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Tekken 8: abbiamo provato la demo

Durante lo scorso weekend Namco ha messo a disposizione per un numero limitato di utenti il closet network test di Tekken 8. Dopo diverse ore di durissimi scontri siamo pronti per condividere con voi le nostre impressioni sulla demo. Imbracciamo i guantoni e prepariamoci a tornare sul ring!

Una veste grafica di tutto rispetto

Dal punto di vista grafico, il nuovo Tekken si mostra assolutamente all’altezza delle console next gen. I personaggi sono estremamente ben definiti, con modelli ricchissimi di dettagli e appaiono ancora più realistici grazie agli impressionanti effetti di luce. Anche le espressioni facciali sono rese in modo davvero preciso e realistico.

I quattro stages disponibili, pur senza far gridare al miracolo, propongono panorami piacevoli e abbastanza dettagliati. Colpiscono in particolare le ambientazioni in cui è presente il pubblico, che presentano un numero di personaggi animati davvero elevatissimo.

L’aspetto più spettacolare della grafica di Tekken 8 è sicuramente la resa degli attacchi speciali. Tutte le mosse e gli impatti del titolo Namco sono infatti accompagnati da spettacolari esplosioni, lampi di luce e numerosi altri effetti visivi, che rendono ogni sfida una vera festa per gli occhi.

Tekken 8: grafica
La grafica di Tekken 8 sembra davvero buona, pur senza far gridare al miracolo

Il sonoro, infine, è in linea coi titoli precedenti della serie e ripropone un mix di musica rock e techmo a cui tutti i fan di Tekken sono ormai abituati e che, anche in questo caso, fa il suo dovere. Pur senza presentare tracce particolarmente memorabili, le musiche di Tekken 8 risultano un buon accompagnamento tra una mazzata e l’altra.

In sintesi, Tekken 8 sembra un prodotto assolutamente valido dal punto di vista grafico ed è uno dei picchiaduro più belli da vedere in circolazione. Tuttavia, rispetto a titoli come il nuovo Mortal Kombat e in parte anche Street Fighter 6 (che abbiamo recensito), Tekken 8 non sembra proporre un salto qualitativo così netto rispetto al settimo capitolo. Vedremo se nella versione finale Namco saprà migliorare ulteriormente il comparto grafico del gioco in modo da lasciarci per davvero a bocca aperta.

La demo metteva a disposizione ben 16 lottatori diversi.

Tante vecchie conoscenze

Parlando del roster, la demo di Namco ci ha permesso di testare ben 16 lottatori diversi. Tra di essi non si trova alcuna new entry, visto che tutti i personaggi selezionabili erano già presenti in Tekken 7.

Unica eccezione è il graditissimo ritorno di Jun Kazama, la madre di Jin, data per morta fin dai tempi di Tekken 2 e ora ritornata in una veste grafica totalmente rinnovata e con un set di mosse davvero interessante e spettacolare.

Per il resto tutti i personaggi presenti sono sembrati fedeli alla loro caratteristiche passate, anche se ognuno di loro ha mostrato numerosi potenziamenti e un buon numero di nuovi attacchi e combo. In queste prime fasi il roster è parso piuttosto bilanciato, anche se è davvero troppo presto per valutazioni di questo genere.

Tekken 8 sembra davvero promettere bene.

Un gameplay frenetico

La demo che abbiamo provato consentiva solamente di provare la modalità online del gioco. Tra uno scontro e l’altro, il giocatore aveva anche la possibilità di fare pratica con i comandi di ogni lottatore e persino con delle utilissime sfide combo.

Dopo una lunga serie di scontri, quel che ci ha maggiormente colpiti è il cambio profondo apportato al ritmo e alla velocità delle battaglie. Ad un primo impatto, il nuovo capitolo di Tekken sembra restare fedele alla tradizione della serie. Quattro pulsanti, due per i pugni e due per i calci, possibilità di parare premendo indietro e gioco incentrato sul tempismo dell’attacco e sulle combo aeree.

Tuttavia, questo ottavo capitolo inserisce una serie di meccaniche che vanno a rimescolare parecchio le carte in tavola e che sembrano strizzare l’occhio ai neofiti. Sono proprio queste meccaniche, come vedremo, a rendere le sfide di Tekken 8 ancora più serrate e frenetiche.

Gli scontri di Tekken8 sono ancora più veloci e frenetici che in passato.

Quando l’atmosfera si scalda

Il principale responsabile dei cambiamenti avvenuti nel gameplay è il nuovo Heat system. In Tekken 8 infatti è presente un nuovo indicatore, denominato proprio Heat, posizionato proprio sotto la barra dell’energia vitale. Una volta innescata la modalità Heat, essa dona per un periodo di tempo limitato una serie di potenziamenti.

L’Heat può essere attivato tramite particolari attacchi. Il principale di essi è l’Heat Burst, un attacco diretto, attivabile tramite la semplice pressione di un tasto dorsale, che permette di entrare in stato di Heat. Tuttavia i lottatori dispongono di numerosi altri colpi, denominati Heat Engager, in grado di innescare l’Heat in maniera ancora più veloce e aggressiva. Imparare a padroneggiare questi nuovi attacchi sarà vitale per ottenere dei buoni risultati.

Una volta attivato lo stato di Heat, il nostro personaggio potrà eseguire una serie di attacchi unici (Nina ad esempio può ricorrere alle sue pistole), infliggere danno anche in caso di parata, recuperare energia tramite gli attacchi e potenziare i propri attacchi base.

In stato di Heat sarà anche possibile eseguire una particolare mossa speciale, chiamata Heat Smash, che andrà ad esaurire totalmente l’indicatore Heat ma sarà in grado di infliggere danni davvero pesanti, soprattutto se inserita in una combo.

Il nuovo Heat systema modifica in maniera davvero radicale il gameplay.

Esplosione di rabbia

Fa il suo ritorno anche la meccanica della Rage. Dopo che i nostri punti vita saranno calati oltre un certo limite, infatti, si innescherà lo stato di Rage e i nostri attacchi inizieranno ad infliggere molti più danni. Quando poi resterà solo una manciata di energia, la barra della vita inizierà a lampeggiare. In questa situazione sarà possibile eseguire le Rage Art, potentissime mosse speciali in grado di “bloccare” il tempo al momento della loro esecuzioni e capaci di infliggere danni davvero mostruosi.

Risulta evidente come, con tutti questi attacchi a disposizione, ogni round di Tekken 8 possa essere risolto in pochissimo tempo grazie ad un numero anche molto limitato di attacchi. Vista la presenza di colpi così potenti, è chiaro che la strategia di gioco più efficacie consiste, almeno per quanto visto finora, in un gioco estremamente incalzante ed aggressivo, che vada ad aprire una breccia nella difesa dell’avversario per poi punirlo grazie ad un uso sapiente dell’Heat.

L’impressione generale però è che tutte queste novità vadano a togliere importanza a gran parte delle mosse “comuni” dei lottatori. La presenza di mosse come gli Heat engager, infatti, sembra rendere inutile buona parte degli altri attacchi e rischia di creare un meta dominato da un numero limitato di mosse e dalle strategie volte a massimizzare il loro danno.

Una situazione di questo tipo sembrerebbe andare a favore dei neofiti, che avrebbero un numero minore di attacchi e combinazioni da imparare per essere competitivi, ma rischia di scontentare lo zoccolo duro dei fan, abituati ad un gameplay profondo e ricchissimo di mosse da imparare.

Fanno il loro ritorno le rage art, in tutta la loro potenza distruttiva.

Un Tekken per tutti

A proposito di aperture verso i neofiti, anche il nuovo Tekken, in linea con quanto visto in Street Fighter 6, propone un set di comandi semplificati. Premendo il tasto L1, infatti, il gioco passa in modalità “semplificata”.

In questa situazione, la pressione di un singolo tasto attiverà una serie di combo preimpostate, senza bisogno di alcun comando speciale. Questa scelta, oltre ad offrire un gioco semplificato per i nuovi giocatori, permette anche di sondare più velocemente il potenziale di un personaggio, osservandone le combo principali e gli attacchi più efficaci.

Interessante notare come sarà possibile attivare o disattivare i comandi semplificati in qualsiasi momento dello scontro, cosa che potrebbe rivelarsi un’ottima strategia per attuare facilmente le combinazioni più ostiche. Personalmente apprezzo la scelta di Namco, che fornisce la possibilità anche a giocatori meno esperti di dire la loro, fornendogli anche un ulteriore aiuto per apprendere le basi dei personaggi.

Anche Tekken 8 presenta un set di comandi semplificati

Conclusioni

In conclusione, questo primo assaggio del nuovo Tekken ha sicuramente ben impressionato. Come già detto, a livello tecnico Tekken 8 sembra davvero ben realizzato e presenta una grafica di ottimo livello. Anche il gameplay, con il suoi ritmo indiavolato e i continui capovolgimenti di fronte, ci è parso davvero divertente e coinvolgente.

Il grande interrogativo restano le nuove mosse Heat. Sarà davvero interessante scoprire quanto esse saranno effettivamente dominanti e se i giocatori apprezzeranno tutte le nuove meccaniche. Non resta che metterci in meditazione e attendere il momento in cui potremo calcare di nuovo il ring. Non vediamo davvero l’ora!

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Exoprimal – Recensione

Fin dal rilascio della prima demo del gioco, Exoprimal aveva catturato il nostro interesse (per chi se la fosse persa ecco la nostra prova ). Lo sparatutto Capcom, forte di un’idea di base decisamente insolita e di un design molto azzeccato, sembrava avere potenzialità decisamente buone.

Da qualche giorno Exoprimal è finalmente uscito e abbiamo avuto la possibilità di provarlo in modo approfondito. Siamo di fronte ad un ennesimo successo per la casa di Osaka? Scopriamolo insieme!

Dinosauri ed exocorazze

exoprimal trama
La trama di Exoprimal verrà sviluppata attraverso una serie di dialoghi e filmati.

Come già lasciava intuire la demo, la trama di Exoprimal è quantomeno curiosa. A partire dall’anno 2040 una misteriosa serie di varchi spaziotemporali iniziano a comparire su tutta la terra. Da questi varchi emergono intere orde di dinosauri geneticamente modificati, che mettono ben presto a ferro e fuoco il pianeta.

Come risposta all’improvvisa minaccia la misteriosa Aibius Corporation da vita al corpo degli exocombattenti, soldati scelti armati di potenti exocorazze, prodotte dalla stessa Aibius. Queste armature rappresentano l’arma principale della razza umana contro i temibili lucertoloni.

Nel corso del gioco interpretiamo Ace, un novello pilota di exocorazze, il cui aspetto è completamente personalizzabile. Durante l’anno 2043 Ace precipita assieme alla sua squadra, gli Hammerheads, in un misterioso vortice dimensionale. Il gruppo viene trasportato sull’isola di Bikitoa e si rende ben presto conto di trovarsi all’interno di una timeline alternativa.

