Nel profondo dei Caraibi, l’isola di Melee, al di là del Mare dei Ladri, nel limbo onirico del Mare dei Dannati…No, non sono ubriaco a causa di fiumi di Grog e non sto confondendo Sea of Thieves con la saga di Monkey Island.
Premessa
Rare Software, come promesso da Microsoft nell’ultimo Xbox Showcase, ci ha deliziati con un DLC per Sea of Thieves ambientato nientepopodimeno che nell’universo di Monkey Island. Un DLC in tre atti che verranno rilasciati a distanza di circa un mese l’uno dall’altro. Scommettiamo che l’attesa sarà spasmodica?
E relativamente importa che, purtroppo, non sia stato tirato in ballo Ron Gilbert, ideatore dei primi due capitoli della storia e dell’ultimo, Return to Monkey Island, targato Devolver Digital epilogo reale della saga (di cui abbiamo già parlato), avrebbe certamente dato quel tocco di classe in più, ma a conti fatti, Rare, è riuscita nel migliore dei modi.
La storia, a mio avviso infatti, è scritta molto bene e cosa ancora più “magica”, anche se, forse, il voodoo non c’entra nulla, è che Sea of Thieves, da gioco cooperativo e fondamentalmente di azione, viene reso a tutti gli effetti, un’avventura grafica, omaggio sia alla saga di Monkey Island, sia a tutte le avventure grafiche spuntate a cavallo tra gli anni 80 e 90.
Capitolo 1
Il 20 luglio è stato quindi il giorno di The Legend of Monkey Island, come dicevo, primo di tre DLC. Da appassionato della saga, ho approcciato al gioco con il giusto scetticismo, seppur con quella fibrillazione tipica di un bambino che scarta il suo regalo di Natale.
Sea of Thieves mi ha, sin da subito, lasciato con luci ed ombre. La mancata possibilità di salvare la partita, costringendo di fatto a ricominciare le missioni quasi sempre da zero, l’enorme libertà lasciata al giocatore che rende ostica (almeno per me) la comprensione di come accettare missioni e come seguire la mappa, la spiccata indole multiplayer e l’enormità delle cose da fare si scontrano con un’atmosfera piratesca unica, una navigazione di bordo davvero soddisfacente e tutta una serie di allusioni e ambientazioni che solo un appassionato di pirati può davvero comprendere.
Capitolo 2
Dopo l’abituale scenetta post scelta missione, in cui si capirà che Guybrush è rimasto intrappolato in una sorta di dimensione dei dannati per colpa del solito cattivone LeChuck e che proprio voi avrete l’arduo compito di salvarlo, eccoci a navigare quindi nel Mare dei Dannati alla volta di Melee Island.
Ancor prima di scorgere l’isola, una voce, quella di Guybrush…voce familiare, che riscopre antiche emozioni…Dominic Armato! Il doppiatore ufficiale di Guybrush Threepwood. Rare ha fatto le cose in grande penso. Ed eccola che spunta dalla nebbia, i colori diventano più scuri, lasciando finalmente vedere la bellissima volta stellata che sovrasta il mare dei Caraibi con la “classica” Luna, più grande del normale.
L’isola di Melee, in tutto il suo splendore, con le luci in lontananza al posto giusto, con il porto al quale finalmente, dopo tanto averlo vissuto in 2D, attraccherò. I dubbi svaniscono come un fantasma colpito da birra di radice e non vedo letteralmente l’ora di mettere piede sulla terraferma.
Capitolo 3
Appena attraccato, non senza poche difficoltà nello stretto porto di Melee, mi guardo intorno e faccio quello che ogni rispettato fan di Monkey Island farebbe, cerco di scorgere i luoghi familiari e inaspettatamente li riconosco tutti e la sensazione è quella di ritornare a casa.
Rare ha fatto un gran lavoro, è come se si prendesse l’ambientazione originale di Monkey Island e la si rendesse 3D, è tutto lì, al posto dove tutti se lo aspetterebbero. Impagabile è stata la scalata fino alla vedetta, cosa che nel gioco originale avveniva nel tempo di un micro caricamento.
Ci si gira intorno e già si sa cosa aspettarsi poiché è davvero tutto li, di nuovo, dopo più di trent’anni. In 3D. Con i personaggi sempre pronti, da anni ormai, a sparare battute pungenti, ligi al dovere (Chiedimi di Loom!).
