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Street Fighter 6 – Recensione

Il 2023 si prospetta come un anno davvero memorabile per gli amanti dei picchiaduro, con i nuovi capitoli di Tekken e Mortal Kombat ormai in dirittura d’arrivo. E Capcom, casa madre della saga di Street Fighter, non poteva certamente mancare alla festa. Uscito nei negozi da poche settimane, a ben sette anni di distanza dal lancio di Street Fighter V, Street Figher 6 ha l’arduo compito di rilanciare il brand e fornire una valida alternativa ai suoi agguerriti concorrenti. Capcom sarà riuscita a fare centro? Scopriamolo insieme in questa recensione in cui passeremo ai raggi X l’ultimo capitolo della saga di Ryu e Ken, Street Fighter 6.

Piatto ricco mi ci ficco

Street Fighter 6: modalità
Ecco le tre modalità principali di Street Fighter 6.

Il primo aspetto che colpisce di Street Fighter 6 è la ricchezza dell’offerta che propone. Capcom sembra aver fatto tesoro delle critiche ricevute all’uscita del quinto capitolo e ha inserito da subito un buon numero di modalità di gioco e contenuti.

Fin dalla prima schermata, il giocatore dovrà scegliere fra tre percorsi differenti, ovvero il World Tour, il Battle Hub e il Fighting Ground. Andiamo ad esplorare nel dettaglio queste modalità.

Alla conquista di Metro City

Il World tour rappresenta un divertente passatempo per il single player.

La modalità World è di fatto la nuova modalità storia di Street Fighter 6. Dopo aver creato il suo avatar, il giocatore viene catapultato per le strade di Metro City, storica città legata alla saga di Final Fight.

Qui viene offerta la possibilità di interagire con numerosi personaggi, svolgendo per loro missioni o semplicemente sfidandoli a classici incontri 1 vs 1.

La mappa di gioco risulta sempre molto chiara e distingue in modo netto le missioni principali, legate alla progressione della storia da tutti i compiti collaterali. Durante gli spostamenti la telecamera si troverà alle spalle del giocatore, mentre per gli scontri avremo la classica inquadratura laterale.

L’aspetto grafico di Metro city e del World Tour in generale è senz’altro convincente, anche se risulta evidente il downgrade rispetto alle modalità principali di Street Fighter 6.

Col progredire della storia il nostro personaggio, oltre a salire di livello e potenziare le sue statistiche, ha la possibilità di incontrare tutti i personaggi di Street Fighter 6 e di “assumerli” come maestri.

In questo modo l’avatar da noi creato può imparare tutte le mosse speciali dei vari lottatori, mescolandole in modo originale per creare il proprio set personalizzato, sebbene le mosse base del personaggio restino legate allo stile del lottatore scelto come maestro.

Nel corso dell’avventura capita di affrontare anche varie battaglie di gruppo, in cui il nostro protagonista, talvolta spalleggiato da un alleato, deve sbaragliare intere orde di nemici, secondo la tradizione dei classici picchiaduro a scorrimento.

Wolrd tour offre anche una serie di divertenti mini giochi, che aumentano ulteriormente la varietà dell’avventura. Mi limito a citare l’Hado Pizza, che attraverso l’inserimento corretto di comandi sempre più complessi ci consente di sfornare squisite prelibatezze a base di pizza.

In definitiva, la modalità World Tour è una buona novità per il single player. Certo, la trama non brilla per complessità e originalità e l’azione di gioco alla lunga diviene ripetitiva, ma World Tour garantisce un buon coinvolgimento e tanto divertimento, oltre a fungere da introduzione per le meccaniche base di Street Fighter 6.

Sala giochi virtuale

Street Fighter 6: Battle hub
Battle Hub è il cuore pulsante della community di Street Fighter 6.

Nella modalità Battle Hub, sempre alla guida del nostro avatar, veniamo introdotti in una modernissima e sfarzosa sala giochi virtuale. Questo ambiente è creato per rappresentare il punto di ritrovo ideale per la community di Street Fighter 6.

In questa modalità abbiamo la possibilità di sederci di fronte ai vari cabinati per sfidare gli avatar avversari in classiche sfide a Street fighter 6. Inoltre, gli avatar possono affrontarsi nelle sfide speciali (su cui torneremo) e persino in battaglie tra avatar, con tutte le mosse e le abilità sbloccate nella modalità world tour.

I giocatori hanno anche la possibilità di chattare tra loro, stringere amicizia, unirsi nei vari club (che possono anche essere creati dal giocatore stesso), comprare oggetti e vari miglioramenti estetici nei negozi dedicati e persino sfidarsi ai vecchi classici capcom, tra cui i primi due Street Fighter e Final Fight.

