di Mammoth Mountain e Grand Teton è ovviamente ottimale per gli sci, i boschi del parco nazionale di Sequoia e Zion mettono realmente a dura prova i riflessi, mentre Bryce Cannion e Canyonland offrono il meglio dei circuiti di mountain bike, tra discese estreme e pianure dissestate. Tra tutte, la più variegata e riconoscibile rimane la regione di Yosemite, fedele all’omonimo parco nazionale e particolarmente ispirata. Se siete interessati a Riders Republic più per le passeggiate che per la competizione, la modalità Zen vi permetterà di concentrarvi su questo aspetto; essa infatti non contiene alcun tipo di evento o progressione dell’avatar: sarete voi e la natura (digitale).

Tecnicamente il gioco si comporta molto bene sulla next-gen, anche senza far gridare al miracolo. Su Xbox Series X, il frame rate è sempre assestato sui 60 fps e l’esperienza di gioco, anche grazie al buon comparto audio, è piacevole; da notare qualche compenetrazione di troppo, che però riteniamo volontaria al fine di evitare blocchi durante le gare.

Multiplayer

Riders Republic è un gioco sociale. La possibilità di condividere scatti e vedere il posizionamento degli altri giocatori sulla mappa lo dimostra. Lo confermeranno anche gli streamer Twitch nel breve futuro, ma crediamo che gli amanti del competitivo abbiano delle aspettative più alte dato che il titolo è chiaramente ispirato a Steep.

Tutte le modalità, ad eccezione delle gare di massa, permettono di ottenere dei punti che muoveranno la nostra posizione nella classifica di gioco, aggiornata settimanalmente. La ladder è formata da divisioni atte a garantire un miglior matchmaking.

Le gare di massa sono il contenuto più casual del gioco; questi eventi sono strutturati su più di una disciplina e con un numero di giocatori che può superare la cinquantina di utenti. Gli amanti dei trick invece potranno affrontarsi nelle trick battle in uno scontro tra due team, sei contro sei. Chi vuole invece affrontarsi nei percorsi della modalità carriera può farlo sia con amici (Versus Mode) che online (Free For All).

Tutto questo è ovviamente contornato da un importante supporto da parte degli sviluppatori, che come prassi Ubisoft, aggiungeranno sempre nuovi contenuti ed eventi. Quelli già comunicati riguardano nuove modalità multiplayer con nuove arene annesse.

Roadmap Riders Republic

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: sportivo
  • Lingua: italiano
  • Multiplayer: Si
  • Prezzo69,99€

Ho sfidato i più estremi sportivi digitali del 2021 per circa 20 ore grazie a un codice per Xbox Series X gentilmente fornito dal publisher.

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Recensioni

Call of Duty: Vanguard – Recensione: un Bastardi senza gloria annacquato

Recensione in un Tweet

Call of Duty: Vanguard potrebbe fare molto di più, ma si limita a tracciare una linea senza picchi di una serie ormai lunga 18 anni. La modalità single player è l’emblema della contemporaneità videoludica. Una buona idea sprecata dall’eccessiva fretta di portare un’enorme quantità di contenuti extra alla modalità multiplayer, la più riuscita e assuefacente del titolo, che si è limitata a riportare quanto di buono già fatto con Warzone.

7.5


La seconda guerra mondiale è probabilmente lo scenario più spremuto degli sparatutto moderni e Activision ha un diritto di prelazione datato 2005. Call of Duty 2 è uno degli FPS più amati apprezzati di sempre, mentre il precedente lavoro di Sledgehammer Games, Call of Duty: WWII, è ricordato con estremo piacere dagli amanti della saga. Di conseguenza, Call of Duty: Vanguard si è portato dietro una grande speranza, che piacerà agli amanti della serie, ma che difficilmente porterà nuovi giocatori.

Call of Duty: Vanguard è diviso in tre parti principali: campagna, multiplayer online e zombie. Sappiamo che Activision porterà tanti nuovi contenuti nel corso del tempo, ma la nostra valutazione può tenere conto soltanto di quanto visto al lancio. E per forza di cose, almeno di due queste hanno bisogno di nuovi contenuti quanto prima.

Call of Duty Vanguard: L'avanguardia

Campagna

Ci aspettavamo che la deriva mutiplayer (ed esport) di Call of Duty avrebbe portato a un ridimensionamento del single player, ma ci dispiace per l’Avanguardia; l’idea di base era realmente coinvolgente. Il single player di CoD: Vanguard ci mette nei panni di cinque membri di una task force impegnata nell’operazione Phoenix, il cui obiettivo è il recupero di importanti documenti. I soldati dell’Avanguardia sono: lo sfortunato Novak, che ci lascerà anzitempo, il leader del gruppo, Arthur Kingsley dell’armata britannica, il cecchino russo Polina Petrova, l’aviatore americano Wade Jackson e Lucas Riggs, geniere australiano.

Tutti i membri dell’Avanguardia e i relativi nazisti hanno una caratterizzazione decisamente stereotipata, che fa l’occhiolino al cinema hollywoodiano. Una scelta decisamente votata ai più giovani, che ci ha ricordato il celebre Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, in una rivisitazione decisamente annacquata, molto più simile a una serie Netflix per adolescenti. L’idea generale del gioco è ricordare che la guerra porta morte e sofferenza, indipendentemente dalla fazione, etnia o ragioni per cui combatti. L’immediata morte di Novak ci fa pensare che non può esserci niente di peggio, ma i flashback dei singoli protagonisti ci rendono consapevoli che sopravvivere non è necessariamente una vittoria.

Bello, ma non bellissimo

Nella campagna di Call of Duty: Vanguard ci scontriamo nell’egocentrica follia nazista di Hermann Freisinger in diverse parti del mondo e del cielo. Germania, Francia, Russia, Africa e Oceano Pacifico saranno scenari di una guerra caotica e frenetica, che segue i canoni tipici della saga. Le ambientazioni forniscono degli scorci molto suggestivi, mentre la motion capture rende i volti realistici e cinematografici; questo, insieme a piacevoli dettagli come le divise naziste, rendono CoD: Vanguard un titolo visivamente molto godibile, anche se non proprio next-gen.

La cross-generation è sicuramente un freno, ma su Xbox Series X abbiamo affrontato un paio di cali di frame di troppo, che comunque non hanno rovinato un’esperienza di gioco solida. Sullo stesso livello si pone la parte sonora; alcune tracce sono decisamente molto azzeccate, soprattutto sul finale berlinese, ma che non raggiungono alcuni capolavori che abbiamo ascoltato nel recente passato della serie.

Il problema principale della modalità è sicuramente la breve durata di circa cinque ore che segue dei canoni molto, troppo standard. Abbiamo esplorato singolarmente le vite dei membri dell’Avanguardia per poi affrontare la missione finale in coop, con la sensazione che una minore frettolosità avrebbe potuto proporre dei momenti indimenticabili.

Call of Duty Vanguard: Polina Petrova

Multiplayer

Se FIFA e Call of Duty sono i titoli più acquistati dai videogiocatori italiani, il motivo è presto detto: FIFA e CoD appagano la necessità di competizioni dei casual player e degli esporter. Lo stile veloce, quasi arcade, di Call of Duty ha permesso a tanti videogiocatori di fare la guerra con una curva di apprendimento meno ripida di altri titoli competitivi (ad esempio, Counter-Strike). Sledgehammer Games ha mantenuto invariato questo stile, con tutti i suoi pregi e difetti.

Chi passa già tanto tempo in CoD, troverà Vanguard molto allettante per la presenza di tantissimi contenuti già disponibili al day one; infatti, il titolo conta già 20 mappe, di cui 16 per la modalità base mentre 4 in esclusiva per Collina dei Campioni, una delle due nuova modalità insieme a Pattuglia. La Collina dei Campioni è un torneo di sopravvivenza che si svolge su diverse arene, mentre Pattuglia è una rivisitazione di Postazione, con un obiettivo dinamico su tutta la mappa.

Full optional

Le stesse sensazioni di assuefazione che si possono provare da tempi di Call of Duty 4: Modern Warfare sono ulteriormente amplificate dall’esperienza ottenuta dal publisher con il battle royale Warzone. Sin dalle prime battute sarà possibile ottenere skin e nuove abilità da inserire in uno dei quattro slot a disposizione del proprio alter ego. In aggiunta, vi è la presenza dell’armaiolo, feature che permette di sbloccare utilizzo dopo utilizzo nuovi potenziamenti alle armi, che diventano così altamente personalizzabili. Infine, il matchmaking garantisce sempre nuove partite con un tempo che si assesta solitamente sotto al minuto di attesa.