Capitolo 4
Come dicevo all’inizio, Ron Gilbert non ha partecipato al progetto, ma ciò non ha impedito a Rare di cogliere sia l’atmosfera sia lo spiccato umorismo dei personaggi, calando il giocatore nel mood Monkey Island. Senza rivelare troppo della storia, posso dire che nonostante l’episodio sia corto e con enigmi alquanto semplici, è un piacere giocarlo.
Le musiche poi, cambiano da scena a scena in una sorta di nuova iMUSE. E, mentre i fan di vecchia data troveranno soddisfazione anche solo nel percorrere le strade di Melee, i nuovi giocatori potranno scoprire per la prima volta questo universo piratesco, molto, molto affine a Sea of Thieves.
Epilogo
Dispiace che in questo primo episodio i luoghi visitabili si limitino ad essere solo quelli della zona del porto fino alla casa del Governatore, ed è impossibile esplorare la restante parte dell’isola.
Anche se, dalla cima dove si trova la vedetta, si possono intravedere dall’alto i tendoni del circo dei fratelli Fettuccini).
Nonostante questo il DLC è un qualcosa di imprescindibile. Sea of Thieves sembra quasi come se sia nato con lo scopo, un giorno, di portarci qui, nell’universo di Guybrush Threepwood. Rare ha colto perfettamente nel segno, regalando a tutti gli appassionati di pirati una vera e propria perla. E non importa se siete fan di Guybrush o meno, la storia vi appassionerà.
Fin dal rilascio della prima demo del gioco, Exoprimal aveva catturato il nostro interesse (per chi se la fosse persa ecco la nostra prova ). Lo sparatutto Capcom, forte di un’idea di base decisamente insolita e di un design molto azzeccato, sembrava avere potenzialità decisamente buone.
Da qualche giorno Exoprimal è finalmente uscito e abbiamo avuto la possibilità di provarlo in modo approfondito. Siamo di fronte ad un ennesimo successo per la casa di Osaka? Scopriamolo insieme!
Dinosauri ed exocorazze
Come già lasciava intuire la demo, la trama di Exoprimal è quantomeno curiosa. A partire dall’anno 2040 una misteriosa serie di varchi spaziotemporali iniziano a comparire su tutta la terra. Da questi varchi emergono intere orde di dinosauri geneticamente modificati, che mettono ben presto a ferro e fuoco il pianeta.
Come risposta all’improvvisa minaccia la misteriosa Aibius Corporation da vita al corpo degli exocombattenti, soldati scelti armati di potenti exocorazze, prodotte dalla stessa Aibius. Queste armature rappresentano l’arma principale della razza umana contro i temibili lucertoloni.
Nel corso del gioco interpretiamo Ace, un novello pilota di exocorazze, il cui aspetto è completamente personalizzabile. Durante l’anno 2043 Ace precipita assieme alla sua squadra, gli Hammerheads, in un misterioso vortice dimensionale. Il gruppo viene trasportato sull’isola di Bikitoa e si rende ben presto conto di trovarsi all’interno di una timeline alternativa.
In questa linea temporale l’intelligenza artificiale Leviathan, anch’essa creata dalla Aibius, costringe Ace e un gran numero di altri exocombattenti ad un numero interminabile di guerre simulate contro i dinosauri. Ace e soci si rendono ben presto conto che queste battaglie si svolgono sempre nell’anno 2040 e sembrano chiaramente nascondere un sinistro piano della misteriosa intelligenza artificiale.
Al soldato e al suo team non resta che proseguire di battaglia in battaglia raccogliendo il più ampio numero possibile di dati. Procedendo nel gioco, vengono via via rivelati ai giocatori i vari retroscena e la verità su Leviathan e sulle sue azioni, su cui non daremo eccessivi dettagli.
Un menù scarno
Il primo aspetto di Exoprimal a balzare all’occhio è il numero davvero esiguo di modalità di gioco che propone. Completato il tutorial, che prevede la creazione del nostro avatar, l’introduzione ai comandi e una battaglia di prova, il giocatore viene trasportato nel menù principale del gioco.