Torna anche il Capcom Fighting Network, che consente di visualizzare i migliori replay, consultare le classifiche e gestire la propria lista di amici e di giocatori seguiti.

Infine, Battle hubs propone una serie di eventi e tornei personalizzati, che vanno a mantenere sempre alto il coinvolgimento dei giocatori e permettono ad ognuno di trovare gli avversari e le competizioni più adatte al suo livello.

Ho trovato questa modalità davvero ben fatta e ricca di possibilità. Unico neo è rappresentato dalla valuta di gioco. Ancora una volta avremo a disposizione un doppio sistema di denaro, ovvero i fighter coins, scambiabili con denaro reale e i drive tickets, ottenibili svolgendo varie attività nel battle hub.

Purtroppo questi ultimi hanno vari svantaggi rispetto ai fighter coins, sia perché gli acquisti tramite tickets risultano più onerosi e difficili, sia per il fatto che diversi elementi, come i nuovi lottatori che verranno introdotti in forma di DLC, non saranno acquistabili tramite tickets.

Pronti a scendere in campo

Il Fighting Grounds rappresenta il fulcro dell’azione in Street Fighter 6.

Come già accennato, il Fighting Ground presenta tutte le modalità classiche di Street Fighter. La modalità Arcade è dedicata alle storie dei singoli lottatori (che a dire la verità risultano un po’ piatte, almeno finora) e può essere affrontato a varie difficoltà e con un numero variabile di scontri.

Va segnalato qui l’ottimo lavoro svolto da Capcom nel programmare l’intelligenza artificiale. Gli avversari controllati dalla CPU infatti, soprattutto ai livelli di difficoltà più alti, sono davvero all’altezza della situazione.

Scordiamoci di vincere grazie al caso o alla ripetizione delle mosse: i nostri avversari sono sempre pronti a punirci con combo e strategie di gioco mutuate dalle esperienze online e propongono davvero un buon livello di sfida.

Vecchie e nuove conoscenze

Street Fighter 6: roster

Il versus permette sfide singole o a squadre contro la cpu o un avversaio umano, mentre le sfide speciali sono incontri singoli con regole particolari. In questa modalità saranno presenti ostacoli particolari, come raggi elettrici o esplosivi e ci saranno condizioni di vittoria specifiche (per esempio atterrare l’avversario tre volte).

Parlando del roster, Street Fighter 6 mette a disposizione 18 lottatori. Non si tratta di un numero particolarmente elevato, ma se non altro i personaggi presenti offrono un’ottima varietà.

Fanno il loro ritorno gli otto protagonisti di street Figher 2, a cui si affiancano dieci altri lottatori, tra i quali alcune vecchie conoscenze come Deejay e Cammy e diversi volti completamente nuovi.

Ho trovato i nuovi inserimenti piuttosto ben caratterizzati e interessanti, con la sola eccezione di Kimberly e Lily, fin troppo simili tra loro esteticamente. Merita sicuramente una menzione la gigantesca Marisa, lottatrice italiana il cui stile di lotta a base di Pancrazio si ispira ai gladiatori romani.

Dal punto di vista del Gameplay, ogni lottatore propone uno stile originale ed interessante, anche se è ancora troppo presto per discutere del bilanciamento del roster.

Mazzate da tutto il mondo

Sono presenti anche gli scontri online, come sempre divisi tra amichevoli e classificati. In questi ultimi il rango e il punteggio iniziale del giocatore vengono stabiliti dopo una prima serie di dieci scontri, che andranno a collocare il giocatore in una categoria adeguata al suo livello.

Durante le battaglie non abbiamo quasi mai riscontrato alcun tipo di rallentamento o lag, nemmeno nei combattimenti cross-platform o con avversari provenienti dall’altra parte del mondo.

Capcom è infatti riuscita ad implementare il rollback netcode in maniera davvero encomiabile, regalandoci un’esperienza online davvero piacevole, scorrevole e divertente.

L’importanza dell’allenamento

Street Fighter 6: Modalità Allenamento
La modalità training di Street Fighter 6 è di gran lunga la migliore della saga.

Merita una menzione speciale la modalità allenamento, davvero ricchissima e completa. La modalità infatti presenta una serie enorme di informazioni e tutorial, divisi per livello, che consentono al giocatore di prendere gradualmente familiarità con tutti gli elementi di gioco.