In altre parole, Call of Duty: Vanguard prosegue quanto già costruito dai suoi predecessori, ma per l’innovazione bisognerà attendere; infatti, nonostante l’importante quantità di armi ispirate alla seconda guerra mondiale, difficilmente avremmo il tempo di gustare una battaglia retrò, soprattutto perché lo stile arcade del gioco ci riporta rapidamente alla modernità dei giochi contemporanei.

Zombie

Nei cimiteri di Stalingrado, l’Oberführer Wolfram Von List ha trovato risposte alla sua necessità di paranormale. Il Projekt Endstation ha squarciato le dimensioni e Von List ha stretto un’alleanza con una potente entità demoniaca: Kortifex l’Immortale. L’Alleanza, insieme ai quattro demoni Inviktor il Distruttore, Bellekar l’Arcanista, Norticus il Conquistatore e Saraxis l’Oscura, dovranno sconfiggere il male in questa versione della modalità zombie. La modalità prevede una hall principale, Der Anfang, dove ritrovarsi con altri compagni di squadra per poter scegliere quanti e quali round affrontare.

Ogni round prevede il completamente di un obiettivo, che passa attraverso la distruzioni di orde di zombie, che diventano via via più potenti. Alla fine di ogni round sarà possibile spendere i punti ottenuti per potenziare il proprio personaggio. Inutile dire che sarà fondamentale farlo, soprattutto se vorremmo provare l’Estrazione, un combattimento all’ultimo sangue disponibile dal quarto round, che porterà alla fine, gloriosa o meno, della partita.

Call of Duty Vanguard: Zombie

Minimale

Per molti videogiocatori di Call of Duty, la modalità Zombie è una delle più divertenti, ma in Vanguard manca ancora l’enorme scelta disponibile nella modalità multiplayer; infatti, ogni volta che saremmo catapultati dal Der Anfang a una nuova zona, si ha l’impressione di affrontare sempre la stessa missione. Anche se gli obiettivi sono effettivamente diversi, purtroppo nondovremmo fare altro che massacrare non-morti e premere il tasto X su un oggetto della mappa. Una ripetitività che siamo certi diminuirà con il tempo, ma che per ora non possiamo fare altro che constatare.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Sparatutto
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: Si
  • Prezzo79,99€

Ho completato la modalità single playuer in circa 5 ore, dedicandomi alla modalità multiplayer per almeno il doppio del tempo grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher per Xbox Series X.

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Editoriali

I valori dei Videogiochi: Subnautica

Quante volte i gamer si sono sentiti discriminati perché la loro passione non è considerata intellettualmente elevata dalla maggioranza delle persone? Quante volte è stato detto: perché non leggi invece di buttare la tua vita davanti ad una console? Ebbene siamo qui oggi per iniziare a sfatare questo mito. I videogiochi non sono e non sono mai stati solo una fonte di divertimento. In essi si possono trovare contenuti profondi ma anche informazioni e insegnamenti, sia di natura scolastica che personale. Vi porto l’esempio di Subnautica, che solletica temi come il rispetto dell’ambiente e delle altre creature o argomenti come il pregiudizio e la valutazione in base all’aspetto. 

Subnautica e il rispetto 

Subnautica è un survival rispettoso della vita. So che potrebbe sembrare un controsenso, siamo abituati, in questi tipi di gioco, a sfruttare le risorse in modo sconsiderato. Accumulando materiali e uccidendo tutto ciò che capita a tiro. Questo comportamento da parte di noi giocatori lo possiamo rivedere anche nella società odierna, che ci insegna che per stare bene serve avere tanto. Questo consumismo spesso ci influenza anche in cose minori, ad esempio nei giochi. In Subnautica invece questa mentalità ha vita breve. Non abbiamo armi perciò i predatori devono essere evitati e il cibo non si conserva facilmente perciò si è costretti a cacciare solo il necessario. 

Il contesto Survival 

Il concetto di sopravvivenza ai nostri tempi è qualcosa di molto distante dalle società progredite, pensiamo sempre più al superfluo perché non dobbiamo lottare per l’indispensabile. Questa condizione ci influenza e tende a renderci accumulatori nelle situazioni estreme. 

In Subnautica il giocatore è portato a rispettare il luogo in cui naufraga. Raccogliendo i materiali necessari a costruire le cose e a cacciare lo stretto necessario a sopravvivere. Conservare il cibo per lungo periodo è infatti un lavoro laborioso che può essere facilmente sostituito dalla caccia costante e dalla coltivazione di piante aliene. 

Le creature pericolose sono solitamente fonte di sfida per i giocatori di survival, dimostrano che abbiamo imparato a sopravvivere e ci siamo procurati i materiali giusti per battere anche i predatori più pericolosi. Nel gioco della Unknown Worlds Entertainment si ha una mentalità completamente opposta, gli animali più pericolosi infatti sono solo da evitare. Non si tratta infatti di una scelta del giocatore ma è lo stesso gioco che ci dice che il metodo migliore per superarli è girargli alla larga, si può leggere nelle descrizioni delle specie stesse: da evitare assolutamente. 

L’intreccio ben riuscito 

Il giocatore inizia come naufrago di una spedizione interstellare. È subito chiaro che gli obbiettivi principali sono quelli di sopravvivere e lasciare il pianeta alieno. Ovviamente si dovranno anche scoprire le ragioni dello schianto dell’astronave che ci trasportava: l’Aurora. Per raggiungere questi punti è d’obbligo esplorare tutta l’area di gioco, infatti i materiali necessari a fuggire dal pianeta sono distribuiti in tutta la mappa. 

La distribuzione dei materiali segue anche una logica particolare: più l’attrezzatura è complessa, più in profondità si troverà il materiale per costruirla. In questo modo si innesca un meccanismo per cui chi si impegna raggiunge obbiettivi sempre più alti suggerendo al giocatore una specie di meritocrazia. La dinamica del gioco però non diventa mai frustrante, ogni materiale è facilmente raggiungibile se si è al punto giusto della storia. 

Storia, gameplay, esplorazione e sopravvivenza si fondono in un’esperienza omogenea che permette di apprezzare tutte le sfumature del gioco. Nonostante la storia sia parte integrante dell’esplorazione non la limita in nessun modo anzi l’arricchisce. Sopravvivere non è il solo scopo del gioco, lo è anche seguire una successione di eventi e ammirare la meraviglia del paesaggio subacqueo. 

Il mistero degli alieni 

Durante l’esplorazione si possono notare delle strane strutture aliene costrui­te sul pianeta che potrebbero sembrare solo un vezzo artistico fino all’abbattimento della Sunbeam. Grazie a questo evento veniamo cosi a conoscenza anche della causa del nostro naufragio. L’Aurora, l’astronave in cui viaggiavamo, si è schiantata sul pianeta 4546B perché colpita dal laser di una delle base aliene. 

Le strutture verdi e nere, anche se in primis potrebbero sembrarlo, non sono un sofisticato sistema di difesa militare ma parti di un centro di ricerca. Sul pianeta infatti si è diffusa una malattia di cui possiamo osservare il lento avanzare anche su noi stessi. Il virus in questione si può trovare in vari esemplari di tutte le specie presenti sul pianeta. Inoltre scopriamo che gli alieni, chiamati Precursori, erano in cerca di una cura per il batterio Kharaa. Non avendola trovata hanno messo il pianeta in quarantena cosicché non si diffondesse nel resto dell’universo. 

Salvare sé stessi e il pianeta 

A questo punto gli obiettivi del giocatore aumentano e il tipico survival egoistico diventa un gioco mirato alla salvezza comune. 

Gli alieni si dimostrano così egoisticamente interessati alla cura e non si comprende bene se essi se ne siano andati dal pianeta o si siano estinti su esso per colpa del virus. Curarsi diventa strettamente necessario visto che il pulsante per disabilitare il cannone che ci impedisce di lasciare il pianeta può essere premuto solo da un individuo sano. 

Una precauzione presa probabilmente per evitare che qualcuno di loro fuggisse e diffondesse il batterio. Questo aggiunge un altro spunto di riflessione ovvero mettere il bene comune al di sopra del proprio. Il gioco non ci suggerisce quale risposta sia corretta ma ci insegna che il proprio interesse è strettamente connesso a quello comune. 

La salvezza del pianeta infatti diventa essenziale anche alla nostra stessa sopravvivenza e viceversa la nostra ricerca della cura diventa indispensabile alla sopravvivenza delle specie su 4546B. Subnautica sottolinea in questo modo lo stretto legame che vi è tra il mondo e le creature che vi abitano. Questo concetto è un valore aggiunto che ci viene donato, non esplicitamente ma facendoci riflettere su come lo stesso principio sia applicabile anche alla Terra. 