In questa linea temporale l’intelligenza artificiale Leviathan, anch’essa creata dalla Aibius, costringe Ace e un gran numero di altri exocombattenti ad un numero interminabile di guerre simulate contro i dinosauri. Ace e soci si rendono ben presto conto che queste battaglie si svolgono sempre nell’anno 2040 e sembrano chiaramente nascondere un sinistro piano della misteriosa intelligenza artificiale.

Al soldato e al suo team non resta che proseguire di battaglia in battaglia raccogliendo il più ampio numero possibile di dati. Procedendo nel gioco, vengono via via rivelati ai giocatori i vari retroscena e la verità su Leviathan e sulle sue azioni, su cui non daremo eccessivi dettagli.

Un menù scarno

Exoprimal: modalità
Il numero di modalità in Exoprimal è decisamente limitato.

Il primo aspetto di Exoprimal a balzare all’occhio è il numero davvero esiguo di modalità di gioco che propone. Completato il tutorial, che prevede la creazione del nostro avatar, l’introduzione ai comandi e una battaglia di prova, il giocatore viene trasportato nel menù principale del gioco.

Qui, oltre alla modalità sopravvivenza, cuore pulsante di Exoprimal, c’è veramente ben poco da fare. La modalità Hangar permette di modificare e personalizzare le corazze, sia dal punto di vista estetico che per quanto riguarda l’armamento di supporto. La modalità carriera invece non è altro che un riepilogo delle battaglie online affrontate dal giocatore.

La banca dati, infine, raccoglie tutti i dati, gli audio e i filmati relativi alla trama del gioco, che vanno via via a sbloccarsi man mano che vengono completate le varie battaglie online. Exoprimal, quindi, non presenta una vera modalità in single player. Semplicemente, man mano che il giocatore procede con le sfide online, il gioco sblocca tutta una serie di filmati e rivelazioni che vanno a portare avanti la trama del gioco.

Questa scelta ci ha davvero sorpresi, facendoci anche storcere parecchio il naso. Un gioco come Exoprimal, con un setting e una trama così particolari, avrebbe senz’altro beneficiato di una campagna in single player vera e propria. Essa avrebbe permesso uno svolgimento più chiaro e lineare della trama e sarebbe stata un’occasione per fare pratica con le numerose exocorazze. Un peccato davvero.

La legge del più forte

Le sfide della modalità sopravvivenza sono il cuore pulsante di Exoprimal.

Come già detto: il centro dell’esperienza di Exoprimal è costituito dalla modalità sopravvivenza. Una volta selezionata, due squadre, da 5 giocatori ciascuna, si affronteranno in una serie di sfide casuali, i risultati delle quali determineranno la squadra vincente.

Normalmente ogni sfida è composta da un numero variabile di missioni, scelte in modo casuale da Leviathan. Le prime sfide vedono le due squadre impegnate contro le orde di dinosauri controllate dalla CPU. Si tratta di solito di battaglie in cui occorre eliminare un certo numero di dinosauri di un certo tipo (per esempio 100 velociraptor) oppure di scontri a difesa di un’area specifica o ancora di un inseguimento ad un particolare dinosauro, spesso di grandi dimensioni.

Le sfide finali, invece, propongono una buona varietà di obiettivi. Nelle missioni “scorta” la nostra squadra dovrà accompagnare il percorso di un cubo dati difendendolo sia dai dinosauri che dalla squadra nemica. In “conquista il trasmettitore” le due squadre saranno impegnate ad ottenere i dati di vari trasmettitori sparsi per l’area. In “assalto Omega” le squadre dovranno caricare i loro martelli omega uccidendo i dinosauri per poi utilizzarlo per frantumare le barriere nemiche. Vi è persino una sfida, denominata “Neo T-Rex”, in cui le due squadre sono costrette ad allearsi per abbattere un mostruoso tirannosauro geneticamente modificato.

É possibile affrontare la modalità sopravvivenza esclusivamente in modalità PvE. In questo caso le due squadre non si affronteranno mai direttamente, nemmeno nella battaglia finale. Dovranno invece completare a distanza i loro obiettivi. A trionfare sarà la squadra che finirà la sua missione nel tempo minore.

La noia che arriva strisciando

In generale, le sfide di Exoprimal sono abbastanza varie e diversificate. Alla lunga, però, subentra una certa sensazione di ripetitività. Sebbene infatti le sfide finali propongano un buon mix di regole e situazioni, le sfide PvE tendono presto a cadere nella monotonia, dal momento che si tratta quasi sempre di falciare il maggior numero possibile di dinosauri il più velocemente possibile.

Questo alla lunga tende a rendere l’esperienza di Exoprimal piuttosto monotona, anche a causa del numero davvero esiguo di modalità. Lo sparatutto Capcom è sicuramente un buon passatempo se si cerca una partita veloce e senza impegno. Quasi certamente però i giocatori che cercano uno sparatutto profondo e longevo resteranno delusi.

Quando verranno raccolti tutti i dati della trama di gioco andrà a sbloccarsi la sfida selvaggia. Si tratta di una serie di sfide a tempo online con regole e missioni particolari. Questa nuova modalità rende le cose un po’ più interessanti, ma a parere di chi scrive il gioco avrebbe davvero giovato di un maggior numero di opzioni.

Oltre ad una vera modalità single player, sarebbe stata gradita la possibilità di scegliere direttamente in quale tipologia di sfida affrontare la squadra avversaria. Di nuovo: un peccato!

Tecnicamente all’altezza

Exoprimal: Grafica
Il comparto tecnico di Exoprimal è davvero buono.

Dal punto di vista tecnico, Exoprimal non delude le aspettative. Il motore grafico del gioco presenta un’ottima definizione, animazioni veloci e fluide e un uso sapiente dei colori e dei vari effetti visivi.

Il design delle exocorazze è davvero ben fatto e particolareggiato e le varie armature presentano un’ottima varietà sia nel design che nei colori. Stesso discorso per i dinosauri, che appaiono davvero ben realizzati, con delle movenze credibili e un set di attacchi che ben si addice alle varie razze rappresentate.

Il design degli stages invece appare piuttosto anonimo. Intendiamoci, le città in rovina, i templi nella foresta e le altre ambientazioni sono realizzati più che discretamente. Anche le mappe risultano ben strutturate e richiedono una certa dose di strategia per essere affrontate in modo ottimale. Tuttavia nessuna ambientazione sembra brillare particolarmente per originalità o per la presenza di elementi memorabili.

Anche il sonoro del gioco non risulta davvero degno di nota. Le musiche che fanno da sottofondo ai filmati e ai menù sono tetre e minacciose al punto giusto, mentre i motivi che accompagnano le battaglie sono più ritmate e coinvolgenti. Sfortunatamente però nessuna delle tracce di Exoprimal è riuscita a colpirci in modo significativo.

Merita una menzione l’adattamento in italiano, che compie la strampalata scelta di doppiare solo i dialoghi di Leviathan, lasciando in lingua inglese il parlato di tutti gli altri personaggi. Una soluzione tanto strana quanto discutibile.

Piovono lucertole

Exoprimal: pioggia di dinosauri
Il numero di dinosauri che appariranno su schermo è davvero impressionante.

Il sistema di controllo, pur senza far gridare al miracolo, è molto efficace e funzionale. I movimenti, gli attacchi e le varie abilità delle corazze sono semplici, precisi ed immediati. Ciò consente al giocatore di abituarsi velocemente al gioco e lanciarsi nella mischia senza paura di essere un peso morto.

Certo, padroneggiare a dovere ogni corazza, con le sue caratteristiche e stile peculiari, richiede comunque tempo. Lo stesso vale per l’affinamento delle strategie e della coordinazione con gli altri membri del team. Tuttavia, la curva di apprendimento di Exoprimal non è mai troppo ripida e permette anche ai giocatori alle prime armi di farsi rispettare.

L’aspetto del gameplay di Exoprimal che più colpisce è certamente l’enorme numero di dinosauri presenti sullo schermo. Fin dalle prime fasi della missione, infatti, i giocatori vengono letteralmente inondati da migliaia di lucertoloni furiosi. Talvolta i dinosauri precipitano persino dall’alto fuoriuscendo dai varchi, come una vera e propria pioggia di lucertole. Nonostante l’enorme numero di nemici su schermo, il gioco non mostra il minimo rallentamento e riesce a mantenere un ritmo veloce ed incalzante.

Una tuta per ogni occasione

Le exosuits di Exoprimal sono davvero ben disegnate e caratterizzate.

L’altro punto di forza di Exoprimal è sicuramente rappresentato dalla varietà e dal carisma delle exocorazze. Il giocatore ha a disposizione 10 modelli differenti, suddivisi in tre tipologie, ovvero assalto colosso e supporto.

Le corazze assalto hanno il loro punto di forza nella velocità di movimento e nella potenza dei loro attacchi, siano essi a media, lunga o breve gittata. I colossi hanno un enorme potere difensivo e possono persino proteggere gli alleati, a discapito della loro mobilità e gittata. Le exocorazze supporto infine hanno il compito di proteggere e potenziare gli alleati tramite abilità curative o in grado di fornire bonus alla squadra.

Non sarà difficile per il giocatore trovare la corazza più adatta ai suoi gusti e al suo stile di gioco, sebbene la selezione della corazza debba tener conto anche delle scelte degli altri giocatori. fortunatamente, sarà il gioco stesso prima della missione a segnalare la mancanza di elementi chiave nella squadra.

Col procedere del gioco, è possibile sbloccare una serie di oggetti e potenziamenti, che il giocatore può utilizzare per personalizzare la sua corazza. Pur senza presentare una profondità troppo elevata, questa meccanica va ad aumentare ulteriormente la varietà.

Sono presenti infine anche delle varianti per ognuno dei modelli principali del gioco, che ne modificano le armi principali e alcune abilità. Queste corazze mischiano ulteriormente le carte in tavola, fornendo al giocatore ancora più possibilità di trovare modelli adatti al proprio gioco.

Conclusione

Exoprimal è sicuramente un buon titolo, ma non riesce ad essere nulla di più. Ad un design delle exocorazze ispirato e vario si alternano stages piuttosto piatti e anonimi.

Il gameplay, per quanto semplice e divertente, diventa alla lunga piuttosto ripetitivo e ridondante e il numero davvero esiguo di modalità di gioco non fa che peggiorare questa sensazione.

Exoprimal, pur mostrando un concept e una trama piuttosto originali, non ha davvero nulla che lo possa elevare all’interno di un genere, quello degli sparatutto, che presenta un numero davvero enorme di titoli ed alternative.

Se amate la tecnologia e i dinosauri potete prendere in considerazione l’acquisto, ma se siete semplicemente fan del genere sparatutto troverete senz’altro titoli ben più ricchi e completi.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, PS4, Xbox One, Xbox Series X/S, PC
  • Data uscita: 14/07/2023
  • Prezzo: 59,99 €

Ho provato il gioco al day one su PlayStation 5 grazie a un codice fornito dal publisher.