Sono comprese anche istruzioni specifiche per le meccaniche più avanzate, che di solito si incontrano solo negli scontri online. Questo permette ad ogni giocatore di avere molte più indicazioni per migliorare le sue abilità.

Il gioco fornisce anche delle piccole guide ad ogni personaggio, che consentono una maggiore comprensione dei punti di forza e debolezza di ogni lottatore e delle tattiche base da adottare nel suo utilizzo.

Un Gameplay rinnovato

Street Fighter 6 inserisce numerosi elementi di novità nel suo gameplay.

Veniamo ora all’elemento cardine di Street Fighter 6, ovvero il suo gameplay. Fin dall prime battute, il nuovo titolo Capcom ricorda da vicino lo stile del suo predecessore, proponendo scontri dal ritmo sostenuto in cui tempismo e prontezza di riflessi contano quanto la tecnica.

Questo sesto capitolo però introduce tutta una serie di innovazioni che vanno a modificare radicalmente le strategie e l’andamento delle battaglie. Anzitutto, ogni lottatore ora dispone di un numero maggiore di mosse, sia speciali che uniche. Questo va ad aumentare di molto la profondità dei personaggi, obbligando il giocatore a spendere più tempo nella modalità allenamento per padroneggiarli a dovere.

Torna la barra dedicata alle critical art, divisa in tre livelli. Tutti i personaggi avranno a disposizione tre diverse super, ognuna delle quali consumerà un numero maggiore di indicatori. Anche in questo caso, sta al giocatore decidere se sfruttare un maggior numero di super più deboli o concentrarsi su un unico colpo mortale.

Ma l’innovazione più importante è certamente l’inserimento del drive system, che ora andremo ad approfondire meglio.

Un drive per ogni evenienza

Street Fighter 6: Drive System
Il drive system innova e modifica il gameplay di Street Fighter 6 in maniera davvero importante.

Sotto la barra dell’energia vitale si trova un nuovo indicatore, denominato appunto drive. Grazie a questa barra il giocatore può eseguire una serie di nuove abilità. Anzitutto il drive impact, una potente attacco in grado di spezzare la guardia avversaria e assorbire una certa quantità di danno, permettendo di innescare le proprie combo.

Segue il drive parry, una mossa difensiva simile alle parate viste in Street Fighter 3, che va ad annullare totalmente gli attacchi avversari ma comporta il rischio di lasciare il giocatore scoperto se eseguita al momento sbagliato.

Al drive parry è possibile collegare il drive rush, un rapido scatto in avanti che va a ridurre la durata dei frame degli attacchi, permettendo di innescare combo e combinazioni davvero devastanti.

É possibile attivare il rush anche a partire da alcune mosse base del personaggio, cosa che rende questa abilità davvero insidiosa e in grado di diventare la base di moltissime strategie offensive.

Fa il suo ritorno anche l’overdrive, ovvero la possibilità di potenziare le mosse speciali con la pressione di più pulsanti d’attacco al momento dell’esecuzione.

Infine, il drive reversal, eseguibile innescando un drive impact quando si è appena bloccato un attacco nemico. Il nostro personaggio eseguirà un contrattacco in grado di allentare la pressione scagliando l’avversario lontano da noi.

Ognuna di queste tecniche andrà sfruttata con attenzione, dal momento che il consumo dell’indicatore drive causa lo stato di burnout, durante il quale l’indicatore si ricarica molto più lentamente e il nostro personaggio subisce danni maggiori dagli attacchi nemici.

É facile intuire come tutte queste nuove abilità accrescano moltissimo la varietà degli scontri, dal momento che ora il giocatore ha a disposizione un numero molto maggiore di scelte e possibilità, sia offensive che difensive.

Personalmente credo che Capcom con questo sistema abbia davvero fatto centro, poichè è riuscita ad innovare in maniera intelligente il gameplay rendendolo ancora più solido ed imprevedibile.

Lo stile più appropriato

Street Fighter 6: Comandi semplificati
La scelta di inserire comandi semplificati in Street Fighter 6 ha fatto davvero discutere.

E veniamo all’altro grande cambiamento, che tanto ha fatto discutere i fan, ovvero la presenza dei comandi semplificati. In Street Fighter 6 infatti il giocatore può scegliere tra tre set di comandi, ovvero classico, moderno e dinamico.

Il sistema classico propone il tipico schema a sei pulsanti, tre pugni e tre calci deboli, medi e forti. Le abilità drive si attivano combinando un pugno e un calcio medio oppure un pugno ed un calcio forte.