Un mostro umano 

Giunti all’ultima base aliena si scopre come mai i Precursori aveva fallito nell’estrarre la cura. Essi infatti avevano scoperto una specie resistente al morbo, l’animale più grande presente nella biosfera del pianeta: l’imperatore marino. O per meglio dire l’imperatrice marina. 

Nel punto più profondo della mappa infatti si trova il Centro di Contenimento Primario dove in un acquario di proporzioni enormi troviamo l’enorme creatura. Immergendoci nell’acquario la incontriamo e dopo qualche minuto di panico scopriamo che nonostante sia il più grande essere vivente sul pianeta è innocua. 

L’animale ha dimensioni notevoli e un’intelligenza. Ha inoltre la capacità di comunicare telepaticamente e così ci racconta che la razza aliena l’aveva rinchiusa nel tentativo di ottenere la cura con la forza. Ci chiede di dimostrarle di essere diversi dai nostri predecessori e aiutarla. 

Nell’enorme acquario in cui la troviamo con lei ci sono cinque uova in un’incubatrice che però è spenta. Gli alieni prima di noi non avevano creato le condizioni necessarie per la schiusa delle uova. L’accendiamo e grazie a questo gesto di altruismo ci viene alla fine svelato il modo di curarci. Questo a dimostrazione che la gentilezza non è sempre a discapito di chi la mostra. 

L’imperatrice marina è il simbolo che mette il giocatore in posizione di riflettere sul fatto che anche i mostri sanno essere umani, che essere brutti o grotteschi fuori non vuol dire per forza esserlo anche dentro. Una volta curati possiamo disattivare il cannone e ripartire. 

La profondità di Subnautica 

Durante tutta la durata del gioco ci si districa in un ambiente marino ben progettato e si ha a che fare con vari tipi di creature ostili e non si entra mai in possesso di una vera e propria arma o di un modo per danneggiare l’ecosistema di 4546B. Anzi, ad un certo punto, si può anche fermare l’inquinamento radioattivo derivante dal danneggiamento del reattore dell’Aurora. 

Il gioco sfiora molti argomenti importanti senza mai affrontarli direttamente, lasciando spazio al giocatore per riflettervi in completa autonomia.  

Il messaggio finale 

Seduti sulla plancia di comando del razzo che ci riporterà a casa quello che sentiremo non è sollievo ma nostalgia. Lasciando il pianeta marino su cui abbiamo passato tutto quel tempo, anche se in continua lotta con i pericoli e la fame, ci viene recapitato un ultimo messaggio della creatura che abbiamo aiutato che finalmente può morire tranquilla sapendo che i suoi cuccioli sono liberi. 

Solo delle persone senza cuore lascerebbero 4546B senza un po’ di rammarico. Abbiamo passato tempo e speso risorse, siamo cambiati nel lungo cammino fatto su quel pianeta e quindi lasciarlo è come lasciare un pezzetto di noi stessi. 

Subnautica: un viaggio videoludico 

Quindi ecco perché non me la sento di categorizzare Subnautica come un comune survival. Dietro alle meccaniche del videogame infatti si può ritrovare un pensiero rispettoso dell’ambiente e dell’equilibrio. Questo gioco come tanti altri non è solo un passatempo ma un vero luogo di apprendimento per tutti.  

Un videogioco proprio come un libro o un film, può essere un viaggio e una fonte di riflessione. Un giocatore può finire un gioco ed esserne cambiato nel profondo. 

Essere contrari ad un viaggio introspettivo solo perché scaturito da un videogioco potrebbe essere uno sbaglio: spero che queste parole vi diano lo spunto necessario per capire. Se volete un suggerimento per un altro gioco da vivere e per riflettere vi invito a giocare What Remains of Edith Finch e a leggere perché questo gioco ha cambiato la concezione di videogioco.

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Recensioni

Diablo 2: Resurrected per Xbox Series X – Recensione

Recensione in un Tweet

Diablo 2: Resurrected risponde positivamente alla nostra necessità di sapere se uno dei videogiochi più importanti della storia sia ancora divertente e attuale. Nonostante alcune meccaniche vetuste, la versione rimasterizzata di Diablo 2 contiene tutto il fascino dell’opera originale, che è ora racchiusa in una veste grafica al passo con i tempi, ma ancora fedele al capolavoro di 21 anni fa. E ora anche godibile con un joypad in mano.

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Ci sono alcuni videogiochi che hanno cambiato per sempre il settore videoludico, creando nuovi standard di cui hanno beneficiato le opere successive. Diablo 2 è uno di questi e dopo 21 anni abbiamo la fortuna di poterlo raccontare nella recensione della sua versione Resurrected. Come vedremo più avanti, Diablo 2: Resurrected garantisce la stessa esperienza di tanti anni fa; per questo motivo la domanda più lecita è: uno dei giochi più belli di sempre riesce ancora a divertire?

More of the same

Diablo 2: Resurrected è una rimasterizzazione, che grazie all’esperienza dei ragazzi di Vicarious Visions fornisce una veste grafica completamente rinnovata al capolavoro del 2000 e alla sua espansione Lord of Destruction; a questo, sono state incluse una serie di aggiunte atte a migliorare l’esperienza di gioco, senza snaturare l’originale di Blizzard North.

L’idea dietro la versione resuscitata di Diablo 2 è dare la stessa esperienza di 21 anni fa a un pubblico decisamente meno abituato alla difficoltà di un titolo pensato come un gioco da tavolo; infatti, Diablo 2 nasce con l’idea di portare i concetti già visti nei giochi di ruolo cartacei (Dungeons & Dragons, ma non solo) in un contesto digitale. Una scelta geniale che ha re-inventato il genere gdr action, tanto da aver costretto gli addetti ai lavori a coniare un nuovo termine: hack ‘n’ slash.

Nonostante la modalità cooperativa fino a otto giocatori, la riprogettazione dell’interfaccia e l’aggiunta del forziere espanso, che garantisce maggiore fluidità al titolo, Diablo 2: Resurrected rimane sempre lo stesso gioco, che richiede di sperimentare build, morire, ritornare alla base perché l’inventario è pieno e riprovare, non necessariamente in quest’ordine.

Scelta personaggi in Diablo 2 Resurrected

Storia infernale

La trama del gioco continua le vicende del primo capitolo. L’eroe che sconfisse Diablo, ha deciso di imprigionare dentro di sé il mostro. Purtroppo, nel corso degli anni, Diablo riesce a corrompere il suo carceriere e costringe il neo Viadante Oscuro a rilasciare sulla terra una serie di diavoli. Inizia così il pellegrinaggio del viandante verso est, che seguiremo per cinque atti.

La storia di Diablo 2 non è la più originale di sempre, ma la caratterizzazione di tutti i personaggi è la migliore che probabilmente vedrete in un videogioco. Chiunque in questo titolo è pregno di carisma: il narratore Marius, Deckard Cain, Tyrael, ma anche gli stessi malvagi nemici come la signora dell’angoscia Andariel, Azmodan il signore del peccato e ovviamente i Primi Maligni: Diablo, Baal e Mephisto.

Gioco di numeri

Dietro un videogioco in cui bisogna uccidere tutti i nemici che compaiono sullo schermo, mentre si esplorano temibili dungeon, si nasconde un’importante componente narrativa da affrontare con una delle sette classi disponibili, che rendono l’esperienza sempre diversa: amazzone, assassina, negromante, barbaro, paladino, incantatore e druido. Ogni classe ha tre alberi di abilità che permettono diverse build, in base al proprio stile di gioco. I punti abilità sono concessi a ogni livello e possono essere resettati parlando con opportuni personaggi.

All’importante scelta della build, si aggiungono altre due necessità matematiche: i punti alle statistiche (cinque per livello) e l’equipaggiamento. Le statistiche di Diablo 2 sono quattro, tutte da scegliere opportunamente pena avere grosse difficoltà durante il proseguo dell’avventura: forza, destrezza, vitalità ed energia. D’altro canto, inizialmente bisognerà indossare quello che si trova, ma andando avanti con il gioco, sarà fondamentale tenere conto dei bonus di armi, armature e gioielli per portare a termine l’avventura. In altre parole, i numeri contano.