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Lies of P: provato del promettente soulslike ispirato a Pinocchio

La demo di Lies of P ci regala uno sguardo affascinante su un avvincente soulslike in arrivo quest’anno. Rilasciato a seguito dell’ultima conferenza Xbox, il gioco sembra prendere ispirazione dai capolavori di From Software e Hidetaka Miyazaki. In quest’analisi esploreremo i punti salienti della demo, analizzandone grafica, gameplay e le reminiscenze dei giochi “souls-like”.

L’uscita del gioco, dopo un primo rinvio, è prevista per il 19 settembre 2023. Lies of P uscirà su tutte le piattaforme, ma arriverà al day one su Xbox game pass.

Life of P: presentazione

Come si presenta alla vista

Sul fronte grafico, l’ultima fatica di Round 8 Studio delizia lo sguardo con texture curate e modelli poligonali tutto sommato dettagliati. Tuttavia, vale la pena notare che i nemici sembrano rifarsi in modo eccessivo all’immaginario burattinesco di Pinocchio. Questo porta a perdere un po’ di originalità, poichè i nostri avversari sono troppo spesso legati ad un’estetica sì mostruosa, ma sempre di natura antropomorfa. È importante sottolineare che si tratta ancora di una demo. Dunque è possibile che, nella versione definitiva, i nemici risultino essere più variegati e originali.

Le animazioni sembrano essere uno degli elementi più critici dell’esperienza. Sebbene esse svolgano bene il loro compito nell’immortalare l’azione, mancano della leggibilità che caratterizza i giochi di Hidetaka Miyazaki. I colpi dei nemici tendono ad andare a segno ora troppo presto, ora troppo tardi, mancando dell’ ottima prevedibilità che contraddistingue gli scontri delle esperienze From Software. Questo penalizza l’intero combat system, che in questo modo, si lega più al riconoscere gli attacchi in arrivo piuttosto che all’abilità del saperli leggere.

Anche le ombre, che dovrebbero essere dinamiche, spesso interagiscono in modo goffo con l’ambiente, compromettendo in parte l’esperienza. Dal punto di vista tecnico, bisogna applaudire l’efficacia del DLSS, che sembra migliorare le performance anche su hardware meno potenti.

Pad alla mano

Il gameplay di “Lies of P” attinge con intelligenza da meccaniche consolidate dei giochi “souls-like. Le statistiche potenziabili richiamano le esperienze puramente souls e sono Vitalità, Vigore, Forza Motrice, Tecnica e Sviluppo. Questi parametri consentono una buona personalizzazione del proprio personaggio, che al primo sguardo sembra possedere un’alta “build variety“.

La scelta della classe include le vie del Grillo (equilibrio), del Bastardo (destrezza) e dello Spazzino (forza). Questa scelta offre diverse opzioni di gioco, senza però costringere il giocatore verso un percorso predefinito già dalle prime battute. Scegliere una qualsiasi di queste classi, infatti, non preclude il livellamento di statistiche agli antipodi rispetto alla classe di origine.

Gli amanti dei souls si sentiranno come a casa: il combat system ricorda molto da vicino quanto già visto nelle scorse esperienze di casa From Software, in particolare in Bloodborne. I nemici, sebbene ostici, non sembrano impossibili da battere, anche se la già discussa imprevedibilità delle animazioni costringe ad un combattimento più legato alla pura memoria, ovvero al sapere riconoscere quale colpo stia per sopraggiungere, piuttosto che alla capacità di reazione del videogiocatore.

Il sistema di cure di lies of P è equivalente a quello tipico dei soulslike, con le “celle” che si ricaricano dopo ogni morte, o dopo esserci riposati ad uno “stargazer” (letteralmente osservatori di stelle), che qui svolgono la medesima funzione dei falò. Tuttavia, Lies of P offre un’aggiunta interessante: una volta esaurite le celle, sarà possibile recuperarne una danneggiando i nemici.

Tra i vari elementi carpiti al genere, Lies of p decide (consapevolmente, ma non colpevolmente) di assorbirne anche alcuni degli aspetti negativi (o quantomeno più controversi). Tra essi l’assoluta la mancanza della possibilità di mettere in pausa o il comando di salto, che è disponibile solo a seguito di una corsa e comunque capace di raggiungere solo le superficie più prossime.

Reminiscenze dei souls

Proprio a proposito degli elementi comuni alle creazioni partorite dalla mente di Hidetaka Miyazaki, Lies of P eredita molte delle caratteristiche distintive dei giochi dell’artista. Tra essi un level design meticoloso e ricco di strade secondarie da esplorare, nemici pericolosi da affrontare e segreti da scoprire. Frequenti anche le classiche porte con l’ormai iconico messaggio: “non si apre da questo lato“, che suggeriscono un ambiente di gioco ricco di shortcuts che collegano le singole aree.

Anche il piazzamento degli stargazer è interessante. Essi infatti sono disseminati in maniera davvero intelligente e trovarne uno risulta davvero appagante. Uno volta raggiunto lo stargazer l’utente vive la consapevolezza di un ambiente sicuro in cui dare frutto degli sforzi finora compiuti, spendendo l’esperienza in livelli, o viaggiando rapidamente all’hub centrale: l’hotel.

Il gioco abbraccia uno stile di combattimento frenetico e violento, fortemente ispirato a quanto visto in “Bloodborne“. Proprio come in quest’ultimo titolo, infatti, è possibile curarsi attaccando l’avversario. Questo crea un combat system che premia iniziativa ed aggressività, nel quale è fondamentale non concedere respiro ai nostri avversari. Tuttavia, la cura è possibile solo qualora il danno subito sia stato ridotto dalla parata, comando non presente nel capolavoro del 2015. Questo aggiunge un altro strato di complessità che potrebbe intrigare qualcuno.

Anche se la meccanica del parry è presente, è importante sottolineare che questa richiede un po’ più di impegno rispetto ad altri titoli. Anche il “danno-premio” finale raramente appaga appieno l’impegno profuso. Molto discutibile risulta la vibrazione del controller, che trema dall’inizio alla fine dell’animazione in maniera decisamente troppo violenta, conferendo una spiacevole sensazione al tatto.

Conclusioni

Lies of P si presenta come un’avventura promettente che attinge con sagacia dall’eredità dei giochi “souls-like”. Nonostante alcuni aspetti da rifinire, come la poca originalità nel design dei nemici e le animazioni, che potrebbero essere più fluide, la demo offre un’esperienza coinvolgente e intrigante.

Notevole anche la durata della demo stessa, che delizia il palato degli utenti con circa due ore di gameplay, sintomo della consapevolezza del team sull’ottimo lavoro svolto finora.

L’ambientazione e la trama misteriosa catturano l’attenzione, mentre il gameplay solido e le scelte strategiche che si presentano al giocatore rendono “Lies of P” una promettente aggiunta al genere soulslike.

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Diablo 4 – Recensione: dall’inferno all’infinito

Per alcuni sono passati undici anni; per molti altri ben ventitré. La serie Diablo è finalmente tornata con il suo nuovo, moderno e – a tratti controverso – capitolo. Sono tra quelli che non sono mai stati pienamente soddisfatti da Diablo 3 e so che Blizzard è cosciente che esistono videogiocatori come me. Anche per questo motivo la casa di Irvine è tornata all’origine del male con un’opera cruda, violenta e moderna. Scopriamo insieme, in questa recensione di Diablo 4, se Blizzard Entertainment sia riuscita a tornare ai vecchi fasti riesumando il peccato originale, e anche se stessa, da un recente passato poco memorabile.

La figlia dell’odio

Ho iniziato la mia avventura su Diablo 4 nei panni di un nuovo viandante perso tra le desolate lande di Vette Frantumate, una fredda area in cui faccio subito conoscenza del bene e del male che dovrò affrontare nel corso dei sei atti che compongono la campagna principale. Le due facce della stessa medaglia prendono la forma di un lupo nero, l’horadrim Lorath e i petali di sangue di Lilith.

Così come Link è l’eroe prescelto che continuamente si risveglia in The Legend of Zelda, il Viandante di Diablo è una figura senza passato che diventa eroe di un mondo in eterna lotta: Sanctuarium. In Diablo 4, Blizzard ha aggiunto diversi particolari che rendono il videogiocatore maggiormente legato all’intera trama rispetto al passato. Uno su tutti: i petali di sangue, che sono stati casualmente – o così sembra – ingeriti dal nostro alter ego diventandone il legame tra me e la Figlia dell’Odio.

Il titolo di Lilith nasce da suo padre, Mephisto, Signore dell’Odio e uno dei tre Primi Maligni dell’universo di gioco insieme a Baal e lo stesso Diablo. Ma non solo: Lilith è anche la creatrice di Sanctuarium, che ormai libera dalla sue catene vuole tornare a regnare nel proprio mondo. Come di consueto per la saga, questa volontà ha generato nuovi scontri con le forze angeliche capitanate da Inarius, ma anche con gli altri maligni che temono il potere della nuova pretendente al trono. Non voglio essere causa di spoiler e quindi arriverò subito al punto: la trama di Diablo 4 è una piacevole scala di grigi, ricca di intrecci e personaggi che risaltano per la propria costruzione. Blizzard ha fatto un ottimo lavoro sui principali amici, gli horadrim, e i principali nemici, ma anche il tempo dedicato ai personaggi secondari è più che adeguato.

La campagna principale di Diablo 4 mi ha portato per mano alla ricerca di Lilith ed Elias, il vassalo della Figlia dell’Odio. Seguendo i petali di sangue, ho incontrato – in un mondo di gioco enorme – angeli e demoni in una trama che ritengo la migliore dell’intera serie.

Recensione Diablo 4: Lilith

Un mondo in eterna lotta

Sanctuarium è un mondo ricco di attività, poiché pieno di sofferenza, malvagità e figure ambigue, in entrambe le fazioni. In Diablo 4, questo concetto viene mostrato e dimostrato passo dopo passo: per esempio, tutti i maligni hanno antipatie tra i loro ranghi e simpatie tra gli umani. Le logiche di Lilith non sono banalmente spietate, ma hanno quasi un senso di ragionevolezza che mi hanno fatto chiedere se fosse veramente lei il male che devo combattere. E dopo la fine della campagna principale, una vera risposta non l’ho ancora trovata, poiché Diablo 4 termina con un cliffhanger tutto da completare, stagione dopo stagione.

Nello specifico, ho portato a termine la campagna principale di Diablo 4 nel giro di una decina di ore. Un tempo leggermente superiore a quello necessario per completare gli atti di Diablo II – di cui abbiamo recensito la nuova edizione Resurrected – e Diablo III. Ma come avete già intuito, Lilith è solo un pretesto per vagare all’interno di una mappa – divisa in cinque regioni – ricca di nemici e grinding. Per lo scopo, gli sviluppatori hanno deciso di applicare l’auto leveling: tutte le creature di Sanctuarium hanno sempre il nostro stesso livello, con qualche eccezione per alcune attività endgame come le Spedizioni principali e le Fortezze.