Il sistema moderno si basa su quattro pulsanti, ovvero attacco debole, medio, forte e speciale. A seconda della situazione la cpu sceglie se eseguire un pugno o un calcio. Le mosse speciali sono molto semplificate e possono essere attivate dalla semplice pressione del comando speciale, accompagnato da una singola direzione.

Con questo stile il danno inflitto dalle combo è leggermente minore rispetto allo stile classico. Questo sistema ricorda quello di giochi come Super Smash Bros o Injustice e sembra pensato per i giocatori alle prime armi o abituati ad altri picchiaduro.

Il sistema dinamico infine è quello più guidato ed automatizzato. Selezionandolo avremo solamente tre tasti a disposizione, legati alla distanza dall’avversario (vicino, medio e lontano). Con la semplice pressione consecutiva dello stesso comando il nostro lottatore innescherà automaticamente tutta una serie di combo.

Questo stile è evidentemente pensato solo per i giocatori più scanzonati, che non hanno tempo e pazienza per imparare comandi speciali e combo. Non sarà possibile ricorrere allo stile dinamico nelle sfide online.

Anche in questo caso, ho apprezzato la scelta di Capcom, che permette anche a giocatori meno pratici della saga di Street Fighter di avvicinarsi a questo gioco, dal momento che i comandi moderni possono risultare più semplici ed abbordabili per molti potenziali utenti. Tuttavia, non sarebbe strano avere delle sorprese, dal momento che già diversi giocatori di alto livello scelgono di affrontare le sfide online utilizzando proprio lo stile moderno.

Street Fighter 6 è davvero un titolo incredibile, completo in ogni suo aspetto.

Conclusione

Street Fighter 6 è davvero un eccellente picchiaduro, completo in ogni suo aspetto. Il gioco Capcom unisce un’eccellente gameplay ad un gran numero di modalità, sia per il signle player che per il multigiocatore. Gli unici difetti del gioco sono da riscontrare nel roster non troppo numeroso e nelle singole storie dei personaggi, fin troppo brevi e superficiali. Consiglio assolutamente l’acquisto, soprattutto per i fan del genere. Non ve ne pentirete!

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, Switch, PC, PS4
  • Data uscita: 26/05/2023
  • Prezzo: 59,99 €

Ho nuovamente provato il gioco a partire dal day one dell’ultimo update su PlayStation 5.

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Redfall – Recensione

La ventennale storia di Arkane Studios è intrisa di trame piene di magia, sovrannaturale ed eventi storici, che mischiandosi con credenze popolari hanno sempre formato un mix perfetto per tutti gli appassionati di videogame. Quando la software house annunciò Redfall, uno sparattutto in cui i nostri nemici sono le creature dell’horror gotico di Bram Stoker – i vampiri – la mia curiosità è diventata attenzione. Con Redfall, Arkane Studios ha tutti gli elementi per creare la propria opera magna migliorando e ampliando quanto di ottimo fatto in tutti questi anni, con particolare riferimento a Dishonored, Prey e Deathloop. Ci saranno risusciti? Scopriamolo insieme in questa recensione di Redfall.

Gotico a stelle e strisce

Redfall era una tranquilla isoletta americana del Massachusetts, terra madre di una comunità dedita al lavoro. Oggi Redfall è una pericolosa isoletta statunitense pregna di vampiri da cui è impossibile fuggire perché le acque sono state letteralmente paralizzate. Noi – cioè uno dei quattro personaggi che è possibile interpretare JacobLaylaDev o Remi – iniziamo il gioco dentro un’imbarcazione che ha appena visto svanire le sue possibilità di salvezza. Chi ha giocato Deathloop avrà, tanto per cambiare, un senso di deja vu, ma ben presto Redfall prenderà una piega decisamente diversa.

Sangue, morte e desolazione hanno costretto me e Jacob – il personaggio che ho scelto per questa avventura – sulla terraferma. Il primo compito è sopravvivere: fortunatamente gli abitanti dell’isola oppongono ancora una flebile resistenza, che come nel cinema post apocalittico ha in una stazione di polizia il suo primo avamposto, l’hub centrale da cui far partire le missioni principali per la prima metà della nostra esperienza sull’isola.

Recensione Redfall: inizio

La trama è uno dei maggiori pregi del gioco: l’isola di Redfall è stata vittima dell’avidità e della follia dell’Aevum, una casa farmaceutica che ha condotto esperimenti sul sangue degli abitanti del posto fino a generare dei vampiri. Tentativo dopo tentativo, la situazione è drasticamente peggiorata e l’etica del consiglio di amministrazione dell’Aevum si è rivelato inesistente. Sotto questo punto di vista Arkane Studios ha creato dei villain veramente senza scrupoli: il motivo principale che vi farà continuare a giocare è probabilmente scoprire fino a che punto può arrivare la cattiveria di questi nuovi non morti. Purtroppo e senza alcun particolare motivo, una parte di questa storia viene raccontata attraverso dei cinematic statici: diapositive in stile fumetto che non rendono giustizia alla scrittura dei nemici.