Dungeon in Diablo 2 Resurrected

Xbox Series X: grafica e joypad resuscitati

La più grande novità di Diablo 2: Resurrected è senza dubbio la veste grafica, che è stata completamente ricreata da zero. Il risultato finale è la dura e violenta bellezza di Diablo 2 con un dettaglio grafico tipico del successore, Diablo 3. In altre parole, un rinnovamento piacevole che non cambia la natura cupa e sadica del gioco originale. Menzione d’onore al nuovo gioco di luci, che dona una maggiore profondità agli ambienti, anche se in alcune zone può risultare difficile orientarsi; infatti, ogni tanto i coni di luci si sovrappongo creando confusione sui punti di accesso.

Diablo 2: Resurrected è stato pensato per essere giocato anche con un controller in mano, ma lo stesso non si può dire del peccato originale. Alcune meccaniche di Diablo 2, come il semplice ordinamento della cintura dei consumabili, sono ancora strettamente legate a mouse e tastiera, ma il lavoro Vicarious Visions ha reso l’esperienza su console molto godibile. Il target automatico rende le battaglie agevoli anche su console e raccogliere gli oggetti con lo stesso automatismo non causa mai frustrazione. Infine, l’interfaccia rinnovata permette di muoversi con facilità, anche se il numero di finestre (e sottosezioni) tipiche dei gdr può causare qualche mal di testa.

Naturalmente, la potenza di Xbox Series X non è sfruttata al massimo, ma la resa grafica è superba, mentre i caricamenti sono praticamente immediati.

Andariel in Diablo 2 Resurrected

Il migliore della serie

Diablo 2 è stata una vera e propria rivoluzione, perché ha trasformato delle griglie su carta in un videogioco profondo in tutte le sue principali caratteristiche. In pochi possono vantare un tale livello di innovazione e cura artistica all’interno di un unico gioco uscito 21 anni fa. Per questo motivo, riteniamo il secondo capitolo della serie il migliore di sempre, che Diablo 3 non è riuscito nemmeno a eguagliare. Ci auguriamo che Diablo 4 possa essere il nuovo crack del settore videoludico, ma gli standard da superare sono parecchio elevati.

Per questo motivo, Diablo 2: Resurrected è la migliore esperienza che potete attualmente provare. Il restyling grafico, la possibilità di giocare adeguatamente su console e l’attenzione data alle modalità online (soprattutto la ladder) hanno permesso a questo capolavoro di vincere la sfida del tempo, a un prezzo decisamente onesto.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: gdr d’azione (hack ‘n’ slash)
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: Si
  • Prezzo39,99€

Ho combattuto il male per circa 50 ore grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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Editoriali

Diablo, guida alla demonologia dei videogiochi

Diablo si può definire una serie cult per i gamers, siano essi fedelissimi Sony, Xbox o provenienti dal mondo dei PC. Il primo titolo (Diablo I) uscì nel lontano 1996 seguito quattro anni dopo dal suo sequel Diablo II. I giocatori però hanno dovuto attendere ben dodici anni per avere un terzo capitolo. 

Dopo tanti anni d’attesa Diablo III si è presentato al pubblico con una grafica largamente migliorata rispetto ai primi due e oggi, a quasi dieci anni da quella pubblicazione, Blizzard ci offre una chicca. Nell’attesa del quarto capitolo (previsto tra il 2022 e il 2023) si potrà giocare Diablo II: resurrected, la remastered dell’ormai ventenne Diablo II. Grazie ad una grafica migliorata e a dinamiche di gioco semplificate la casa Blizzard offre un tuffo nel passato senza però stravolgerne il ricordo. Diablo II: resurrected è un ottimo punto di partenza per avvicinarsi alla saga per la prima volta o per rivivere le emozioni di un tempo. 

Tutti i Diablo fluttuano attorno all’eterna lotta tra il bene e il male, le schiere infernali e quelle celesti che si contendono il mondo di Sanctuary e la vittoria finale. Vi siete mai chiesti però se i nomi e le ambientazioni del gioco abbiano un qualche richiamo alla demonologia e cosmogonia Cristiana? 

In occasione dell’uscita di Diablo II: resurrected perché non dare una sbirciatina al mondo da cui questa saga prende spunto? 

Diablo e i nomi di Satana

Partiamo appunto dal demone che dà il nome alla serie Diablo, che in spagnolo significa Diavolo. Un sostantivo spesso associato alla figura di Satana. Se usato più generalmente però può diventare un sinonimo di demone e quindi indicare i torturatori dell’inferno e non il Diavolo con la D maiuscola. 

Secondo la Bibbia quest’ultimo è la contrapposizione a Dio, il peccato e il tentatore. Quindi se la mitologia fosse un gioco allora potremmo dire che si tratta del boss finale dell’inferno, il grande male. Questa figura all’interno dei giochi di Blizzard però non è presente, le schiere infernali infatti sono capitanate da un terzetto di demoni maggiori.  

Diablo è uno di loro insieme a Mefisto e Baal. I nomi utilizzati dagli ideatori del gioco per i membri del triumvirato sono tutti nomi che fanno riferimento alla figura di Satana. Diablo è forse quello più usato ma anche gli altri due, in vari passaggi della Bibbia e non solo, vengono usati per parlare del Diavolo. 

Diablo
Diablo

A seconda della sfaccettatura del male che vogliono evidenziare, spesso i riferimenti bibliografici utilizzano nomi diversi per riferirsi a Satana. Astarte, Belfagor, Belzebù, Azazél, Dagon, Moloch, Samael e molti altri. Questo caleidoscopio di volti che Satana può prendere lo si può ritrovare nei titoli utilizzati nel gioco della Blizzard. Diablo per esempio era il signore del Terrore. Questo titolo gli è stato affibbiato probabilmente nella speranza che sembrasse il più temibile nel trio a capo degli inferi. Il terrore infatti è la forma primordiale di minaccia, fin dal suo stato larvale l’umanità ha sempre conosciuto la paura e per questo il demone più potente poteva assumere solo quel titolo. 

Mefisto il diavolo tedesco

Accanto a Diablo, al vertice dell’Inferno, c’è Mefisto detto anche Mefistofele. Questo nome è spesso usato nel folkore tedesco per indicare il Diavolo. La figura di Mefistofele però è diversa da quella caprina di Satana. Il primo infatti è rappresentato spesso come un uomo vestito di nero con in mano un libro rosso. I due hanno in comune la caratteristica di stringere patti in cambio dell’anima della loro vittima. 

Mefistole è un demone menzionato anche nella leggenda di Faust di Goethe nella quale il dottor Faust stringe un patto col Diavolo, scambiando così la sua anima in cambio della conoscenza assoluta. Questo personaggio letterario ha condizionato anche il linguaggio contemporaneo dando origine all’aggettivo mefistofelico, utilizzato in riferimento a qualcosa di perfido, maligno e fuorviante. 

Mefisto in Diablo
Mefisto

Baal dio fenicio o demone?

Ultimo ma non meno importante è Baal. Il nome di questo personaggio potrebbe avere radici nella figura del dio Fenicio Baal. Esso era visto come il padre di tutti gli Dei, assumendo nella mitologia fenicia la stessa funzione di Crono in quella greca. Nella visione cananaica invece era visto come uno degli dei principali ma non come creatore degli dei. 

Molto più probabilmente però, il personaggio di Diablo, prende spunto dal demone Bael. Si tratta di uno dei dodici re dell’inferno e secondo le descrizioni che ne vengono fatte ha l’aspetto di un ragno con tre facce, una felina, una da rospo e una umana. Nel gioco della Blizzard la forma aracnoide è ripresa nel design del signore della distruzione ma anche qui, come nella figura di Mefisto non troviamo nessun’altra caratteristica in comune con la controfigura religiosa. 

Baal Diablo
Baal

Belial il falso idolo

Baal viene confuso spesso con Belial, altro demone della religione cristiana e ulteriore nome usato per riferirsi a Satana. Chi ha giocato il terzo capitolo della saga di Diablo conosce anche Belial. Il giocatore lo incontra nella città di Caldeum e aiuta ad intrappolarlo nella pietra nera delle anime. Belial fa parte di un gruppo di demoni minori che rovesciò il governo degli inferi quando il triumvirato di cui abbiamo parlato finora venne sconfitto. 

In Diablo, Belial è il signore della menzogna e infatti il suo nome in ebraico può prendere il significato di falso idolo. Questo demone dovrebbe quindi incarnare l’antagonismo della figura di Satana verso quella dell’unico e vero Dio cristiano. 

Belial
Belial

Azmodan, re dell’inferno

Nel terzo capitolo della saga di Diablo, una volta sconfitto Belial, entra in scena un demone dall’imponente figura. Si tratta di Azmodan che sfida Leah a fermare le schiere infernali al suo servizio che stanno per invadere Sanctuary. 