Gameplay

Naturalismo ai massimi livelli

Sanctuarium è un’enorme opera di Caravaggio in cui l’oscurità è data da sfondi neri su cui un barlume di luce spicca al fine di concentrare lo sguardo del videogiocatore verso i volti scarnificati e sofferenti delle persone e dei mostri che popolano questa landa disperata. Lo stile artistico di Diablo 4 mi ha riportato indietro ai primi due capitoli; in particolare a quell’opera magna che conosciamo con il nome di Diablo II, con l’importante differenza che i cinematic e la qualità generale sono strettamente contemporanee: il disagio dei villaggi è reale, palpabile. Affrontare una quest secondaria è quasi un dovere perché si può percepire una vera necessità tanto nell’ambientazione quanto nelle parole grazie a una scrittura e a un doppiaggio di ottima fattura.

La maggior parte delle creature che popolano Sanctuarium provengono da un bestiario consolidato da 27 anni di storia, ma non sono comunque tantissime e alla lunga gli incontri risultano ripetitivi. D’altro canto, tutti i nemici sono posizionati in modo coerente tra le cinque regioni, seguendo la storia dei luoghi e le caratteristiche ambientali – per esempio, gli scorpioni giganti e i predatori si trovano nelle zone desertiche mentre serpenti e relativi adepti tra le paludi. Ogni avversario ha inoltre le proprie caratteristiche con peculiarità crescenti in base al suo livello di importanza. I mostri comuni hanno il loro pattern, gli elité possiedono i consueti tratti caratteristici, mentre i boss hanno dei modi unici di attaccare: per batterli è necessario leggere i loro movimenti guardando le hit box che compaiono subito primo dell’attacco.

Recensione Diablo 4: Boss Fight

Endgame

Diablo 4 mi ha fornito diversi motivi per vagare nel mondo di gioco: il vero divertimento inizia una volta terminata la storia principale. Diablo è farming, gli hack and slash sono un genere in cui bisogna giocare ancora e ancora fino a trovare quell’oggetto che porta il personaggio a un altro livello, che in realtà è solo un nuovo punto di partenza per nuove build e nuovo grinding. Così, una volta terminata la campagna principale, il gioco ci sblocca la prima Spedizione Principale, un dungeon più lungo del solito che una volta completato ci permette di cambiare il Livello del Mondo.

Inizialmente si può scegliere tra due livelli, Avventuriero e Veterano: ho scelto il secondo e più difficile. Una volta completata la prima Spedizione Principale ho sbloccato il livello Incubo, che si consiglia di giocare dal livello 50, anche se è possibile affrontare la spedizione quando si vuole, esattamente come è possibile fare con i successivi: Inferno e Tormento.

Ogni Livello del Mondo ci mette contro sfide maggiori, ma anche ricompense maggiori. L’endgame è costituito sempre dalla solita struttura: uccidi, raccogli gli oggetti e potenzia il viandante. Ci sono diversi mondi per ripetere la sequenza: i dungeon, le quest secondarie e gli eventi a tempo.

Città

I dungeon si dividono in Cantine, cioè mini-dungeon e i Dungeon veri e propri. Su quest’ultimi vale la pena soffermarci un attimo perché ho notato una rilevante sbavatura: il level design è eccessivamente banale. In praticamente tutte le mappe dei dungeon, ho visto lo stesso pattern: scegli se andare a nord (o sud) oppure a est (oppure ovest); a un certo punto le due strade si uniscono, e dando uno sguardo veloce alla mappa, si capisce subito da che parte proseguire senza essere costretti a percorrere zone “morte”.

Le quest secondarie sono invece uno dei principali motivi – se non il primo – per cui si parla di Diablo 4 come di un MMORPG alla stregua di World of Warcraft. L’ultima fatica di Blizzard è ricca di missioni secondarie volte a ripulire il male da Sanctuarium in perfetto stile “videogioco online”: liberare un’area da aberrazioni; raccogliere oggetti droppati dai mostri; scortare qualcuno; portare a termine un dungeon vicino a un villaggio e molto altro che ho già visto nel multiplayer online dedicato a Warcraft e non solo.

Nonostante il senso di déjà-vu, le quest secondarie di Diablo 4 si distinguono per la profondità con cui vengono presentate: anche ripulire una zona è raccontata come un’esigenza dei personaggi non giocanti. Una coerenza che ho apprezzato e che è in linea con lo stile della saga, come si evince dai Tetri Favori, quest perpetua che ci rende, di fatto, un cacciatore di taglie.

Completano infine il quadro gli eventi a tempo, attività simili a quelle già citate, ma concentrate ciclicamente in determinate zone della mappa per un determinato periodo temporale: Maree Infernali, Fortezze, Boss mondiali e tutto quello che serve per sentirsi parte di una comunità con cui ho potuto parzialmente interagire durante questa recensione di Diablo 4 grazie all’always online, che non mi ha mai fatto sentire solo (nonostante non abbia dedicato ancora abbastanza tempo alla modalità PvP), tranne quando volevo esserlo all’interno di un dungeon o una spedizione.

Recensione Diablo 4: Maree Infernali

Il viandante

Sono cinque le classi attualmente disponibili su Diablo 4: Barbaro, Druido, Incantatrice, Negromante e Tagliagole. La mia scelta è ricaduta sul negromante, buildato come un tank grazie alle abilità di Sangue affiancato da un Golem a menare come un fabbro. Probabilmente la mia velocità di esecuzione è stata minore rispetto ad altre build, ma le volte in cui sono morto durante i primi 50 livelli si possono contare sulle dita di una mano.

Cambiare build è abbastanza veloce ed economico, ma è un po’ seccante dover rivalutare ogni singolo oggetto dell’inventario per farla rendere al meglio. Come tutti i Diablo, l’equipaggiamento fa la differenza a causa degli effetti speciali dei singoli oggetti sulle abilità di classe; di conseguenza, sopratutto durante l’endgame in cui i dettagli fanno la differenza, il videogiocatore è obbligato a riprogrammare la propria build in base ai loot che trova, soprattutto se questi sono core per quelle più in voga (anche perché spostare gli effetti da un oggetto all’altro è un crafting abbastanza costoso).

Le abilità invece possono essere gestite agevolmente dal relativo albero. Così come nel terzo capitolo, in Diablo 4 bisogna concentrarsi su quattro abilità specifiche. Lo skill tree funziona esattamente seguendo questo ragionamento: l’ideale è massimizzare le abilità attive che vogliamo usare e poi investire tutto sulle passive; infatti, dal livello 50 in poi, il viandante accede al Tabellone d’Eccellenza in cui può limare le caratteristiche del personaggio verso la build che preferisce, con una certa dose di pazienza ed eccesso di zelo.

Inventario

In aggiunta a quanto detto fino ad ora, il gameplay di Diablo 4 si basa su una matematica minuziosa. Ogni statistica è stata valutata con estrema cura, anche se Blizzard dovrà dedicare ancora tanto tempo al bilanciamento delle classi, e probabilmente non riuscirà comunque nell’impresa data la natura degli hack’n’slash. In aggiunta, le nuove meccaniche e i nuovi parametri sono tutto fuorché banali: per esempio, il Colpo Fortunato non è un semplice critico, mentre Sopraffazione – meccanica basata sul subire pochi danni – permette di giocare diversamente rispetto ad altri videogiocatori che preferiscono buttarsi nella mischia.

Aggiornamento perpetuo

Diablo 4 può essere giocato in solitaria, ma rimane un live service. Non è solo una questione di always online, già presente in Diablo 3: ci sono tante feature che mi hanno continuamente ricordato che stavo visitando un mondo vivo. Girovagando per l’open world Blizzard in sella al mio cavallo, sono spesso finito dentro un evento a tempo nel quale partecipavano altri giocatori; quando ho deciso di evitarli, magari per dedicarmi a una quest secondaria, il mio viandante è finito col ritrovarsi in una zona martoriata da altri personaggi amici che mi hanno aiutato a portare a termine una missione che potevo tranquillamente completare da solo. E quando proprio volevo nascondermi finendo nei meandri di Sanctuarium, sono incappato in un Altare di Lilith che ha attivato un bonus +2 alle statistiche non solo del mio viandante, ma anche di tutti i personaggi che ho creato (live service per l’appunto).

Recensione Diablo 4: Giudizio

Diablo 4 su Xbox Series X

Il lungo lavoro per portare Diablo 3 su console è servito. Diablo 4 sull’ammiraglia Xbox ha dei comandi pressoché ottimi. Ho giocato tutti i videogiochi della saga su PC e Diablo 4 non mi ha fatto sentire minimamente la mancanza di mouse e tastiera, nemmeno durante la navigazione dei menù, solitamente la parte più tediosa da gestire con un controller, anche se qualche lieve sbavutura nel muoversi all’interno dell’inventario è presente.

Per quanto concerne la parte tecnica, il comparto audio è da oscar al miglior sonoro: giocare Diablo 4 senza volume è altamente sconsigliato: musiche, doppiaggio e suoni ambientali sono assolutamente imprescindibili. L’immersione è totale.

D’altro canto, nonostante abbia molto apprezzato il lato artistico, la grafica di Diablo 4 su Xbox Series X non è ai livelli delle produzioni next-gen. Questo non mina assolutamente la bontà del gioco, ma le limitazioni che gli sviluppatori hanno dovuto imporre a causa del cross-gen si vedono largamente.

Conclusione

Sì, Diablo 4 ha una fortissima contaminazione da MMO, con diverse ispirazioni prese direttamente da World of Warcraft. La parte positiva è che queste caratteristiche si mescolano benissimo con l’intera saga, del resto Diablo 2 è stato uno dei videogiochi più giocati online nei primi anni duemila.

La scelta di rendere Diablo 4 un live service è azzeccata perché rende l’ultima fatica di Blizzard coerente con il suo passato e assolutamente al passo con i tempi. Nonostante le influenze esterne, Diablo 4 è il miglior hack and slash in circolazione mentre le Stagioni già annunciate ci diranno se sarà il migliore di tutti i tempi.

Un’ottima notizia per i fan di nicchia, un po’ meno per tutti gli altri: gli hack’n’slash sono videogiochi pensati per un numero esiguo di persone che hanno voglia e tempo per grindare. Diablo 4 è l’eccellenza del genere: artisticamente meraviglioso nella sua crudezza e violenza e tecnicamente al passo con l’Anno Domini 2023.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, PC, PS4, Xbox One
  • Data uscita: 06/06/2023
  • Prezzo: 79,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su Xbox Series X grazie a un codice fornito dal publisher.

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Recensioni

Planet of Lana – Recensione

Planet of Lana, la prima produzione dello studio Wishfully, aveva già attratto a sé molti occhi all’Xbox ShowCase del 2021. Si parla di una produzione dalle dimensioni visibilmente più contenute e che pone grande enfasi su un comparto artistico di richiamo pittorico particolarmente brillante e su una narrazione silenziosa di pregio.