Un mondo chiuso

Redfall è formata da due macroaree di gioco. Normalmente parlerei solo della prima per evitare spoiler; in questo caso, parlerò solo della prima perché la seconda è sfortunatamente uguale alla precedente, solo un po’ più grande.

La mappa dell’isola si dirama in quartieri infestati da vampiri ed esseri umani che hanno deciso di venerare i non morti per scampare a fine certa o con scopi loschi. Per questo, la prima operazione possibile all’interno di un nuovo quartiere è il ripristino dei rifugi, cioè degli scantinati che una collegati alla corrente elettrica agiranno da mini hub per iniziare le quest di quella zona. Missioni che sono in realtà sempre due e sempre le stesse: l’ultima di ogni rifugio ci consente di uccidere un vampiro capo e ottenerne il teschio, oggetto fondamentale per completare la trama principale. Se vediamo dunque queste attività come necessarie per la quest principale, le missioni secondarie si riducono a una manciata a cui possiamo sommare l’aspetto più controverso: i nidi.

Recensione Redfall: Cuore del Nido

I nidi sono dei dungeon che rendono i vampiri di quell’area più forti del normale; di conseguenza, è particolarmente utile distruggerli. Per farlo bisogna avventurarsi in una caverna e distruggere il cuore che alimenta gli essere immondi. Una volta distrutto il cuore, avremo poco meno di un minuto per raccogliere il bottino e scappare via con la refurtiva prima del crollo della struttura. I nidi sono chiaramente pensati per la modalità cooperativa poiché non è fisicamente possibile raccogliere tutti gli oggetti da soli, prima del crollo, ma più di qualcosa non torna.

Dal momento in cui sono entrato nel mio primo nido, ho capito che il gioco è chiaramente incompleto su diversi punti di vista; infatti, anche se non sono uscito per tempo, nessuna penalizzazione mi è stata applicata. Semplicemente un caricamento mi ha portato fuori dalla zona. Inoltre, anche se queste aree sono pensate per la modalità coop, in realtà con Jacob è possibile arrivare fino alla fine senza dover affrontare alcun nemico. Il nostro cecchino infatti ha la capacità di rendersi invisibile e potrà arrivare indisturbato fino al cuore senza nemmeno spettinarsi. Il risultato della mia avventura con tutti i nidi è stato andare dritto per un dungeon che è sempre, ma veramente sempre, uguale, dare due colpi ai connettori del cuore, raccogliere una cassa di oggetti e scappare via.

Recensione Redfall: Jacob Boyer

La conferma che qualcosa non va in questo videogioco è comunque ben visibile anche fuori dai dungeon. La quest principale mi ha fatto viaggiare per tutta la mappa e ho notato che tra una zona d’interesse e l’altra, la città è letteralmente vuota, e sempre uguale. La maggior parte delle case e dei negozi di Redfall non sono accessibili; i pochi che lo sono, hanno un legame con qualche quest, mentre in strada si può girare tranquillamente sia di giorno che di notte, poiché la quantità di nemici, vivi o non morti, è incredibilmente bassa. A questo bisogna aggiungere che Redfall non è un open-world – una volta passati alla seconda mappa non si può tornare più alla precedente – e un’assurda nube rossa, una sorta di zona velenosa che porta alla morte, rende impossibile spostarsi in totale libertà.

Una volta giunto nelle zone di interesse, quelle piene di nemici che ostacolano la nostra missione, ho notato con immensa nostaglia il tocco di Arkane Studios: tutte le aree principali presentano diverse entrate che si adattano al nostro stile di gioco: si può entrare dalla porta principale come un carro armato; si può eludere i nemici sgattaiolando sul tetto oppure entrare dalla porta sul retro con l’aiuto di un grimaldello. Idee interessanti, ma purtroppo copia-incollate da un posto all’altro, nonostante queste aree presentino ambientazioni diversificate e gradevoli: il cinema, la casa infestata, la casa di cura o il cantiere navale hanno tutti una propria identità, anche grazie ai diversi documenti che possiamo trovare al loro interno, che danno un volto alle vittime di questa tragedia e un senso alla trama. Tutto però ritorna sotto la sufficienza quando dobbiamo affrontare gli avversari.