Qui, oltre alla modalità sopravvivenza, cuore pulsante di Exoprimal, c’è veramente ben poco da fare. La modalità Hangar permette di modificare e personalizzare le corazze, sia dal punto di vista estetico che per quanto riguarda l’armamento di supporto. La modalità carriera invece non è altro che un riepilogo delle battaglie online affrontate dal giocatore.
La banca dati, infine, raccoglie tutti i dati, gli audio e i filmati relativi alla trama del gioco, che vanno via via a sbloccarsi man mano che vengono completate le varie battaglie online. Exoprimal, quindi, non presenta una vera modalità in single player. Semplicemente, man mano che il giocatore procede con le sfide online, il gioco sblocca tutta una serie di filmati e rivelazioni che vanno a portare avanti la trama del gioco.
Questa scelta ci ha davvero sorpresi, facendoci anche storcere parecchio il naso. Un gioco come Exoprimal, con un setting e una trama così particolari, avrebbe senz’altro beneficiato di una campagna in single player vera e propria. Essa avrebbe permesso uno svolgimento più chiaro e lineare della trama e sarebbe stata un’occasione per fare pratica con le numerose exocorazze. Un peccato davvero.
La legge del più forte
Come già detto: il centro dell’esperienza di Exoprimal è costituito dalla modalità sopravvivenza. Una volta selezionata, due squadre, da 5 giocatori ciascuna, si affronteranno in una serie di sfide casuali, i risultati delle quali determineranno la squadra vincente.
Normalmente ogni sfida è composta da un numero variabile di missioni, scelte in modo casuale da Leviathan. Le prime sfide vedono le due squadre impegnate contro le orde di dinosauri controllate dalla CPU. Si tratta di solito di battaglie in cui occorre eliminare un certo numero di dinosauri di un certo tipo (per esempio 100 velociraptor) oppure di scontri a difesa di un’area specifica o ancora di un inseguimento ad un particolare dinosauro, spesso di grandi dimensioni.
Le sfide finali, invece, propongono una buona varietà di obiettivi. Nelle missioni “scorta” la nostra squadra dovrà accompagnare il percorso di un cubo dati difendendolo sia dai dinosauri che dalla squadra nemica. In “conquista il trasmettitore” le due squadre saranno impegnate ad ottenere i dati di vari trasmettitori sparsi per l’area. In “assalto Omega” le squadre dovranno caricare i loro martelli omega uccidendo i dinosauri per poi utilizzarlo per frantumare le barriere nemiche. Vi è persino una sfida, denominata “Neo T-Rex”, in cui le due squadre sono costrette ad allearsi per abbattere un mostruoso tirannosauro geneticamente modificato.
É possibile affrontare la modalità sopravvivenza esclusivamente in modalità PvE. In questo caso le due squadre non si affronteranno mai direttamente, nemmeno nella battaglia finale. Dovranno invece completare a distanza i loro obiettivi. A trionfare sarà la squadra che finirà la sua missione nel tempo minore.
La noia che arriva strisciando
In generale, le sfide di Exoprimal sono abbastanza varie e diversificate. Alla lunga, però, subentra una certa sensazione di ripetitività. Sebbene infatti le sfide finali propongano un buon mix di regole e situazioni, le sfide PvE tendono presto a cadere nella monotonia, dal momento che si tratta quasi sempre di falciare il maggior numero possibile di dinosauri il più velocemente possibile.
Questo alla lunga tende a rendere l’esperienza di Exoprimal piuttosto monotona, anche a causa del numero davvero esiguo di modalità. Lo sparatutto Capcom è sicuramente un buon passatempo se si cerca una partita veloce e senza impegno. Quasi certamente però i giocatori che cercano uno sparatutto profondo e longevo resteranno delusi.
Quando verranno raccolti tutti i dati della trama di gioco andrà a sbloccarsi la sfida selvaggia. Si tratta di una serie di sfide a tempo online con regole e missioni particolari. Questa nuova modalità rende le cose un po’ più interessanti, ma a parere di chi scrive il gioco avrebbe davvero giovato di un maggior numero di opzioni.
Oltre ad una vera modalità single player, sarebbe stata gradita la possibilità di scegliere direttamente in quale tipologia di sfida affrontare la squadra avversaria. Di nuovo: un peccato!