La figura di Azmodan sembra essere un potente generale degli inferi ed è sicuramente ispirato ad Asmodeo. Asmodeus è considerato uno dei dodici re degli inferi ed è un demone talmente potente da essere messo alla stregua di Lucifero e Satana. Altri lo associano addirittura al serpente che corruppe Eva nell’Eden e forse da questo deriva il titolo che gli viene dato in Diablo: “signore del peccato”. 

Azmodan Diablo 3
Azmodan nella visione di Leah

I Nephilim di Diablo

Alla fine del capitolo tre l’arcangelo Tyrael è preoccupato perchè il giocatore è diventato talmente potente da essere riuscito a sconfiggere Diablo nella sua forma fisica. Il personaggio giocato, indipendentemente dalla classe scelta, è chiamato il Nephilim per il suo misto tra demoni e angeli. Ebbene non vi sorprenderà sapere che nemmeno questi esseri per metà demoni o angeli sono frutto dell’immaginazione della Blizzard. I Nephilim erano esseri per metà umani e per metà demoni o angeli. 

Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta. 

Genesi 6:1-8

Questo passo della genesi suggerisce che metà del sangue di questi esseri è divino. Per figli di Dio infatti si intendono sia angeli che demoni. Ad una prima interpretazione essi infatti erano stati associati alle schiere di angeli caduti, ma in un secondo momento è sembrato più corretto interpretarli come angeli veri e propri. 

La creatrice Lilith

Arriviamo infine alla figura della creatrice di Sancturay, la demone Lilith. Figlia di Mefisto che assieme a Inarius fuggì dall’eterna guerra tra il cielo e gli inferi creando il mondo degli umani. Il trailer fornito dalla Blizzard durante il Blizzconline di quest’anno annuncia il ritorno di Lilith dal vuoto in cui era stata imprigionata. L’entrata ad effetto della creatrice può preannunciare di sicuro un’avventura epica, d’altronde è della regina dei demoni che stiamo parlando. Nella demonologia infatti Lilith è vista come la madre di tutti i demoni e simbolo della donna che non si sottomette all’uomo. Nel medioevo viene presto associata alla lussuria e alla stregoneria e quindi negli anni prende anche il titolo di prima strega.

Nella cabala ebraica però Lilith è invece la prima donna creata, precedente a Eva, che non accetta di sottomettersi ad Adamo. Ella viene creata dalla terra proprio come il consorte che però voleva comandarla e dimostrarsi superiore, Lilith non volle sottomettersi e quindi le venne affibbiato il titolo di demone.

La storia della Lilith di Diablo sembra accostarsi a quella della sua controparte religiosa. La creatrice di Sanctuary infatti si ribella insieme a Inarius che però alla fine la relega nel vuoto rinnegandola.

Lilith Diablo
Lilith

Diablo: un mondo di gioco indipendente

Nei Diablo i riferimenti demonologici a volte si limitano a rubare un nome o a deformare i personaggi religiosi per renderli conformi alla storia del gioco, tutto questo rende un gioco già magnifico ancora più bello. La storia, inserita tra i round di gioco con cut-scene o nascosta nelle descrizione degli oggetti, si sviluppa insieme al gioco ma anche indipendentemente da esso. L’universo di Diablo infatti, proprio come quello di altri giochi Blizzard, è così ampio da non limitarsi a contenere un unica storia ma lasciando al giocatore la possibilità di immaginare al di fuori del tracciato. Questo è il risultato di un buon world-building che non si limita a creare un universo fine alla storia.

Se le ambientazioni cupe di Diablo, la storia dal retrogusto infernale e i riferimenti alla demonologia cristiana non vi sono bastati allora forse potreste dare una sbirciatina anche a qualche altro gioco che tratta argomenti simili come Dante’s inferno.

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Recensioni

Lost in Random per Xbox Series X – Recensione

Recensione in un Tweet

Lost in Random è un bellissimo viaggio nella narrazione transmediale. Le opere cinematografiche di Tim Burton, i classici di Charles Dickens e le maschere teatrali si incontrano in un piccola gemma, che si ispira ai grandi con rispetto. Il meraviglioso lato artistico e il gameplay volutamente casuale che abbiamo amato durante la recensione di Lost in Random forniscono una decina di ore di divertimento, con la ripetitività come unica pecca.

8.5


Il mondo che narriamo nella nostra recensione di Lost in Random è soggiogato da una regina che ha in mano l’unico dado che gli permette di decidere il fato di tutti i suoi abitanti. Il compito di porre fine a questo totalitarismo è nelle mani di una bambina, Even, a cui è stato sottratto l’affetto della sua amata sorella, Odd. Sembrano i presupposti per una bellissima fiaba, invece è la trama che accompagna un meraviglioso videogioco che intreccia lo stile gotico di The Nightmare Before Christmas e Il mistero di Sleepy Hollow di Tim Burton con i classici romanzi con piccoli protagonisti come Oliver Twist.

Ocadnis in Lost In Random

Le facce del destino

L’opera di Zoink! ed Electronic Arts inizia a Primagora, il peggior posto in cui vivere nel regno di Alea. Tra gli uniani che abitano in questi bassifondi ci sono due sorelle: Even, protagonista del gioco e Odd, sua sorella maggiore. Le regole di Alea prevedono che durante il dodicesimo compleanno, tutti i bambini scoprono il proprio destino attraverso il lancio del dado nero per mano della Regina. Nel caso di Odd, il dado nero ha mostrato un sei, che significa lasciare tutto e partire per il posto più esclusivo del regno: Sest’Incanto.

Letteralmente strappata dalla propria famiglia da Tata Fortuna, Odd comincia la sua nuova vita con la Regina; in quell’esatto momento, inizia anche l’avventura di Even fra realtà e visioni oniriche. La ricerca di Odd ci porterà a visitare i posti più pericolosi di Primagora e fare la conoscenza di un simpatico compagno d’avventura: Dicey. Andando avanti con la trama, scopriremo che prima della dittatura, Alea era il luogo d’incontro dei dadomastri. Essere umani e dadi vivevano insieme in un reame che prevedeva continui scontri, fino a quando la Regina decise di essere l’unica che avrebbe posseduto un dado (nero).

Tata Fortuna di Lost In Random

Un percorso semplice

Even e Dicey viaggeranno per tutte le città del regno, contraddistinti da un nome che ricorda una delle sei facce di un dado, accompagnati da una voce narrante, che ci ricorda costantemente che siamo all’interno di un cupo romanzo.

La storia di Lost in Random procede con linearità, ma gli incontri con i vari personaggi non giocanti saranno sempre vivaci. Questo rende un teorico percorso unidirezionale, un tortuoso viaggio tra le emozioni degli abitanti di Alea, che grazie ad Even prenderanno coscienza di quanto odino il totalitarismo aristocratico.

Dicey

Incontri casuali

La ricerca di Odd porterà Even e Dicey a scontrarsi con le guardie della Regina. Ogni combattimento è in tempo reale e prevede l’utilizzo dei poteri del nostro dado, alimentato da cristalli; essi sono sbloccati colpendo gli avversari con la fionda in un punto specifico, oppure sconfiggendo i nemici. I cristalli permetteranno di pescare delle carte dal mazzo di 15 carte che potremmo formare come meglio crediamo. Una volta pescata la prima carta, potremmo decidere di lanciare Dicey, che genererà una pausa tattica: il valore ottenuto sarà il numero di punti che potremmo spendere per giocare le nostre carte.

Le carte sono divise in armi, pericoli ( danni “magici” extra) e trucchi per ottenere vantaggi. Grazie all’aiuto di Max Mazzieri (e delle monete che raccoglieremo) potremmo avere sempre più carte per formare il nostro mazzo, ma una volta trovata la nostra combinazione preferita, finiremo per optare per la stessa strategia fino alla fine del gioco.

Un’altra modalità interessante in cui affronteremo i nostri avversari è il gioco da tavolo. Saremo catapultati in una plancia di gioco, dove muoveremo la nostra pedina lanciando Dicey. Ogni gioco da tavolo ha le sue regole, ma lo scopo sarà sempre arrivare all’ultima casella.

Arte allo stato puro

Lost in Random ha una qualità artistica di livello assoluto. I disegni ricordano le opere più apprezzate di Tim Burton, ma anche personaggi iconici dei videogiochi. Per esempio, noi abbiamo visto nelle movenze di Tata Fortuna lo sfortunato Abe di Oddworld, di cui il titolo condivide anche lo stile steampunk. Inoltre, a dispetto dei classici platform (come Super Mario o Crash Bandicoot), le avventure di Even hanno un taglio maggiormente ruolistico; chi ne avrà voglia, potrà dialogare con tantissimi personaggi, che aumenteranno esponenzialmente il proprio carisma parola dopo parola.