Paletti a salve

Mi piacerebbe dire che il problema principale di Redfall sia l’intelligenza artificiale, come più volte ho letto su diverse fonti, ma in realtà è tutto il sistema che si regge su fondamenta deboli.

I personaggi principali sono eccessivamente forti rispetto a tutto quello che li circonda. Per esempio, Jacob è un cecchino con tre abilità: diventare invisibile; inviare un corvo in ricognizione; evocare un fucile “spettrale” dotato di aimbot che mira direttamente alla testa. Queste tre abilità possono essere potenziate da un albero delle abilità, ma sono così potenti che lo skill tree è completamente inutile.

Anche se Redfall non è un looter shooter, le armi – poco meno di dieci tipi – si differenziano per rarità (indicata dal colore), il proprio livello e l’utilizzo che ne dovremmo fare. Un’arma “gialla” di basso livello farà sempre meno danni di una “grigia” (comune) ma avrà più caratteristiche extra. In aggiunta, dato che abbiamo due nemici principali, umani e vampiri, ci sono armi che sono efficaci contro gli esseri viventi – le comuni armi – e le armi pensate per i vampiri: sparapaletti, cannone a raggi UV e pistola lanciarazzi.

Tra tutti, lo sparapaletti è l’arma più potente del gioco, ma si può tranquillamente arrivare fino alla fine con un fucile a pompa o con uno da cecchino, poiché i nemici non ci metteranno mai veramente in difficoltà e anche nelle situazioni peggiori ci sarà sempre una sorta di glitch che potrà salvarci la pelle. Tutto questo perchè il gunplay del videogioco di Arkane Studios è impreciso e privo di tutti quei dettagli che hanno permesso alla software house di diventare così popolare su altri generi: basta andare dritti con un’arma e prima o poi i nostri nemici cadranno uno dopo l’altro.

La sfida aumenta verso la fine del gioco, ma non ho mai avuto la necessità di pensare a una strategia. Mi è bastato essere semplicemente un po’ più attento, fiducioso del fatto che l’intelligenza artificiale dei nemici sia imbarazzante. Come già detto, Jacob può diventare invisibile e la sensazione è che i villain non siano stati istruiti su come agire con questo personaggio; infatti, se passiamo vicino a un nemico mentre siamo invisibili, tanto gli essere umani quanto i vampiri, diranno qualcosa che ci fa capire che hanno avvertito la sua presenza, ma se siamo all’interno di uno scontro a fuoco e all’improvviso decidiamo di diventare invisibili, gli avversari smetteranno di sparare e addirittura di cercarci.

La sensazione di un videogioco incompleto, o per meglio dire appena abbozzato, è dato anche dalla tipologia di nemici. Gli essere umani sono tutti uguali, anche se ci sono ben tre fazioni con un background interessante ma mai pienamente sviluppato: la squadra dell’Aevum, teoricamente i più armati e pericolosi; la Bellwether Security, società che si occupa dell’eliminazione dei vampiri ma con traffici decisamente torbidi e le varie sette con a capo i vampiri. In fondo, questi tre gruppi dovrebbero distinguersi per la capacità di agire in simultanea ma senza una vera IA di gruppo come si può pensare di diversificarli?

I vampiri sono i più forti, ma semplicemente perché sono più coriacei singolarmente. Già i “base” mi hanno messo maggiormente in difficoltà grazie alla loro capacità di teletrasportarsi di fronte a Jacob. Senza esagerare con gli spoiler, tutte le altre varianti posseggono una qualità unica che li rende un minimo più complessi da gestire, senza però mai diventare veramente difficili. Medesimo discorso anche per le tre boss fight presenti nel gioco: sono morto diverse volte prima di riuscire a buttar giù il Vampire God di turno, ma non ho mai avuto l’impressione di non potercela fare: basta solo essere più accorti. Anche perché le meccaniche sono di quanto più standard e consolidato possibile: alcune boss fight dei primi anni 2000 hanno ancora maggiore appeal (si veda Metroid Prime o anche il più bistrattato The Legend of Zelda: The Wind Waker).

Paradossalmente il nemico più forte del gioco, ma anche la meccanica più interessante, prende il nome di Folgore: un nerboruto vampiro che si presenta in campo sparando fulmini color cremisi. Folgore si materializza andando avanti con la storia principale o quando uccideremo troppi vampiri speciali. Una meccanica che mi ha ricordato i Grandi Antichi di lovecraftiana memoria, che tutto vedono e prima o poi colpiscono. un’idea che mi sarebbe piaciuto vederla ulteriormente sviluppata ma purtroppo così non è stato.