Tecnicamente all’altezza
Dal punto di vista tecnico, Exoprimal non delude le aspettative. Il motore grafico del gioco presenta un’ottima definizione, animazioni veloci e fluide e un uso sapiente dei colori e dei vari effetti visivi.
Il design delle exocorazze è davvero ben fatto e particolareggiato e le varie armature presentano un’ottima varietà sia nel design che nei colori. Stesso discorso per i dinosauri, che appaiono davvero ben realizzati, con delle movenze credibili e un set di attacchi che ben si addice alle varie razze rappresentate.
Il design degli stages invece appare piuttosto anonimo. Intendiamoci, le città in rovina, i templi nella foresta e le altre ambientazioni sono realizzati più che discretamente. Anche le mappe risultano ben strutturate e richiedono una certa dose di strategia per essere affrontate in modo ottimale. Tuttavia nessuna ambientazione sembra brillare particolarmente per originalità o per la presenza di elementi memorabili.
Anche il sonoro del gioco non risulta davvero degno di nota. Le musiche che fanno da sottofondo ai filmati e ai menù sono tetre e minacciose al punto giusto, mentre i motivi che accompagnano le battaglie sono più ritmate e coinvolgenti. Sfortunatamente però nessuna delle tracce di Exoprimal è riuscita a colpirci in modo significativo.
Merita una menzione l’adattamento in italiano, che compie la strampalata scelta di doppiare solo i dialoghi di Leviathan, lasciando in lingua inglese il parlato di tutti gli altri personaggi. Una soluzione tanto strana quanto discutibile.
Piovono lucertole
Il sistema di controllo, pur senza far gridare al miracolo, è molto efficace e funzionale. I movimenti, gli attacchi e le varie abilità delle corazze sono semplici, precisi ed immediati. Ciò consente al giocatore di abituarsi velocemente al gioco e lanciarsi nella mischia senza paura di essere un peso morto.
Certo, padroneggiare a dovere ogni corazza, con le sue caratteristiche e stile peculiari, richiede comunque tempo. Lo stesso vale per l’affinamento delle strategie e della coordinazione con gli altri membri del team. Tuttavia, la curva di apprendimento di Exoprimal non è mai troppo ripida e permette anche ai giocatori alle prime armi di farsi rispettare.
L’aspetto del gameplay di Exoprimal che più colpisce è certamente l’enorme numero di dinosauri presenti sullo schermo. Fin dalle prime fasi della missione, infatti, i giocatori vengono letteralmente inondati da migliaia di lucertoloni furiosi. Talvolta i dinosauri precipitano persino dall’alto fuoriuscendo dai varchi, come una vera e propria pioggia di lucertole. Nonostante l’enorme numero di nemici su schermo, il gioco non mostra il minimo rallentamento e riesce a mantenere un ritmo veloce ed incalzante.
Una tuta per ogni occasione
L’altro punto di forza di Exoprimal è sicuramente rappresentato dalla varietà e dal carisma delle exocorazze. Il giocatore ha a disposizione 10 modelli differenti, suddivisi in tre tipologie, ovvero assalto colosso e supporto.
Le corazze assalto hanno il loro punto di forza nella velocità di movimento e nella potenza dei loro attacchi, siano essi a media, lunga o breve gittata. I colossi hanno un enorme potere difensivo e possono persino proteggere gli alleati, a discapito della loro mobilità e gittata. Le exocorazze supporto infine hanno il compito di proteggere e potenziare gli alleati tramite abilità curative o in grado di fornire bonus alla squadra.
Non sarà difficile per il giocatore trovare la corazza più adatta ai suoi gusti e al suo stile di gioco, sebbene la selezione della corazza debba tener conto anche delle scelte degli altri giocatori. fortunatamente, sarà il gioco stesso prima della missione a segnalare la mancanza di elementi chiave nella squadra.
Col procedere del gioco, è possibile sbloccare una serie di oggetti e potenziamenti, che il giocatore può utilizzare per personalizzare la sua corazza. Pur senza presentare una profondità troppo elevata, questa meccanica va ad aumentare ulteriormente la varietà.
Sono presenti infine anche delle varianti per ognuno dei modelli principali del gioco, che ne modificano le armi principali e alcune abilità. Queste corazze mischiano ulteriormente le carte in tavola, fornendo al giocatore ancora più possibilità di trovare modelli adatti al proprio gioco.