In questa recensione di Lost in Random, sentiamo il dovere di fare i complimenti al team di Zoink! anche per il comparto audio. Se la componente visiva ci fa assistere a uno spettacolo teatrale, lo stesso fanno le voci forti e caratteristiche di questo videogioco; infatti, ogni personaggio secondario ha la sua “maschera”, che viene sapientemente raccontata dalla maestria del narratore, che ci accompagnerà anche nei momenti più macabri.

L’unico punto negativo che non permette al gioco di annoverarsi tra i capolavori è la costante ripetitività del gioco. Gli avversari saranno gli stessi per la maggior parte dei combattimenti, mentre la trama prosegue un percorso lineare senza mai cambiare radicalmente rotta. I viaggi nei sogni di Even spezzano la monotonia, ma non sono sufficienti per cambiare il ritmo del videogioco.

Deck building di Lost in Random

Xbox Series X

Questa recensione di Lost in Random è stata vissuta su Xbox Series X. Il lato artistico è la parte più bella del gioco e viene ampiamente goduta grazie alla risoluzione 4K della console. Menzione d’onore per i caricamenti, praticamente immediati nella maggior parte dei casi, e che comunque non superano mai una manciata di secondi.

Sogno in Lost in Random

Conclusione

Zoink! si è meritato un posto d’onore in quella terra di mezzo tra i videogiochi indipendenti e i “doppia A”. Lost in Random è una bella avventura platform a tinte GDR adattata a tutta la famiglia, che non indispone mai i fan più hardcore. Un romanzo tra sogno e realtà che ci ricorda il periodo storico che stiamo vivendo: l’era più importante della narrazione transmediale. Lost in Random è un viaggio obbligatorio ed economico, visto il prezzo proposto, per due motivi: ci riporta indietro fino all’infanzia e ci fa guardare con ottimismo il lucente futuro di Zoink!

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: azione, gdr
  • Lingua: Italiano (sottotitoli)
  • Multiplayer: No
  • Prezzo29,99€

Ho combattuto e amato la casualità di Alea per circa 12 ore grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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Recensioni

Death’s Door per Xbox Series X – Recensione

Recensione in un Tweet

Death’s Door è la versione contemporanea dei giochi d’azione old school. Il titolo è decisamente meno impegnativo dei suoi predecessori, ma fornisce un’esperienza praticamente perfetta in tutte le sue componenti. L’opera di Acid Nerve non ha nessun punto debole e qualunque sia la vostra priorità quando valutate un videogioco, Death’s Door vi sorprenderà, facendovi divertire per ore.

9


Negli ultimi anni, i videogiochi indipendenti hanno colmato il vuoto delle major producendo titoli action che hanno settato i nuovi standard dell’industria. Dopo i successi di Supergiant Games (Hades) e Motion Twin con (Dead Cells), riuscire a produrre qualcosa di innovativo è decisamente complicato, ma neanche necessario. Death’s Door è la dimostrazione vivente che per creare una piccola gemma è sufficiente prendere il meglio di quanto già giocato, adornalo con uno stile artistico sublime e cucirgli addosso una trama toccante.

L’ineluttabilità della morte

Death’s Door racconta la ciclica vita dei corvi, animali che hanno il compito di traghettare gli esseri viventi dal mondo dei vivi verso l’aldilà. Ad ogni soul reaper viene assegnata una porta, che rimane aperta fino a quando l’anima prescelta non passa a miglior vita. Una volta terminato il compito, la porta si chiude e un’altra si apre, in un ciclo infinito.

Dietro questa fondamentale missione ci sono pennuti costretti a un lavoro ingrato e noioso; di gran lunga più simile a un’ordinaria giornata d’ufficio postale, piuttosto che a fantastiche avventure in un contesto mitologico.

Purtroppo, anche questo moto perpetuo è imperfetto: ci è stata sottratta la nostra ultima anima, con il risultato che non potremmo chiudere la nostra porta fino a quando non la ritroviamo. Come da contratto, fino a quando una porta è aperta, siamo mortali e rimarremo tali fino a quando essa non sarà chiusa.

Nella realtà dei fatti, le porte che dovremmo aprire prima di raggiungere l’agognata meta saranno svariate. Muoversi all’interno delle porte comporterà scontrarsi con creature, che si opporranno alla nostra missione; solo i colpi di arma da taglio e magia ci permetteranno di avanzare. I tanti scontri che affronteremo ci condurranno alla Death’s Door; la porta che nasconde un triste passato fatto di regnanti oppressori, che ingiustamente hanno sovvertito la naturale regola della mortalità, almeno fino ad oggi.

Inspirato

Death’s Door è un crogiolo di riferimenti dei migliori videogiochi degli ultimi anni. Un videogiocatore attento noterà citazioni in tutte le componenti del titolo e rimarrà sorpreso di quanto siano geniali quelle su The Legend of Zelda e Dark Souls.

Nonostante il sub-genere più pertinente sia l’action isometrico, l’opera di Acid Nerve contiene al suo interno un’anima da Metroid “opzionale”; infatti, anche sbloccando nuove abilità, sarà necessario tornare indietro solo per brevi tratti, a meno che non si voglia completare il gioco al 100%. In quest’ultimo caso, dovremmo rivedere i livelli precedenti e utilizzare le nuove magie per raggiungere mete secondarie.

Nonostante la visuale isometrica ricordi Diablo e Hades, Death’s Door adotta un gameplay molto più simile alle avventure Nintendo. Il gioco è suddiviso in livelli a cui accederemo attraverso una hall come in Super Mario 64, ma ognuno di questi è un vero e proprio micro-mondo di The Legend of Zelda; infatti, le mappe sono predefinite, i nemici respawnano sempre negli stessi punti e sarà fondamentali imparare i percorsi da seguire e i pattern dei nemici.

Pochi precisi colpi

Death’s Door non offre un gameplay particolarmente variegato, ma tutto funziona estremamente bene. I nostri attacchi principali sono tre: attacco base con un certo numero di colpi consecutivi (swing) che dipendono dall’arma; attacco caricato, che dopo un attimo di pausa fa un danno ad area; attacco in corsa, che dopo una capriola effettua un danno ad area, ma necessita di prendere le misure con estrema accuratezza.

A questi, si aggiungono gli attacchi speciali: essi permettono di fare danno magico aggiuntivo, ma il loro scopo principale è risolvere una serie di enigmi ambientali per andare avanti tanto nella missione principale quanto nei percorsi secondari.

Piccole migliorie

Durante la partita partiremo con quattro cuori, che rimarranno tali, a meno di non riuscire a trovare tutti e quattro gli altari nascosti, che ci permetteranno di avere al massimo un cuore in più (il medesimo discorso vale per le barre dell’attacco speciale).

La stessa pecunia di miglioramenti vale per armi e abilità. Le prime sono cinque e totalmente opzionali: si trovano solamente seguendo percorsi alternativi e cambiano solo parzialmente il vostro stile di gioco rendendolo più o meno veloce. Le abilità, invece fanno parte della storia principale e saranno fondamentali per svolgere gli enigmi tanto della missione principale quanto dei percorsi più nascosti, ma anch’essi sono solamente quattro: arco, gancio, palla di fuoco e bomba magica.

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Potremmo acquistare dei miglioramenti alle statistiche con una valuta ottenibile sconfiggendo i nemici che incontreremo lungo il percorso; considerando che ogni volta che moriremo, le creature ritornano in vita, sarà impossibile avere un vero e proprio stallo, poiché la morte ci consentirà comunque di accumulare risorse da spendere per diventare più forti.

Death’s Door non è un titolo estremamente difficile, ma la possibilità di errore è ridotta al minimo a causa del basso numero di cuori e barre di attacco speciale (che si ricaricano dopo ogni colpo messo a segno). Aspettatevi di morire e ripartire dall’ultima porta più volte, ma chiunque dovrebbe essere in grado di arrivare al boss finale, che richiede un maggiore impegno (e un’attenzione ai dettagli maniacale) rispetto al resto del gioco.