Recensione Redfall: God Vampire

Redfall su Xbox Series X

Tecnicamente Redfall è insufficiente. Ho provato l’opera di Arkane Studios su Xbox Series X e conscio del blocco sui 30 fps, mi aspettavo una resa grafica da next-gen. Così non è: le texture sono mediocri nanche per un titolo per PlayStation 4 o Xbox One. Alcune aree importanti forniscono un bel colpo d’occhio, ma i complimenti sono diretti solo al design di alcune zone al chiuso come il cinema o la villa di un vampiro divino; l’isola di Redfall è scarna e gli interni delle sue abitazioni sono quanto di più generico sia possibile vedere. Gli essere umani sono tutti uguali, mentre i vampi presentano qualche dettaglio apprezzabile. Purtroppo, in questa mediocrità devo segnalare uno spiazzante stuttering presente in alcune delle fasi più concitate del gioco, nonostante i 30 fps.

Conclusione

Redfall è un videogioco, come giustamente detto anche dallo stesso team di sviluppo, che andava cancellato, poiché è insufficiente sotto tutti gli aspetti, con l’aggravante di deludere una fan base che comprerebbe un titolo di Arkane Studios ad occhi chiusi. L’FPS di Bethesda potrebbe sembrare un buon punto di partenza per uno studio indipendente con una manciata di sviluppatori, ma non può soddisfare la necessità degli Xbox Game Studios di creare videogiochi di alta qualità. Redfall delude su tutti i punti di vista: gameplay, level design e persino graficamente. La trama ha delle buone intuizioni, ma il suo sviluppo è approssimativo. Il gioco avrebbe richiesto maggior tempo per essere completato, ma stiamo parlando di anni, non certo mesi.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Xbox Series S|X, PC
  • Data uscita: 02/05/2023
  • Prezzo: 79,99 € (disponibile sull’Xbox Game Pass)

Ho provato il gioco al day one su Xbox Series X per un totale di circa trenta ore.

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Editoriali

Return to Monkey Island è un’anacronistica necessità

“Salve, sono Guybrush Threepwood, temibile pirata”: quanti di noi sono cresciuti con questo tormentone nella testa, agli inizi degli anni ’90, quando le avventure grafiche spopolavano tra i videogiocatori di Amiga? Era il 1990 e la Lucasfilm, poi Lucasarts, nota casa di produzione cinematografica già autrice di pietre miliari nel genere videoludico come Zak McKraken, Indiana Jones e Loom, tirò fuori dal cilindro The Secret of Monkey Island, avventura grafica che innumerevoli notti insonni regalò ai giovani dell’epoca, almeno nel mio caso). Il recentissimo Return to Monkey Island riprendere esattamente da dove eravamo rimasti, con l’obiettivo di chiudere la trama.

La storia

Protagonista della serie è Guybrush Threepwood, temibile pirata o quasi, che in realtà di temibile il personaggio ha ben poco: lo si può definire tranquillamente un farfallone, ironico e rubacuori, un molto ma molto fortunato piratucolo trovatosi nel momento giusto e al posto giusto. Ed è su questa linea che Ron Gilbert, geniale creatore della serie, fa proseguire il suo “vero” terzo capitolo dopo ben 31 anni dall’ultimo episodio. Return to Monkey Island (sviluppato TerribleToyBox con la collaborazione della Lucasfilm). È un ritorno al passato, un cerchio che si chiude, la ciliegina sulla torta, un “padre di famiglia” che finalmente ha deciso di raccontare la fine della storia, a noi che avendo giocato ai primi due capitoli a suo tempo un po’ tutti figli di Gilbert lo siamo.

Return of Monkey Island è un toccasana in questi tempi, in cui le avventure grafiche non vanno più di moda e dove le nuove generazioni rincorrono sparatutto con grafica fotorealistica. Si tratta di un ritorno alla sana ironia e al filone dei videogiochi dove è ancora necessario usare il cervello per arrivare alla fine.

A dire la verità, per quanto Return to Monkey Island sia un gioco con una trama che può essere completata in circa una decina di ore in modalità difficile (RTMI ha anche una modalità “leggera” con meno enigmi che impedisce ogni tipo di frustrazione), il mio consiglio è di prendersela comoda, di conoscere tutti i personaggi, di sperimentare ogni dialogo perché signori, il tutto vale davvero il prezzo del biglietto!

Ok bello, ma tecnicamente?