Conclusione
Exoprimal è sicuramente un buon titolo, ma non riesce ad essere nulla di più. Ad un design delle exocorazze ispirato e vario si alternano stages piuttosto piatti e anonimi.
Il gameplay, per quanto semplice e divertente, diventa alla lunga piuttosto ripetitivo e ridondante e il numero davvero esiguo di modalità di gioco non fa che peggiorare questa sensazione.
Exoprimal, pur mostrando un concept e una trama piuttosto originali, non ha davvero nulla che lo possa elevare all’interno di un genere, quello degli sparatutto, che presenta un numero davvero enorme di titoli ed alternative.
Se amate la tecnologia e i dinosauri potete prendere in considerazione l’acquisto, ma se siete semplicemente fan del genere sparatutto troverete senz’altro titoli ben più ricchi e completi.
Dettagli e Modus Operandi
Piattaforme: PS5, PS4, Xbox One, Xbox Series X/S, PC
Data uscita: 14/07/2023
Prezzo: 59,99 €
Ho provato il gioco al day one su PlayStation 5 grazie a un codice fornito dal publisher.
La demo di Lies of P ci regala uno sguardo affascinante su un avvincente soulslike in arrivo quest’anno. Rilasciato a seguito dell’ultima conferenza Xbox, il gioco sembra prendere ispirazione dai capolavori di From Software e Hidetaka Miyazaki. In quest’analisi esploreremo i punti salienti della demo, analizzandone grafica, gameplay e le reminiscenze dei giochi “souls-like”.
L’uscita del gioco, dopo un primo rinvio, è prevista per il 19 settembre 2023. Lies of P uscirà su tutte le piattaforme, ma arriverà al day one su Xbox game pass.
Come si presenta alla vista
Sul fronte grafico, l’ultima fatica di Round 8 Studio delizia lo sguardo con texture curate e modelli poligonali tutto sommato dettagliati. Tuttavia, vale la pena notare che i nemici sembrano rifarsi in modo eccessivo all’immaginario burattinesco di Pinocchio. Questo porta a perdere un po’ di originalità, poichè i nostri avversari sono troppo spesso legati ad un’estetica sì mostruosa, ma sempre di natura antropomorfa. È importante sottolineare che si tratta ancora di una demo. Dunque è possibile che, nella versione definitiva, i nemici risultino essere più variegati e originali.
Le animazioni sembrano essere uno degli elementi più critici dell’esperienza. Sebbene esse svolgano bene il loro compito nell’immortalare l’azione, mancano della leggibilità che caratterizza i giochi di Hidetaka Miyazaki. I colpi dei nemici tendono ad andare a segno ora troppo presto, ora troppo tardi, mancando dell’ ottima prevedibilità che contraddistingue gli scontri delle esperienze From Software. Questo penalizza l’intero combat system, che in questo modo, si lega più al riconoscere gli attacchi in arrivo piuttosto che all’abilità del saperli leggere.
Anche le ombre, che dovrebbero essere dinamiche, spesso interagiscono in modo goffo con l’ambiente, compromettendo in parte l’esperienza. Dal punto di vista tecnico, bisogna applaudire l’efficacia del DLSS, che sembra migliorare le performance anche su hardware meno potenti.
Pad alla mano
Il gameplay di “Lies of P” attinge con intelligenza da meccaniche consolidate dei giochi “souls-like“. Le statistiche potenziabili richiamano le esperienze puramente souls e sono Vitalità, Vigore, Forza Motrice, Tecnica e Sviluppo. Questi parametri consentono una buona personalizzazione del proprio personaggio, che al primo sguardo sembra possedere un’alta “build variety“.
La scelta della classe include le vie del Grillo (equilibrio), del Bastardo (destrezza) e dello Spazzino (forza). Questa sceltaoffre diverse opzioni di gioco, senza però costringere il giocatore verso un percorso predefinito già dalle prime battute. Scegliere una qualsiasi di queste classi, infatti, non preclude il livellamento di statistiche agli antipodi rispetto alla classe di origine.