Il titolo arriva sui nostri schermi nelle vesti di un puzzle-adventure di chiara ispirazione “Uediana”, ma che impara con intelligenza le lezioni impartite dai più recenti titoli Playdead come Limbo, pescando a piene mani anche dalle suggestioni di Journey.

Il timore di un’opera eccessivamente derivativa va però dissipato rapidamente: Planet of Lana è un gioco con una personalità propria capace sì di imparare dai migliori, ma comunque in grado di mantenere una propria distinta personalità.

La narrazione

La prima opera firmata Wishfully esplora diverse suggestioni narrative: l’abbandono e la perdita, il genuino affetto tra due ragazzini, l’amore spontaneo che può scaturire tra uomo e bestia.

Già dal trailer infatti, abbiamo fatto conoscenza di Mui, adorabile bestiolina che ci terrà compagnia per quasi tutta la durata dell’avventura, capace di arrampicarsi laddove a noi l’accesso sarà precluso, e soluzione essenziale a molti enigmi disseminati per il percorso di gioco.

Se è vero però che il rapporto fra i due coprotagonisti appare tenero e sincero, l’amicizia scaturita dalla necessità dei due sembra cementarsi un pizzico troppo rapidamente. Manca (forse più per ragioni tecniche e di budget che per scelte di design) quella lenta ma percepibile sedimentazione del rapporto fra Trico ed “il ragazzo” in The Last Guardian, evidente fonte d’ispirazione per Planet of Lana.

Nelle prime battute il gioco ci proietta in un piccolo villaggio di pescatori, un pianeta riconducibile al nostro come ambienti, ma con fauna e panorami “stellari” ampiamente alterati, memori più della fantasia di Cameron espressa in Avatar, che dalla realtà osservabile sul nostro pianeta.

La quiete del villaggio di Lana, coprotagonista del gioco e alter-ego del videogiocatore, non è purtroppo destinata a perdurare, interrotta da delle misteriose macchine che invadono il villaggio e ne rapiscono gli abitanti. Tra questi, Ilo, il fratello di Lana. La nostra eroina riesce miracolosamente a fuggire ripromettendosi di salvare il fratello, inconsapevole di essere destinata a svelare misteri ben più grandi di lei.
Nel tragitto, farà conoscenza con Mui, la già citata amabile creaturina.

Raccontare senza parole

L’ultima fatica Wishfully non comunica mai direttamente le informazioni sopra descritte. Il titolo è infatti sprovvisto di dialoghi esplicativi (o quantomeno quelle poche battute che hanno i personaggi sono comunicate in una lingua di fantasia, incomprensibile all’utente) e mancano persino i tanto abusati frammenti di testo sparsi per la mappa che spiegano per filo e per segno storia e retroscena di varia natura.

L’opera infatti si serve della mera comunicazione per ambienti, e talvolta per immagini, quasi icone religiose (rubate con furbizia a lavori ben più celebri come Journey di Thatgamecompany), volte non tanto a dare una spiegazione precisa degli eventi, ma più a suggerire al giocatore più attento possibili significati e valori di ciò che accade a schermo.

Planet of Lana certamente non è il primo titolo che racconta una vicenda senza l’ausilio di dialoghi o di testi scritti. Ciònondimeno non è semplice narrare una storia (per quanto semplice voglia essere quella del gioco in questione) “silenziosamente” senza per questo risultare inutilmente criptici e misteriosi.

Al contrario, l’avventura della nostra eroina rischia di finire sul versante opposto: il racconto rischia di risultare prevedibile per i videogiocatori più navigati, rimanendo però una valida esperienza per i più giovani o i meno avvezzi al genere. Non temete però, per quanto semplice, le animazioni, la colonna sonora ed il gusto estetico sopperiranno a una storia semplice conferendole il giusto peso emotivo e l’attiva partecipazione del giocatore.

Planet of Lana: paesaggio

Il gioco

Il team di Wishfully decide consapevolmente di non voler rivoluzionare il mondo dei puzzle games, limitandosi ad imitare i migliori del genere. Ciò è chiaramente un bene dal punto di vista pratico, visto quanto facile sia sopravvalutare le capacità del proprio Team (sopratutto se agli albori com’è il caso di wishfully), d’altro canto però così facendo i puzzles risultano troppo spesso banali e dalla risoluzione immediatamente comprensibile per tutti i videogiocatori avvezzi al genere.

Il titolo infatti si presenta come adatto ai più giovani ed ai meno avvezzi al mondo dei videogames, complice anche la breve durata complessiva dell’esperienza che si aggira attorno alle 4 ore e il fatto che il titolo sia disponibile nel servizio in abbonamento di Microsoft. I neofiti apprezzeranno senza dubbio lo stile grafico, la dolcezza della narrazione e la semplicità dei comandi.

Controllare due personaggi alla volta può apparire complesso sulla carta, tuttavia le azioni che potremo far compiere ai nostri protagonisti sono veramente ridotte, alla luce di quello che è presumibilmente un design di tipo sottrattivo.

Lana, infatti, può soltanto saltare ed abbassarsi, oltre a comandare a Milo, chiedendogli di aspettarla o di seguirla e, all’occorrenza, di posizionarsi in un punto determinato a non grande distanza dal nostro alter-ego.

A questo proposito, il sistema di movimento di Lana è stranamente meccanico e datato, costringendo a movimenti lenti e fuori dal tempo: per saltare a destra mentre siamo rivolti a sinistra, infatti dovremo prima far voltare il nostro personaggio e solo allora premere il comando di salto.

Una svista che sicuramente non influenzerà complessivamente il valore dell’esperienza ma che emerge prepotente in un oceano di cura e amore verso tutti gli altri comparti che fanno emergere in negativo un sistema di controllo a tratti alienante.

Planet of Lana: il Sole

Come si presenta

Basta un solo sguardo per apprezzare la cura e la dedizione impiegata dal team per costruire gli ambienti di Planet of Lana.
Il colpo d’occhio è immediato e lo stile usato rende il gioco riconoscibile da un solo screenshot.

Il timore che la palette cromatica potesse risultare ridondante e poco varia viene in realtà fugato presto, sia perché le macchine e le creature sono realizzate utilizzando dei toni di nero molto peculiari, che spezzano bene con gli ambienti molto colorati, sia perché il gioco fa capolino in ambienti dissimili l’un con l’altro: spaziando da deserti a paludi; da foreste ad accampamenti abbandonati.

Se è innegabile che questi ambienti donino necessaria freschezza al titolo, evitando un precoce affaticamento cromatico, questi risultano essere poco connessi l’un l’altro, dando la spiacevole sensazione di trovarsi in dei veri e propri livelli a tenuta stagna, piuttosto che di star facendo un esperienza di viaggio continua e indissolubile.

Il comparto sonoro è più che apprezzabile con un sound design avvolgente e rilassante, utile a immedesimarsi nell’azione.

È però nella colonna sonora, composta da Takeshi Furukawa (già celebre per aver curato le musiche di The Last Guardian), che l’avventura di Wishfully brilla maggiormente dal punto di vista sonoro: composizioni potenti e posizionate sapientemente sono in grado di far emozionare anche il più duro degli orecchi.

Conclusione

Planet of Lana è un gioco che si lascia ispirare dai migliori, senza la presunzione di voler rivoluzionare il genere. Quello che spicca nella produzione Wishfully è senz’altro il comparto artistico, curato, riconoscibile e che non può lasciare indifferenti, sia dal lato visivo che sonoro.
Si tratta in definitiva di un’esperienza memorabile e adatta a tutti, senza però raggiungere le vette delle produzioni a cui si ispira.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Xbox Series S|X, PC, Xbox One
  • Data uscita: 23/05/2023
  • Prezzo: 19,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su PC grazie all’Xbox Game Pass

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Recensioni

Street Fighter 6 – Recensione

Il 2023 si prospetta come un anno davvero memorabile per gli amanti dei picchiaduro, con i nuovi capitoli di Tekken e Mortal Kombat ormai in dirittura d’arrivo. E Capcom, casa madre della saga di Street Fighter, non poteva certamente mancare alla festa. Uscito nei negozi da poche settimane, a ben sette anni di distanza dal lancio di Street Fighter V, Street Figher 6 ha l’arduo compito di rilanciare il brand e fornire una valida alternativa ai suoi agguerriti concorrenti. Capcom sarà riuscita a fare centro? Scopriamolo insieme in questa recensione in cui passeremo ai raggi X l’ultimo capitolo della saga di Ryu e Ken, Street Fighter 6.

Piatto ricco mi ci ficco

Street Fighter 6: modalità
Ecco le tre modalità principali di Street Fighter 6.

Il primo aspetto che colpisce di Street Fighter 6 è la ricchezza dell’offerta che propone. Capcom sembra aver fatto tesoro delle critiche ricevute all’uscita del quinto capitolo e ha inserito da subito un buon numero di modalità di gioco e contenuti.

Fin dalla prima schermata, il giocatore dovrà scegliere fra tre percorsi differenti, ovvero il World Tour, il Battle Hub e il Fighting Ground. Andiamo ad esplorare nel dettaglio queste modalità.

Alla conquista di Metro City

Il World tour rappresenta un divertente passatempo per il single player.

La modalità World è di fatto la nuova modalità storia di Street Fighter 6. Dopo aver creato il suo avatar, il giocatore viene catapultato per le strade di Metro City, storica città legata alla saga di Final Fight.

Qui viene offerta la possibilità di interagire con numerosi personaggi, svolgendo per loro missioni o semplicemente sfidandoli a classici incontri 1 vs 1.

La mappa di gioco risulta sempre molto chiara e distingue in modo netto le missioni principali, legate alla progressione della storia da tutti i compiti collaterali. Durante gli spostamenti la telecamera si troverà alle spalle del giocatore, mentre per gli scontri avremo la classica inquadratura laterale.

L’aspetto grafico di Metro city e del World Tour in generale è senz’altro convincente, anche se risulta evidente il downgrade rispetto alle modalità principali di Street Fighter 6.

Col progredire della storia il nostro personaggio, oltre a salire di livello e potenziare le sue statistiche, ha la possibilità di incontrare tutti i personaggi di Street Fighter 6 e di “assumerli” come maestri.

In questo modo l’avatar da noi creato può imparare tutte le mosse speciali dei vari lottatori, mescolandole in modo originale per creare il proprio set personalizzato, sebbene le mosse base del personaggio restino legate allo stile del lottatore scelto come maestro.

Nel corso dell’avventura capita di affrontare anche varie battaglie di gruppo, in cui il nostro protagonista, talvolta spalleggiato da un alleato, deve sbaragliare intere orde di nemici, secondo la tradizione dei classici picchiaduro a scorrimento.