Tecnicamente Gilbert non si è molto discostato dal concetto del vecchio SCUMM, innovandolo però con una nuova interfaccia che prevede che il cursore identifichi gli oggetti con i quali si può interagire “suggerendo” l’azione da intraprendere in base agli oggetti stessi. La grafica, per quanto in fase di anteprima sia stata criticata da buona parte della comunità videoludica di appassionati e non, risulta a mio avviso ben riuscita, centrando perfettamente la caratterizzazione dei vari personaggi, dai protagonisti alle comparse. Gli enigmi sono ben calibrati riuscendo, nel contempo, a rappresentare una sfida adeguata senza appesantire la storia di sfide troppo cervellotiche che porterebbero alla frustrazione del giocatore.

Gilbert tra l’altro lo aveva anticipato nelle sue varie interviste prima dell’uscita del titolo, il 19 settembre: ha dovuto, in fase di realizzazione, privilegiare enigmi quanto più possibili lineari per andare incontro alla generazione attuale di videogiocatori, non disposta a sacrificare più tempo del dovuto come magari nei primi anni ’90. In quest’ottica, altro supporto ai videogiocatori è dato dal libro degli aiuti, disponibile sin dai primi istanti nell’inventario di Guybrush e utilizzabile a piacimento. “Se il giocatore si barcamena cercando aiuti su internet, tanto vale che glieli diamo direttamente noi del team di sviluppo, che il gioco l’abbiamo creato” ha affermato Ron Gilbert.

Quella mente geniale di Ron Gilbert

La trama di Return to Monkey Island

La storia di Return to Monkey Island inizia esattamente dallo stesso punto in cui è finito il secondo capitolo, prendendo la piega che probabilmente aveva in mente Gilbert sin dal principio. Certo, ha dovuto fare i conti col passato e con il fatto che prima di RTMI sono usciti altri tre capitoli, ma grazie a dei flashback narrativi e al libro dei ricordi, il giocatore viene riportato immediatamente sui giusti binari della storia.

Sono passati anni da quando Guybrush ha cercato di mettere le mani sul Segreto di Monkey Island, di fatto non riuscendoci a causa del malvagio pirata fantasma Le Chuck che si è rivelato avere il suo stesso obiettivo. Ora si ritrova di nuovo sull’isola di Melee: tante cose sono cambiate ma non la voglia del nostro eroe di scoprire il Segreto. Venendo a sapere che Le Chuck sta mettendo su una ciurma per salpare verso l’Isola della Scimmia, trova il modo di salpare anche lui.

Tutto qui?

Le cose si complicano quando entra in gioco anche un trio di pirati improbabile, salito alla ribalta come nuovo comando pirata dell’isola di Melee e che, attraverso la magia oscura, cerca anch’esso il Segreto alleandosi a fasi alterne, con una spruzzata di un pò di sano doppiogiochismo piratesco, con Le Chuck. Ci saranno nuove isole da esplorare e nuovi personaggi da incontrare, ma anche alcune conoscenze di vecchia data: i riferimenti al passato sono numerosi lungo tutto il gioco, e avremo nuovamente a che fare con Carla, Stan, Otis, Herman.

Se una nota si può appuntare a Ron Gilbert è che, a volte, è davvero estenuante dover andare da un punto all’altro della mappa perché magari ci si rende conto di non aver preso un oggetto…ma d’altronde, è questo lo spirito di un’avventura grafica (peraltro i tempi di percorrenza vengono efficacemente ridotti), fino allo scontro finale, il faccia a faccia tra Guybrush e Le Chuck da tutti atteso, scontro in cui colui che ne uscirà vittorioso avrà finalmente in mano il desiderato Segreto di Monkey Island!

Conclusioni

RTMI è un gioco da provare, adatto sia a chi non ha mai avuto a che fare con un’avventura grafica e non conosce la saga, sia ai fan di vecchia data di Guybrush per i quali diventa un “must have”, imprescindibile prosecuzione (e fine?) del percorso fatto finora tra isole, spade, vascelli e zombie fantasma.

Return to Monkey Island è un gioco di altri tempi di cui si sentiva proprio il bisogno, un prodotto quasi anacronistico ma tremendamente attuale per chi lo aspettava da ben 31 anni. Sembra ieri aver lasciato Guybrush e affini in quel criptico finale di Monkey Island 2, e oggi eccoci qui, con in mano un bellissimo seguito in cui i dialoghi, la satira, l’ironia ci accompagnano nell’opera, forse, di commiato di Ron Gilbert. Saluteremo probabilmente Ron, ma in futuro credo proprio che la saga proseguirà. Monkey Island continuerà a vivere e quel piratucolo senza nessuna speranza con un nome più assurdo della sua ambizione avrà ancora altre avventure da affrontare.