Gli amanti dei souls si sentiranno come a casa: il combat system ricorda molto da vicino quanto già visto nelle scorse esperienze di casa From Software, in particolare in Bloodborne. I nemici, sebbene ostici, non sembrano impossibili da battere, anche se la già discussa imprevedibilità delle animazioni costringe ad un combattimento più legato alla pura memoria, ovvero al sapere riconoscere quale colpo stia per sopraggiungere, piuttosto che alla capacità di reazione del videogiocatore.
Il sistema di cure di lies of P è equivalente a quello tipico dei soulslike, con le “celle” che si ricaricano dopo ogni morte, o dopo esserci riposati ad uno “stargazer” (letteralmente osservatori di stelle), che qui svolgono la medesima funzione dei falò. Tuttavia, Lies of P offre un’aggiunta interessante: una volta esaurite le celle, sarà possibile recuperarne una danneggiando i nemici.
Tra i vari elementi carpiti al genere, Lies of p decide (consapevolmente, ma non colpevolmente) di assorbirne anche alcuni degli aspetti negativi (o quantomeno più controversi). Tra essi l’assoluta la mancanza della possibilità di mettere in pausa o il comando di salto, che è disponibile solo a seguito di una corsa e comunque capace di raggiungere solo le superficie più prossime.
Reminiscenze dei souls
Proprio a proposito degli elementi comuni alle creazioni partorite dalla mente di Hidetaka Miyazaki, Lies of P eredita molte delle caratteristiche distintive dei giochi dell’artista. Tra essi un level design meticoloso e ricco di strade secondarie da esplorare, nemici pericolosi da affrontare e segreti da scoprire. Frequenti anche le classiche porte con l’ormai iconico messaggio: “non si apre da questo lato“, che suggeriscono un ambiente di gioco ricco di shortcuts che collegano le singole aree.
Anche il piazzamento degli stargazer è interessante. Essi infatti sono disseminati in maniera davvero intelligente e trovarne uno risulta davvero appagante. Uno volta raggiunto lo stargazer l’utente vive la consapevolezza di un ambiente sicuro in cui dare frutto degli sforzi finora compiuti, spendendo l’esperienza in livelli, o viaggiando rapidamente all’hub centrale: l’hotel.
Il gioco abbraccia uno stile di combattimento frenetico e violento, fortemente ispirato a quanto visto in “Bloodborne“. Proprio come in quest’ultimo titolo, infatti, è possibile curarsi attaccando l’avversario. Questo crea un combat system che premia iniziativa ed aggressività, nel quale è fondamentale non concedere respiro ai nostri avversari. Tuttavia, la cura è possibile solo qualora il danno subito sia stato ridotto dalla parata, comando non presente nel capolavoro del 2015. Questo aggiunge un altro strato di complessità che potrebbe intrigare qualcuno.
Anche se la meccanica del parry è presente, è importante sottolineare che questa richiede un po’ più di impegno rispetto ad altri titoli. Anche il “danno-premio” finale raramente appaga appieno l’impegno profuso. Molto discutibile risulta la vibrazione del controller, che trema dall’inizio alla fine dell’animazione in maniera decisamente troppo violenta, conferendo una spiacevole sensazione al tatto.
Conclusioni
Lies of P si presenta come un’avventura promettente che attinge con sagacia dall’eredità dei giochi “souls-like”. Nonostante alcuni aspetti da rifinire, come la poca originalità nel design dei nemici e le animazioni, che potrebbero essere più fluide, la demo offre un’esperienza coinvolgente e intrigante.
Notevole anche la durata della demo stessa, che delizia il palato degli utenti con circa due ore di gameplay, sintomo della consapevolezza del team sull’ottimo lavoro svolto finora.
L’ambientazione e la trama misteriosa catturano l’attenzione, mentre il gameplay solido e le scelte strategiche che si presentano al giocatore rendono “Lies of P” una promettente aggiunta al genere soulslike.
Per alcuni sono passati undici anni; per molti altri ben ventitré. La serie Diablo è finalmente tornata con il suo nuovo, moderno e – a tratti controverso – capitolo. Sono tra quelli che non sono mai stati pienamente soddisfatti da Diablo 3 e so che Blizzard è cosciente che esistono videogiocatori come me. Anche per questo motivo la casa di Irvine è tornata all’origine del male con un’opera cruda, violenta e moderna. Scopriamo insieme, in questa recensione di Diablo 4, se Blizzard Entertainment sia riuscita a tornare ai vecchi fasti riesumando il peccato originale, e anche se stessa, da un recente passato poco memorabile.