Pattern collaudati

Tutte le creature che dovremmo affontare, dai minion fino alle giant soul, hanno dei movimenti e degli attacchi predefiniti; questo rende il gioco abbastanza prevedibile per i più esperti, ma anche un’ottima palestra per i casual gamer. I boss principali da affrontare sono cinque, a cui si aggiungono una serie di mini-boss decisamente coriacei. Queste creature hanno un enorme carisma che proviene dal loro set di mosse e movimenti e che aumenta ulteriormente per le giant soul; infatti, queste anime dialogheranno con noi e ci mostreranno la grandezza della loro immortalità attraverso un level design dei loro mondi sublime, oltre a una caratterizzazione artistica di prim’ordine.

Conclusione

Death’s Door è un titolo eccezionale, che ricalca i capolavori del passato fornendo un’esperienza di gioco completa in tutti i suoi punti principali: il livello artistico è magnico; il level design rende la sfida sempre nuova e intrigante; i nemici principali hanno carisma da vendere; il titolo riesce a essere impegnativo, ma mai impossibile.

Per il prezzo a cui viene proposto, Death’s Door è un must per qualsiasi videogiocatore che voglia cimentarsi in un action isometrico per una decina di ore: gli esperti potranno cogliere i riferimenti ai vari capitoli di The Legend of Zelda, dalle armi alle creature; i neofiti potranno innamorarsi di un genere storico, provando un po’ di frustrazione tipica di questo genere, senza mai avere la paura di doverlo abbandonarlo per un eccesso di difficoltà.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Action isometrico
  • Lingua: Inglese
  • Multiplayer: No
  • Prezzo19,99€

Ho traghettato le anime più affascinanti del mondo per circa 10 ore grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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Società

E3 2021, la strategia coloniale di Xbox e le contromisure nipponiche

Dopo l’acquisizione di ZeniMax Media da parte di Microsoft, il settore videoludico sta attraverso un periodo di colonialismo in cui i colossi dell’industria stanno intensificando le acquisizione e le collaborazioni con i publisher third-party. L’E3 di Xbox è stata la risposta all’alleanza nipponica del 2021 tra PlayStation e Capcom con Resident Evil Village, ma le schermaglie sembrano solamente appena iniziate.

L’acquisizione statunitense

Ad oggi, Xbox Game Studios contiene 15 studi di sviluppo e la recente acquisizione di Id SoftwareBethesda Softworks e Arkane Studios ha causato un profondo terremoto nel settore. Per questo, da settembre 2020, Sony e Nintendo stanno sicuramente riflettendo su come arginare la valanga di dollari che si è riversata sull’industria dei videogiochi, ma ora devono affrontare i colpi più potenti di Xbox presentati durante l’E3 2021.

Mentre le console next-gen scarseggiano e le grandi esclusive PlayStation 5 sono rinviate al 2022 (God of War, nonostante l’eccezione Ratchet & Clank: Rift Apart), Microsoft propone sul proprio abbonamento 29 titoli nel solo 2021 tra cui Halo Infinite, l’intera serie Fallout, un aggiornamento next-gen per Doom Eternal e Yakuza: Like a Dragon di cui parleremo a breve.

Infografica degli annunci E3 sull’Xbox Game Pass

L’asse del Sol Levante

Per rispondere al colonialismo yankee, sin dalla prima parte del 2020, Sony ha stretto un evidente accordo con due dei maggiori publisher giapponesi: Square Enix e Capcom. La prima gli ha portato in dote l’esclusiva (teoricamente) temporale di Final Fantasy VII Remake, mentre Capcom ha basato tutto il marketing di Resident Evil Village su PlayStation 5. Infatti, tutti i filmati sono stati registrati su PS5 ed entrambe le demo sono prima arrivate sulla console nipponica.

Sicuramente anche Sony guarda fuori dalla propria casa come dimostra l’acquisizione di Team Asobi (Astro’s Playroom), ma la strategia sembra basata sul consolidare la propria presenza in ambienti già collaborativi. Per questo motivo, ci aspettiamo che il marchio PlayStation porti con sé una serie di esclusive temporali con i maggiori publisher third-party, non necessariamente orientali. Per farlo, sarà necessario curare bene la fase diplomatica su cui Sony ha dimostrato difficoltà come quando ha escluso Cyberpunk 2077 dallo store PlayStation oppure durante le diatribe con il guru giapponese Hideo Kojima, che ad oggi non si capisce quale parte abbia scelto.

I dissidenti nipponici

La strategia Sony ha portato enormi successi durante l’ultima generazione, ma non tutte le terze parti orientali stanno formando un solido muro intorno al prodotto giapponese. Yakuza: Like a Dragon, uscito poco più di sei mesi fa, è stato appena annunciato sull’Xbox Game Pass, che ha così l’intera serie sul proprio catalogo. Una notizia interessante, che diventa importante se pensiamo all’interesse dimostrato da Xbox durante l’E3 su una serie sviluppata da giapponesi (SEGA), che parla di giapponesi e pensata soprattutto per i giapponesi.

Il secondo e terzo indizio che fanno una prova sono altri due titoli chiaramente provenienti dal Sol Levante e annunciati durante l’E3: Eiyuden Chronicle: Hundred Heroes e lo spin-off Eiyuden Chronicle Rising. L’erede spirituale di Suikoden di Konami è stato realizzato da Rabbit & Bear Studios sotto la supervisione proprio di Yoshitaka Murayama ed è chiaramente molto più appetibile in Giappone piuttosto che in Occidente.

Bunker Nintendo

In attesa della presentazione di Nintendo all’E3 2021, possiamo solo dire che la strategia di Shuntaro Furukawa sembra essere fortemente conservativa. Nintendo continua a mantenere buoni rapporti con i publisher giapponesi senza forzare la mano, come dimostra la sola esclusiva temporale di Monster Hunter Rise e non sembra interessata a partecipare alla corsa coloniale, limitandosi ad acquisire team praticamente interni (Next Level Games) e creando i propri capolavori a casa con gruppi ormai consolidati da decenni.

Attualmente i dati dimostrano che la soluzione Nintendo funziona, che forte dell’appeal dei suoi marchi porta avanti importanti partnership come quella con Ubisoft dell’appena annunciato Mario + Rabbids: Sparks of Hope. In altre parole, un attendismo prudente di un’azienda consapevole della forza delle sue IP.

Conclusione

La pandemia ha inciso molto sulle carenti uscite dei videogiochi nell’ultimo anno e mezzo, ma i grandi del settore non hanno perso tempo, stabilendo strategie più o meno chiare sul futuro.

Microsoft sta sferrando i suoi colpi più potenti, mentre Sony prova a mitigare l’avanzata con la forza del proprio marchio, che ammalia i brand third-party più influenti del Sol Levante. D’altro canto, Nintendo sta guadagnando i massimi approfittando delle difficoltà della next-gen e producendo i suoi capolavori, con estrema calma, nei suoi studi interni.

Difficile dire come sarà il settore videoludico tra qualche anno, ma sembra che le distanze si stiano sempre di più assottigliando grazie a una maggiore competizione tra i brand, che portano a un unico vincitore: il videogiocatore.

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Recensioni

Resident Evil Village per Xbox Series X – Recensione

Recensione in un Tweet

Morimasa Sato è riuscito nell’intento di prendere tutto il meglio della serie evitando i capitoli meno apprezzati. Il livello artistico di Resident Evil Village permane ad altissimi livelli per tutto l’inizio del gioco per poi diventare più anonimo nella parte centrale, esattamente in corrispondenza della deriva action del titolo, che allontana nuovamente la serie dal genere dei survival horror.

8.5


I survival horror vivono su un’onda sinusoidale lunga quasi trent’anni, i cui picchi sono costellati di titoli della saga Resident Evil. Nonostante Biohazard non sia il creatore del genere (la lotta è ormai consolidata tra Alone in the Dark e Clock Tower), e il trono di miglior serie è da contendere con gli orrori di Silent Hill, Resident Evil detiene indiscutibilmente il record della serie horror più famosa e longeva, grazie ai suoi venticinque anni scanditi da enormi successi, che ovviamente aumentano le aspettative su ogni capitolo. Lo stesso vale per Resident Evil Village, séguito diretto di Resident Evil 7 che ha (parzialmente) allontanato il nome Biohazard dalla strada action battuta dai predecessori per ritornare nella famiglia dei survival horror, il genere inizialmente pensato da Shinji Mikami per il suo terrore.

Abbiamo lasciato il mondo di Resident Evil 7: Biohazard con un finale molto simile a quello di uno sparatutto in terza persona e con Ethan Winters che riesce a ricongiungersi con la sua amata Mia. E ripartiamo tre anni dopo proprio da qui.