Wolrd tour offre anche una serie di divertenti mini giochi, che aumentano ulteriormente la varietà dell’avventura. Mi limito a citare l’Hado Pizza, che attraverso l’inserimento corretto di comandi sempre più complessi ci consente di sfornare squisite prelibatezze a base di pizza.

In definitiva, la modalità World Tour è una buona novità per il single player. Certo, la trama non brilla per complessità e originalità e l’azione di gioco alla lunga diviene ripetitiva, ma World Tour garantisce un buon coinvolgimento e tanto divertimento, oltre a fungere da introduzione per le meccaniche base di Street Fighter 6.

Sala giochi virtuale

Street Fighter 6: Battle hub
Battle Hub è il cuore pulsante della community di Street Fighter 6.

Nella modalità Battle Hub, sempre alla guida del nostro avatar, veniamo introdotti in una modernissima e sfarzosa sala giochi virtuale. Questo ambiente è creato per rappresentare il punto di ritrovo ideale per la community di Street Fighter 6.

In questa modalità abbiamo la possibilità di sederci di fronte ai vari cabinati per sfidare gli avatar avversari in classiche sfide a Street fighter 6. Inoltre, gli avatar possono affrontarsi nelle sfide speciali (su cui torneremo) e persino in battaglie tra avatar, con tutte le mosse e le abilità sbloccate nella modalità world tour.

I giocatori hanno anche la possibilità di chattare tra loro, stringere amicizia, unirsi nei vari club (che possono anche essere creati dal giocatore stesso), comprare oggetti e vari miglioramenti estetici nei negozi dedicati e persino sfidarsi ai vecchi classici capcom, tra cui i primi due Street Fighter e Final Fight.

Torna anche il Capcom Fighting Network, che consente di visualizzare i migliori replay, consultare le classifiche e gestire la propria lista di amici e di giocatori seguiti.

Infine, Battle hubs propone una serie di eventi e tornei personalizzati, che vanno a mantenere sempre alto il coinvolgimento dei giocatori e permettono ad ognuno di trovare gli avversari e le competizioni più adatte al suo livello.

Ho trovato questa modalità davvero ben fatta e ricca di possibilità. Unico neo è rappresentato dalla valuta di gioco. Ancora una volta avremo a disposizione un doppio sistema di denaro, ovvero i fighter coins, scambiabili con denaro reale e i drive tickets, ottenibili svolgendo varie attività nel battle hub.

Purtroppo questi ultimi hanno vari svantaggi rispetto ai fighter coins, sia perché gli acquisti tramite tickets risultano più onerosi e difficili, sia per il fatto che diversi elementi, come i nuovi lottatori che verranno introdotti in forma di DLC, non saranno acquistabili tramite tickets.

Pronti a scendere in campo

Il Fighting Grounds rappresenta il fulcro dell’azione in Street Fighter 6.

Come già accennato, il Fighting Ground presenta tutte le modalità classiche di Street Fighter. La modalità Arcade è dedicata alle storie dei singoli lottatori (che a dire la verità risultano un po’ piatte, almeno finora) e può essere affrontato a varie difficoltà e con un numero variabile di scontri.

Va segnalato qui l’ottimo lavoro svolto da Capcom nel programmare l’intelligenza artificiale. Gli avversari controllati dalla CPU infatti, soprattutto ai livelli di difficoltà più alti, sono davvero all’altezza della situazione.

Scordiamoci di vincere grazie al caso o alla ripetizione delle mosse: i nostri avversari sono sempre pronti a punirci con combo e strategie di gioco mutuate dalle esperienze online e propongono davvero un buon livello di sfida.

Vecchie e nuove conoscenze

Street Fighter 6: roster

Il versus permette sfide singole o a squadre contro la cpu o un avversaio umano, mentre le sfide speciali sono incontri singoli con regole particolari. In questa modalità saranno presenti ostacoli particolari, come raggi elettrici o esplosivi e ci saranno condizioni di vittoria specifiche (per esempio atterrare l’avversario tre volte).

Parlando del roster, Street Fighter 6 mette a disposizione 18 lottatori. Non si tratta di un numero particolarmente elevato, ma se non altro i personaggi presenti offrono un’ottima varietà.

Fanno il loro ritorno gli otto protagonisti di street Figher 2, a cui si affiancano dieci altri lottatori, tra i quali alcune vecchie conoscenze come Deejay e Cammy e diversi volti completamente nuovi.

Ho trovato i nuovi inserimenti piuttosto ben caratterizzati e interessanti, con la sola eccezione di Kimberly e Lily, fin troppo simili tra loro esteticamente. Merita sicuramente una menzione la gigantesca Marisa, lottatrice italiana il cui stile di lotta a base di Pancrazio si ispira ai gladiatori romani.

Dal punto di vista del Gameplay, ogni lottatore propone uno stile originale ed interessante, anche se è ancora troppo presto per discutere del bilanciamento del roster.

Mazzate da tutto il mondo

Sono presenti anche gli scontri online, come sempre divisi tra amichevoli e classificati. In questi ultimi il rango e il punteggio iniziale del giocatore vengono stabiliti dopo una prima serie di dieci scontri, che andranno a collocare il giocatore in una categoria adeguata al suo livello.

Durante le battaglie non abbiamo quasi mai riscontrato alcun tipo di rallentamento o lag, nemmeno nei combattimenti cross-platform o con avversari provenienti dall’altra parte del mondo.

Capcom è infatti riuscita ad implementare il rollback netcode in maniera davvero encomiabile, regalandoci un’esperienza online davvero piacevole, scorrevole e divertente.

L’importanza dell’allenamento

Street Fighter 6: Modalità Allenamento
La modalità training di Street Fighter 6 è di gran lunga la migliore della saga.

Merita una menzione speciale la modalità allenamento, davvero ricchissima e completa. La modalità infatti presenta una serie enorme di informazioni e tutorial, divisi per livello, che consentono al giocatore di prendere gradualmente familiarità con tutti gli elementi di gioco.

Sono comprese anche istruzioni specifiche per le meccaniche più avanzate, che di solito si incontrano solo negli scontri online. Questo permette ad ogni giocatore di avere molte più indicazioni per migliorare le sue abilità.

Il gioco fornisce anche delle piccole guide ad ogni personaggio, che consentono una maggiore comprensione dei punti di forza e debolezza di ogni lottatore e delle tattiche base da adottare nel suo utilizzo.

Un Gameplay rinnovato

Street Fighter 6 inserisce numerosi elementi di novità nel suo gameplay.

Veniamo ora all’elemento cardine di Street Fighter 6, ovvero il suo gameplay. Fin dall prime battute, il nuovo titolo Capcom ricorda da vicino lo stile del suo predecessore, proponendo scontri dal ritmo sostenuto in cui tempismo e prontezza di riflessi contano quanto la tecnica.

Questo sesto capitolo però introduce tutta una serie di innovazioni che vanno a modificare radicalmente le strategie e l’andamento delle battaglie. Anzitutto, ogni lottatore ora dispone di un numero maggiore di mosse, sia speciali che uniche. Questo va ad aumentare di molto la profondità dei personaggi, obbligando il giocatore a spendere più tempo nella modalità allenamento per padroneggiarli a dovere.

Torna la barra dedicata alle critical art, divisa in tre livelli. Tutti i personaggi avranno a disposizione tre diverse super, ognuna delle quali consumerà un numero maggiore di indicatori. Anche in questo caso, sta al giocatore decidere se sfruttare un maggior numero di super più deboli o concentrarsi su un unico colpo mortale.

Ma l’innovazione più importante è certamente l’inserimento del drive system, che ora andremo ad approfondire meglio.

Un drive per ogni evenienza

Street Fighter 6: Drive System
Il drive system innova e modifica il gameplay di Street Fighter 6 in maniera davvero importante.

Sotto la barra dell’energia vitale si trova un nuovo indicatore, denominato appunto drive. Grazie a questa barra il giocatore può eseguire una serie di nuove abilità. Anzitutto il drive impact, una potente attacco in grado di spezzare la guardia avversaria e assorbire una certa quantità di danno, permettendo di innescare le proprie combo.

Segue il drive parry, una mossa difensiva simile alle parate viste in Street Fighter 3, che va ad annullare totalmente gli attacchi avversari ma comporta il rischio di lasciare il giocatore scoperto se eseguita al momento sbagliato.

Al drive parry è possibile collegare il drive rush, un rapido scatto in avanti che va a ridurre la durata dei frame degli attacchi, permettendo di innescare combo e combinazioni davvero devastanti.

É possibile attivare il rush anche a partire da alcune mosse base del personaggio, cosa che rende questa abilità davvero insidiosa e in grado di diventare la base di moltissime strategie offensive.

Fa il suo ritorno anche l’overdrive, ovvero la possibilità di potenziare le mosse speciali con la pressione di più pulsanti d’attacco al momento dell’esecuzione.

Infine, il drive reversal, eseguibile innescando un drive impact quando si è appena bloccato un attacco nemico. Il nostro personaggio eseguirà un contrattacco in grado di allentare la pressione scagliando l’avversario lontano da noi.

Ognuna di queste tecniche andrà sfruttata con attenzione, dal momento che il consumo dell’indicatore drive causa lo stato di burnout, durante il quale l’indicatore si ricarica molto più lentamente e il nostro personaggio subisce danni maggiori dagli attacchi nemici.

É facile intuire come tutte queste nuove abilità accrescano moltissimo la varietà degli scontri, dal momento che ora il giocatore ha a disposizione un numero molto maggiore di scelte e possibilità, sia offensive che difensive.

Personalmente credo che Capcom con questo sistema abbia davvero fatto centro, poichè è riuscita ad innovare in maniera intelligente il gameplay rendendolo ancora più solido ed imprevedibile.

Lo stile più appropriato

Street Fighter 6: Comandi semplificati
La scelta di inserire comandi semplificati in Street Fighter 6 ha fatto davvero discutere.

E veniamo all’altro grande cambiamento, che tanto ha fatto discutere i fan, ovvero la presenza dei comandi semplificati. In Street Fighter 6 infatti il giocatore può scegliere tra tre set di comandi, ovvero classico, moderno e dinamico.

Il sistema classico propone il tipico schema a sei pulsanti, tre pugni e tre calci deboli, medi e forti. Le abilità drive si attivano combinando un pugno e un calcio medio oppure un pugno ed un calcio forte.

Il sistema moderno si basa su quattro pulsanti, ovvero attacco debole, medio, forte e speciale. A seconda della situazione la cpu sceglie se eseguire un pugno o un calcio. Le mosse speciali sono molto semplificate e possono essere attivate dalla semplice pressione del comando speciale, accompagnato da una singola direzione.

Con questo stile il danno inflitto dalle combo è leggermente minore rispetto allo stile classico. Questo sistema ricorda quello di giochi come Super Smash Bros o Injustice e sembra pensato per i giocatori alle prime armi o abituati ad altri picchiaduro.

Il sistema dinamico infine è quello più guidato ed automatizzato. Selezionandolo avremo solamente tre tasti a disposizione, legati alla distanza dall’avversario (vicino, medio e lontano). Con la semplice pressione consecutiva dello stesso comando il nostro lottatore innescherà automaticamente tutta una serie di combo.

Questo stile è evidentemente pensato solo per i giocatori più scanzonati, che non hanno tempo e pazienza per imparare comandi speciali e combo. Non sarà possibile ricorrere allo stile dinamico nelle sfide online.

Anche in questo caso, ho apprezzato la scelta di Capcom, che permette anche a giocatori meno pratici della saga di Street Fighter di avvicinarsi a questo gioco, dal momento che i comandi moderni possono risultare più semplici ed abbordabili per molti potenziali utenti. Tuttavia, non sarebbe strano avere delle sorprese, dal momento che già diversi giocatori di alto livello scelgono di affrontare le sfide online utilizzando proprio lo stile moderno.

Street Fighter 6 è davvero un titolo incredibile, completo in ogni suo aspetto.

Conclusione

Street Fighter 6 è davvero un eccellente picchiaduro, completo in ogni suo aspetto. Il gioco Capcom unisce un’eccellente gameplay ad un gran numero di modalità, sia per il signle player che per il multigiocatore. Gli unici difetti del gioco sono da riscontrare nel roster non troppo numeroso e nelle singole storie dei personaggi, fin troppo brevi e superficiali. Consiglio assolutamente l’acquisto, soprattutto per i fan del genere. Non ve ne pentirete!

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, Switch, PC, PS4
  • Data uscita: 26/05/2023
  • Prezzo: 59,99 €

Ho nuovamente provato il gioco a partire dal day one dell’ultimo update su PlayStation 5.

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Redfall – Recensione

La ventennale storia di Arkane Studios è intrisa di trame piene di magia, sovrannaturale ed eventi storici, che mischiandosi con credenze popolari hanno sempre formato un mix perfetto per tutti gli appassionati di videogame. Quando la software house annunciò Redfall, uno sparattutto in cui i nostri nemici sono le creature dell’horror gotico di Bram Stoker – i vampiri – la mia curiosità è diventata attenzione. Con Redfall, Arkane Studios ha tutti gli elementi per creare la propria opera magna migliorando e ampliando quanto di ottimo fatto in tutti questi anni, con particolare riferimento a Dishonored, Prey e Deathloop. Ci saranno risusciti? Scopriamolo insieme in questa recensione di Redfall.

Gotico a stelle e strisce

Redfall era una tranquilla isoletta americana del Massachusetts, terra madre di una comunità dedita al lavoro. Oggi Redfall è una pericolosa isoletta statunitense pregna di vampiri da cui è impossibile fuggire perché le acque sono state letteralmente paralizzate. Noi – cioè uno dei quattro personaggi che è possibile interpretare JacobLaylaDev o Remi – iniziamo il gioco dentro un’imbarcazione che ha appena visto svanire le sue possibilità di salvezza. Chi ha giocato Deathloop avrà, tanto per cambiare, un senso di deja vu, ma ben presto Redfall prenderà una piega decisamente diversa.

Sangue, morte e desolazione hanno costretto me e Jacob – il personaggio che ho scelto per questa avventura – sulla terraferma. Il primo compito è sopravvivere: fortunatamente gli abitanti dell’isola oppongono ancora una flebile resistenza, che come nel cinema post apocalittico ha in una stazione di polizia il suo primo avamposto, l’hub centrale da cui far partire le missioni principali per la prima metà della nostra esperienza sull’isola.

Recensione Redfall: inizio

La trama è uno dei maggiori pregi del gioco: l’isola di Redfall è stata vittima dell’avidità e della follia dell’Aevum, una casa farmaceutica che ha condotto esperimenti sul sangue degli abitanti del posto fino a generare dei vampiri. Tentativo dopo tentativo, la situazione è drasticamente peggiorata e l’etica del consiglio di amministrazione dell’Aevum si è rivelato inesistente. Sotto questo punto di vista Arkane Studios ha creato dei villain veramente senza scrupoli: il motivo principale che vi farà continuare a giocare è probabilmente scoprire fino a che punto può arrivare la cattiveria di questi nuovi non morti. Purtroppo e senza alcun particolare motivo, una parte di questa storia viene raccontata attraverso dei cinematic statici: diapositive in stile fumetto che non rendono giustizia alla scrittura dei nemici.

Un mondo chiuso

Redfall è formata da due macroaree di gioco. Normalmente parlerei solo della prima per evitare spoiler; in questo caso, parlerò solo della prima perché la seconda è sfortunatamente uguale alla precedente, solo un po’ più grande.

La mappa dell’isola si dirama in quartieri infestati da vampiri ed esseri umani che hanno deciso di venerare i non morti per scampare a fine certa o con scopi loschi. Per questo, la prima operazione possibile all’interno di un nuovo quartiere è il ripristino dei rifugi, cioè degli scantinati che una collegati alla corrente elettrica agiranno da mini hub per iniziare le quest di quella zona. Missioni che sono in realtà sempre due e sempre le stesse: l’ultima di ogni rifugio ci consente di uccidere un vampiro capo e ottenerne il teschio, oggetto fondamentale per completare la trama principale. Se vediamo dunque queste attività come necessarie per la quest principale, le missioni secondarie si riducono a una manciata a cui possiamo sommare l’aspetto più controverso: i nidi.

Recensione Redfall: Cuore del Nido

I nidi sono dei dungeon che rendono i vampiri di quell’area più forti del normale; di conseguenza, è particolarmente utile distruggerli. Per farlo bisogna avventurarsi in una caverna e distruggere il cuore che alimenta gli essere immondi. Una volta distrutto il cuore, avremo poco meno di un minuto per raccogliere il bottino e scappare via con la refurtiva prima del crollo della struttura. I nidi sono chiaramente pensati per la modalità cooperativa poiché non è fisicamente possibile raccogliere tutti gli oggetti da soli, prima del crollo, ma più di qualcosa non torna.

Dal momento in cui sono entrato nel mio primo nido, ho capito che il gioco è chiaramente incompleto su diversi punti di vista; infatti, anche se non sono uscito per tempo, nessuna penalizzazione mi è stata applicata. Semplicemente un caricamento mi ha portato fuori dalla zona. Inoltre, anche se queste aree sono pensate per la modalità coop, in realtà con Jacob è possibile arrivare fino alla fine senza dover affrontare alcun nemico. Il nostro cecchino infatti ha la capacità di rendersi invisibile e potrà arrivare indisturbato fino al cuore senza nemmeno spettinarsi. Il risultato della mia avventura con tutti i nidi è stato andare dritto per un dungeon che è sempre, ma veramente sempre, uguale, dare due colpi ai connettori del cuore, raccogliere una cassa di oggetti e scappare via.

Recensione Redfall: Jacob Boyer

La conferma che qualcosa non va in questo videogioco è comunque ben visibile anche fuori dai dungeon. La quest principale mi ha fatto viaggiare per tutta la mappa e ho notato che tra una zona d’interesse e l’altra, la città è letteralmente vuota, e sempre uguale. La maggior parte delle case e dei negozi di Redfall non sono accessibili; i pochi che lo sono, hanno un legame con qualche quest, mentre in strada si può girare tranquillamente sia di giorno che di notte, poiché la quantità di nemici, vivi o non morti, è incredibilmente bassa. A questo bisogna aggiungere che Redfall non è un open-world – una volta passati alla seconda mappa non si può tornare più alla precedente – e un’assurda nube rossa, una sorta di zona velenosa che porta alla morte, rende impossibile spostarsi in totale libertà.

Una volta giunto nelle zone di interesse, quelle piene di nemici che ostacolano la nostra missione, ho notato con immensa nostaglia il tocco di Arkane Studios: tutte le aree principali presentano diverse entrate che si adattano al nostro stile di gioco: si può entrare dalla porta principale come un carro armato; si può eludere i nemici sgattaiolando sul tetto oppure entrare dalla porta sul retro con l’aiuto di un grimaldello. Idee interessanti, ma purtroppo copia-incollate da un posto all’altro, nonostante queste aree presentino ambientazioni diversificate e gradevoli: il cinema, la casa infestata, la casa di cura o il cantiere navale hanno tutti una propria identità, anche grazie ai diversi documenti che possiamo trovare al loro interno, che danno un volto alle vittime di questa tragedia e un senso alla trama. Tutto però ritorna sotto la sufficienza quando dobbiamo affrontare gli avversari.

Paletti a salve

Mi piacerebbe dire che il problema principale di Redfall sia l’intelligenza artificiale, come più volte ho letto su diverse fonti, ma in realtà è tutto il sistema che si regge su fondamenta deboli.

I personaggi principali sono eccessivamente forti rispetto a tutto quello che li circonda. Per esempio, Jacob è un cecchino con tre abilità: diventare invisibile; inviare un corvo in ricognizione; evocare un fucile “spettrale” dotato di aimbot che mira direttamente alla testa. Queste tre abilità possono essere potenziate da un albero delle abilità, ma sono così potenti che lo skill tree è completamente inutile.

Anche se Redfall non è un looter shooter, le armi – poco meno di dieci tipi – si differenziano per rarità (indicata dal colore), il proprio livello e l’utilizzo che ne dovremmo fare. Un’arma “gialla” di basso livello farà sempre meno danni di una “grigia” (comune) ma avrà più caratteristiche extra. In aggiunta, dato che abbiamo due nemici principali, umani e vampiri, ci sono armi che sono efficaci contro gli esseri viventi – le comuni armi – e le armi pensate per i vampiri: sparapaletti, cannone a raggi UV e pistola lanciarazzi.

Tra tutti, lo sparapaletti è l’arma più potente del gioco, ma si può tranquillamente arrivare fino alla fine con un fucile a pompa o con uno da cecchino, poiché i nemici non ci metteranno mai veramente in difficoltà e anche nelle situazioni peggiori ci sarà sempre una sorta di glitch che potrà salvarci la pelle. Tutto questo perchè il gunplay del videogioco di Arkane Studios è impreciso e privo di tutti quei dettagli che hanno permesso alla software house di diventare così popolare su altri generi: basta andare dritti con un’arma e prima o poi i nostri nemici cadranno uno dopo l’altro.

La sfida aumenta verso la fine del gioco, ma non ho mai avuto la necessità di pensare a una strategia. Mi è bastato essere semplicemente un po’ più attento, fiducioso del fatto che l’intelligenza artificiale dei nemici sia imbarazzante. Come già detto, Jacob può diventare invisibile e la sensazione è che i villain non siano stati istruiti su come agire con questo personaggio; infatti, se passiamo vicino a un nemico mentre siamo invisibili, tanto gli essere umani quanto i vampiri, diranno qualcosa che ci fa capire che hanno avvertito la sua presenza, ma se siamo all’interno di uno scontro a fuoco e all’improvviso decidiamo di diventare invisibili, gli avversari smetteranno di sparare e addirittura di cercarci.