La perfetta famiglia americana

Resident Evil Village esalta l’importanza della famiglia in tutti i sottogruppi della sua società, dalla famiglia statunitense Winters fino al remoto villaggio dell’est Europa. Le battute iniziali del nuovo titolo ci portano in Louisiana, tra le calde mura della famiglia di Ethan, Mia e la nuova arrivata Rosemary Winters. Come possiamo aspettarci dal genere, questo tenero quadretto familiare non è destinato a durare. Infatti, dopo poco vivremo in prima persona l’irruzione cinematografica di Chris Redfield, che fredda Mia e porta via Rose nel giro di pochi minuti.

La sorte di Ethan Winters invece prevede un trasporto verso una base militare che terminerà in un incidente mortale per tutti i componenti della squadra ad eccezione di Ethan e di sua figlia Rose, sequestrata da non meglio identificati delinquenti in un inospitale villaggio slavo.

Il luogo vive sotto il culto di Madre Miranda, divinizzata protettrice, a dire dei suoi abitanti, del villaggio, almeno fino ad oggi. Infatti, quando prenderemo finalmente le sembianze di Ethan faremo conoscenza degli ultimi abitanti del villaggio prima di vederli morire sotto i colpi di feroci licantropi. In altre parole, siamo nuovamente da soli in una remota zona del globo, circondati da efferati mostri e alla ricerca di un altro membro della nostra famiglia. Questa volta però non si tratta di Mia, come nel capitolo precedente, ma di nostra figlia Rose.

Cinque sotto un tetto

Se il nucleo familiare è ovviamente importante per i “buoni”, lo stesso si può dire per gli antagonisti della nuova trilogia. Esattamente come la famiglia Baker, che viveva il suo personale orrore con una distorta coesione, anche in Resident Evil Village gli affetti saranno parte fondamentale del male. Quest’ultimo è composto da cinque membri, quattro lord e una signora al di sopra di tutto, Madre Miranda per l’appunto. L’idea generale di Morimasa Sato, director del gioco, ruota attorno alla nascita del male a seguito di un amore non corrisposto e ogni signore avrà il proprio personale dolore. Alcina Dimitrescu, la prima che affronteremo e ampiamente pubblicizzata da Capcom, ama morbosamente le tre figlie Bela, Daniela e Cassandra, mentre gli altri tre lord vivono tutte le storture dell’amore: la solitudine compensata dall’affetto di dagide, la mancanza di attenzioni e autostima e la ribellione nei confronti di una dispotica divinità.

Una dolorosa fusione

Le nette differenze nelle emozioni dei lord si notano sia nella parte artistica dei quattro signori quanto nelle ambientazioni in cui li affronteremo. Il level design prescelto prevede la suddivisione in quattro aree ben distinte collegate dal villaggio, con stile artistico e nemici totalmente diversi tra loro.

Resident Evil Village prende a piene mani da Resident Evil 7 e addirittura estende gli omaggi collegando le trame dell’intera lore della serie, dal primo capitolo fino al settimo. Il villaggio, a meno degli stupendi picchi innevati, ricorda l’ambientazione spagnola di Resident Evil 4, mentre il Castello Dimitrescu è un chiaro riferimento alla casa del capostipite. In entrambi i casi, l’egregio lavoro artistico svolto da Tomonori Takano a livello visivo e da Shusaku Uchiyama sul comparto audio è così straordinariamente elevato che potrà essere preso da esempio per tutti i futuri giochi della saga. Purtroppo, gli alti standard della prima parte non sono mantenuti per tutti il gioco. Infatti andando avanti con il titolo tutto sembra molto più simile e piatto.

Come avrete intuito, il gioco si svolgerà in molte più aree rispetto al solo villaggio e castello mostrato dalle demo. Questo causa un senso di eterogeneità che catapulta il videogiocatore in qualcosa più simile a un titolo a piattaforme piuttosto che un survival horror, con troppe disconnessioni sorrette da un sottile filo non troppo convincente rappresentato dal villaggio. Non stupirà quindi avere un proprio nemico preferito che oscurerà gli altri e che non permetterà di valutare facilmente il gioco nella sua interezza. Infatti, i lord, e tutto ciò che è a loro legato, sono così diversi che daranno certamente vita a un dibattito su chi sia più interessante tra Alcina Dimitrescu, le bambole di Donna Beneviento, il kappa Salvatore Moreau e l’arrogante ingegnere Karl Heisenberg.

Contrasti sublimi

I forti contrasti sono alla base del gioco di tutte le componenti di Resident Evil Village, uno dei più riusciti è il design di personaggi e nemici.

La fusione prevede il mix tra neoclassicismo e arte giapponese. La prima è ben visibile già dall’inizio, quando faremo conoscenza dei volti dei pochi superstiti del villaggio, facce pesantemente scolpite dai segni della fatica e del dolore, rappresentati da nette linee nere che rievocano esponenti come Felice Giani. Lo stile nipponico invece riadatta alcuni dei più famosi miti e parte della tipica fauna. Questo prevede un’eterogeneità che spazia tra gli occidentali vampiri e gli orientali takaonna passando per l’inconsueta creatura nipponica nota come narke.

Una macchina da guerra

Sin dal primo incontro con il Duca, capiamo che il gioco ruota tutto intorno a delle meccaniche GDR in cui è possibile potenziare il proprio equipaggiamento. Una scelta non sempre troppo apprezzata sin da Resident Evil 4, ma che Capcom ha deciso di percorrere dopo gli orrori di Resident Evil 7, che premiavano la fuga sullo scontro. Tutto questo cambia in Village, perché i nemici lasceranno sempre un drop che può essere un materiale per le creazione dell’equipaggiamento, denaro o oggetti di valore scambiabili per la valuta corrente. Questo spingerà il giocatore ad affrontare i nemici con maggior frequenza, consci che c’è spesso un guadagno nel consumare le munizioni. Se inizialmente le nostre armi non saranno così potenti da giustificare un assalto frontale, già all’interno del castello capiremo che anche una pistola ben potenziata fornisce un giusto rapporto costo/benefici a vantaggio dell’abbattimento dei mostri.

Purtroppo, così come già successo in passato, questa scelta comporta una minor ansia rispetto ai capitoli più survival della saga a favore di una componente action che alimenta un vero e proprio climax culminante con il finale di gioco. Sotto questo punto di vista, il paragone con Resident Evil 7 è impietoso, perché quanto di buono ricostruito con la famiglia Baker, viene poi demolito dalla necessità di far imbracciare le armi ancora una volta. Non siamo ai livelli esagerati di interazione del quinto e sesto capitolo, ma più andremo avanti nell’avventura e più vedremo il nostro personaggio trasformarsi in una macchina da guerra.

Per questo ricordiamo con piacere la prima parte del gioco in cui non saremo abbastanza forti da essere senza paura e ameremo Donna Beneviento, un lord che affronteremo interamente senza armi, provando alcuni momenti di vero terrore dato dal palpabile esoterismo dell’abitazione. Con meno orgoglio invece narriamo le restanti boss fight, in cui i colpi d’arma da fuoco faranno passare in secondo piano qualsiasi strategia rendendole tutte troppo simili tra loro ed eccessivamente confusionarie.

Conclusione

Resident Evil Village racchiude in sé venticinque anni della serie con tutti i suoi picchi positivi, ma senza mai raggiungere le sue clamorose débâcle. Il nuovo capitolo della serie abbraccia il genere del survival horror per poi virare, non troppo gradualmente, in un’ottica decisamente action. Se siete amanti della serie, Resident Evil Village sarà una piacevole scoperta, che potrà non piacere a tutti gli amanti dei primissimi capitoli, ma che farà la felicità dei fan di Resident Evil 4. Il paragone con Resident Evil 7 vede come vincitore quest’ultimo perché Village esalta maggiormente una delle componenti più fastidiose della nuova trilogia, cioè la netta dicotomia tra la prima e la seconda parte dei titoli.

Se non avete mai giocato un Resident Evil, sarebbe opportuno recuperare il capitolo precedente, poiché il nuovo Biohazard chiarisce diversi punti della trama dell’intera saga, concentrando l’attenzione su Ethan Winters e fornisce un finale decisamente sorprendente che apre a scenari tutti da scrivere. Qualsiasi sia la vostra decisione, confermiamo la bontà del progetto. Resident Evil Village è un titolo di elevato spessore artistico, che vi terrà piacevolmente impegnati per poco meno di dieci ore, ma non sempre con l’ansia dei titoli più apprezzati ad attanagliare il vostro cammino.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: survival horror (ma anche tanto sparatutto)
  • Lingua: italiano
  • Multiplayer: no
  • Prezzo69,99 euro

Abbiamo affrontato il personale orrore di Ethan Winters per circa 10 ore grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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