La sensazione di un videogioco incompleto, o per meglio dire appena abbozzato, è dato anche dalla tipologia di nemici. Gli essere umani sono tutti uguali, anche se ci sono ben tre fazioni con un background interessante ma mai pienamente sviluppato: la squadra dell’Aevum, teoricamente i più armati e pericolosi; la Bellwether Security, società che si occupa dell’eliminazione dei vampiri ma con traffici decisamente torbidi e le varie sette con a capo i vampiri. In fondo, questi tre gruppi dovrebbero distinguersi per la capacità di agire in simultanea ma senza una vera IA di gruppo come si può pensare di diversificarli?

I vampiri sono i più forti, ma semplicemente perché sono più coriacei singolarmente. Già i “base” mi hanno messo maggiormente in difficoltà grazie alla loro capacità di teletrasportarsi di fronte a Jacob. Senza esagerare con gli spoiler, tutte le altre varianti posseggono una qualità unica che li rende un minimo più complessi da gestire, senza però mai diventare veramente difficili. Medesimo discorso anche per le tre boss fight presenti nel gioco: sono morto diverse volte prima di riuscire a buttar giù il Vampire God di turno, ma non ho mai avuto l’impressione di non potercela fare: basta solo essere più accorti. Anche perché le meccaniche sono di quanto più standard e consolidato possibile: alcune boss fight dei primi anni 2000 hanno ancora maggiore appeal (si veda Metroid Prime o anche il più bistrattato The Legend of Zelda: The Wind Waker).

Paradossalmente il nemico più forte del gioco, ma anche la meccanica più interessante, prende il nome di Folgore: un nerboruto vampiro che si presenta in campo sparando fulmini color cremisi. Folgore si materializza andando avanti con la storia principale o quando uccideremo troppi vampiri speciali. Una meccanica che mi ha ricordato i Grandi Antichi di lovecraftiana memoria, che tutto vedono e prima o poi colpiscono. un’idea che mi sarebbe piaciuto vederla ulteriormente sviluppata ma purtroppo così non è stato.

Recensione Redfall: God Vampire

Redfall su Xbox Series X

Tecnicamente Redfall è insufficiente. Ho provato l’opera di Arkane Studios su Xbox Series X e conscio del blocco sui 30 fps, mi aspettavo una resa grafica da next-gen. Così non è: le texture sono mediocri nanche per un titolo per PlayStation 4 o Xbox One. Alcune aree importanti forniscono un bel colpo d’occhio, ma i complimenti sono diretti solo al design di alcune zone al chiuso come il cinema o la villa di un vampiro divino; l’isola di Redfall è scarna e gli interni delle sue abitazioni sono quanto di più generico sia possibile vedere. Gli essere umani sono tutti uguali, mentre i vampi presentano qualche dettaglio apprezzabile. Purtroppo, in questa mediocrità devo segnalare uno spiazzante stuttering presente in alcune delle fasi più concitate del gioco, nonostante i 30 fps.

Conclusione

Redfall è un videogioco, come giustamente detto anche dallo stesso team di sviluppo, che andava cancellato, poiché è insufficiente sotto tutti gli aspetti, con l’aggravante di deludere una fan base che comprerebbe un titolo di Arkane Studios ad occhi chiusi. L’FPS di Bethesda potrebbe sembrare un buon punto di partenza per uno studio indipendente con una manciata di sviluppatori, ma non può soddisfare la necessità degli Xbox Game Studios di creare videogiochi di alta qualità. Redfall delude su tutti i punti di vista: gameplay, level design e persino graficamente. La trama ha delle buone intuizioni, ma il suo sviluppo è approssimativo. Il gioco avrebbe richiesto maggior tempo per essere completato, ma stiamo parlando di anni, non certo mesi.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Xbox Series S|X, PC
  • Data uscita: 02/05/2023
  • Prezzo: 79,99 € (disponibile sull’Xbox Game Pass)

Ho provato il gioco al day one su Xbox Series X per un totale di circa trenta ore.

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Editoriali

Return to Monkey Island è un’anacronistica necessità

“Salve, sono Guybrush Threepwood, temibile pirata”: quanti di noi sono cresciuti con questo tormentone nella testa, agli inizi degli anni ’90, quando le avventure grafiche spopolavano tra i videogiocatori di Amiga? Era il 1990 e la Lucasfilm, poi Lucasarts, nota casa di produzione cinematografica già autrice di pietre miliari nel genere videoludico come Zak McKraken, Indiana Jones e Loom, tirò fuori dal cilindro The Secret of Monkey Island, avventura grafica che innumerevoli notti insonni regalò ai giovani dell’epoca, almeno nel mio caso). Il recentissimo Return to Monkey Island riprendere esattamente da dove eravamo rimasti, con l’obiettivo di chiudere la trama.

La storia

Protagonista della serie è Guybrush Threepwood, temibile pirata o quasi, che in realtà di temibile il personaggio ha ben poco: lo si può definire tranquillamente un farfallone, ironico e rubacuori, un molto ma molto fortunato piratucolo trovatosi nel momento giusto e al posto giusto. Ed è su questa linea che Ron Gilbert, geniale creatore della serie, fa proseguire il suo “vero” terzo capitolo dopo ben 31 anni dall’ultimo episodio. Return to Monkey Island (sviluppato TerribleToyBox con la collaborazione della Lucasfilm). È un ritorno al passato, un cerchio che si chiude, la ciliegina sulla torta, un “padre di famiglia” che finalmente ha deciso di raccontare la fine della storia, a noi che avendo giocato ai primi due capitoli a suo tempo un po’ tutti figli di Gilbert lo siamo.

Return of Monkey Island è un toccasana in questi tempi, in cui le avventure grafiche non vanno più di moda e dove le nuove generazioni rincorrono sparatutto con grafica fotorealistica. Si tratta di un ritorno alla sana ironia e al filone dei videogiochi dove è ancora necessario usare il cervello per arrivare alla fine.

A dire la verità, per quanto Return to Monkey Island sia un gioco con una trama che può essere completata in circa una decina di ore in modalità difficile (RTMI ha anche una modalità “leggera” con meno enigmi che impedisce ogni tipo di frustrazione), il mio consiglio è di prendersela comoda, di conoscere tutti i personaggi, di sperimentare ogni dialogo perché signori, il tutto vale davvero il prezzo del biglietto!

Ok bello, ma tecnicamente?

Tecnicamente Gilbert non si è molto discostato dal concetto del vecchio SCUMM, innovandolo però con una nuova interfaccia che prevede che il cursore identifichi gli oggetti con i quali si può interagire “suggerendo” l’azione da intraprendere in base agli oggetti stessi. La grafica, per quanto in fase di anteprima sia stata criticata da buona parte della comunità videoludica di appassionati e non, risulta a mio avviso ben riuscita, centrando perfettamente la caratterizzazione dei vari personaggi, dai protagonisti alle comparse. Gli enigmi sono ben calibrati riuscendo, nel contempo, a rappresentare una sfida adeguata senza appesantire la storia di sfide troppo cervellotiche che porterebbero alla frustrazione del giocatore.

Gilbert tra l’altro lo aveva anticipato nelle sue varie interviste prima dell’uscita del titolo, il 19 settembre: ha dovuto, in fase di realizzazione, privilegiare enigmi quanto più possibili lineari per andare incontro alla generazione attuale di videogiocatori, non disposta a sacrificare più tempo del dovuto come magari nei primi anni ’90. In quest’ottica, altro supporto ai videogiocatori è dato dal libro degli aiuti, disponibile sin dai primi istanti nell’inventario di Guybrush e utilizzabile a piacimento. “Se il giocatore si barcamena cercando aiuti su internet, tanto vale che glieli diamo direttamente noi del team di sviluppo, che il gioco l’abbiamo creato” ha affermato Ron Gilbert.

Quella mente geniale di Ron Gilbert

La trama di Return to Monkey Island

La storia di Return to Monkey Island inizia esattamente dallo stesso punto in cui è finito il secondo capitolo, prendendo la piega che probabilmente aveva in mente Gilbert sin dal principio. Certo, ha dovuto fare i conti col passato e con il fatto che prima di RTMI sono usciti altri tre capitoli, ma grazie a dei flashback narrativi e al libro dei ricordi, il giocatore viene riportato immediatamente sui giusti binari della storia.

Sono passati anni da quando Guybrush ha cercato di mettere le mani sul Segreto di Monkey Island, di fatto non riuscendoci a causa del malvagio pirata fantasma Le Chuck che si è rivelato avere il suo stesso obiettivo. Ora si ritrova di nuovo sull’isola di Melee: tante cose sono cambiate ma non la voglia del nostro eroe di scoprire il Segreto. Venendo a sapere che Le Chuck sta mettendo su una ciurma per salpare verso l’Isola della Scimmia, trova il modo di salpare anche lui.

Tutto qui?

Le cose si complicano quando entra in gioco anche un trio di pirati improbabile, salito alla ribalta come nuovo comando pirata dell’isola di Melee e che, attraverso la magia oscura, cerca anch’esso il Segreto alleandosi a fasi alterne, con una spruzzata di un pò di sano doppiogiochismo piratesco, con Le Chuck. Ci saranno nuove isole da esplorare e nuovi personaggi da incontrare, ma anche alcune conoscenze di vecchia data: i riferimenti al passato sono numerosi lungo tutto il gioco, e avremo nuovamente a che fare con Carla, Stan, Otis, Herman.

Se una nota si può appuntare a Ron Gilbert è che, a volte, è davvero estenuante dover andare da un punto all’altro della mappa perché magari ci si rende conto di non aver preso un oggetto…ma d’altronde, è questo lo spirito di un’avventura grafica (peraltro i tempi di percorrenza vengono efficacemente ridotti), fino allo scontro finale, il faccia a faccia tra Guybrush e Le Chuck da tutti atteso, scontro in cui colui che ne uscirà vittorioso avrà finalmente in mano il desiderato Segreto di Monkey Island!

Conclusioni

RTMI è un gioco da provare, adatto sia a chi non ha mai avuto a che fare con un’avventura grafica e non conosce la saga, sia ai fan di vecchia data di Guybrush per i quali diventa un “must have”, imprescindibile prosecuzione (e fine?) del percorso fatto finora tra isole, spade, vascelli e zombie fantasma.

Return to Monkey Island è un gioco di altri tempi di cui si sentiva proprio il bisogno, un prodotto quasi anacronistico ma tremendamente attuale per chi lo aspettava da ben 31 anni. Sembra ieri aver lasciato Guybrush e affini in quel criptico finale di Monkey Island 2, e oggi eccoci qui, con in mano un bellissimo seguito in cui i dialoghi, la satira, l’ironia ci accompagnano nell’opera, forse, di commiato di Ron Gilbert. Saluteremo probabilmente Ron, ma in futuro credo proprio che la saga proseguirà. Monkey Island continuerà a vivere e quel piratucolo senza nessuna speranza con un nome più assurdo della sua ambizione avrà ancora altre avventure da affrontare.