La figlia dell’odio
Ho iniziato la mia avventura su Diablo 4 nei panni di un nuovo viandante perso tra le desolate lande di Vette Frantumate, una fredda area in cui faccio subito conoscenza del bene e del male che dovrò affrontare nel corso dei sei atti che compongono la campagna principale. Le due facce della stessa medaglia prendono la forma di un lupo nero, l’horadrim Lorath e i petali di sangue di Lilith.
Così come Link è l’eroe prescelto che continuamente si risveglia in The Legend of Zelda, il Viandante di Diablo è una figura senza passato che diventa eroe di un mondo in eterna lotta: Sanctuarium. In Diablo 4, Blizzard ha aggiunto diversi particolari che rendono il videogiocatore maggiormente legato all’intera trama rispetto al passato. Uno su tutti: i petali di sangue, che sono stati casualmente – o così sembra – ingeriti dal nostro alter ego diventandone il legame tra me e la Figlia dell’Odio.
Il titolo di Lilith nasce da suo padre, Mephisto, Signore dell’Odio e uno dei tre Primi Maligni dell’universo di gioco insieme a Baal e lo stesso Diablo. Ma non solo: Lilith è anche la creatrice di Sanctuarium, che ormai libera dalla sue catene vuole tornare a regnare nel proprio mondo. Come di consueto per la saga, questa volontà ha generato nuovi scontri con le forze angeliche capitanate da Inarius, ma anche con gli altri maligni che temono il potere della nuova pretendente al trono. Non voglio essere causa di spoiler e quindi arriverò subito al punto: la trama di Diablo 4 è una piacevole scala di grigi, ricca di intrecci e personaggi che risaltano per la propria costruzione. Blizzard ha fatto un ottimo lavoro sui principali amici, gli horadrim, e i principali nemici, ma anche il tempo dedicato ai personaggi secondari è più che adeguato.
La campagna principale di Diablo 4 mi ha portato per mano alla ricerca di Lilith ed Elias, il vassalo della Figlia dell’Odio. Seguendo i petali di sangue, ho incontrato – in un mondo di gioco enorme – angeli e demoni in una trama che ritengo la migliore dell’intera serie.
Un mondo in eterna lotta
Sanctuarium è un mondo ricco di attività, poiché pieno di sofferenza, malvagità e figure ambigue, in entrambe le fazioni. In Diablo 4, questo concetto viene mostrato e dimostrato passo dopo passo: per esempio, tutti i maligni hanno antipatie tra i loro ranghi e simpatie tra gli umani. Le logiche di Lilith non sono banalmente spietate, ma hanno quasi un senso di ragionevolezza che mi hanno fatto chiedere se fosse veramente lei il male che devo combattere. E dopo la fine della campagna principale, una vera risposta non l’ho ancora trovata, poiché Diablo 4 termina con un cliffhanger tutto da completare, stagione dopo stagione.
Nello specifico, ho portato a termine la campagna principale di Diablo 4 nel giro di una decina di ore. Un tempo leggermente superiore a quello necessario per completare gli atti di Diablo II – di cui abbiamo recensito la nuova edizione Resurrected – e Diablo III. Ma come avete già intuito, Lilith è solo un pretesto per vagare all’interno di una mappa – divisa in cinque regioni – ricca di nemici e grinding. Per lo scopo, gli sviluppatori hanno deciso di applicare l’auto leveling: tutte le creature di Sanctuarium hanno sempre il nostro stesso livello, con qualche eccezione per alcune attività endgame come le Spedizioni principali e le Fortezze.
Naturalismo ai massimi livelli
Sanctuarium è un’enorme opera di Caravaggio in cui l’oscurità è data da sfondi neri su cui un barlume di luce spicca al fine di concentrare lo sguardo del videogiocatore verso i volti scarnificati e sofferenti delle persone e dei mostri che popolano questa landa disperata. Lo stile artistico di Diablo 4 mi ha riportato indietro ai primi due capitoli; in particolare a quell’opera magna che conosciamo con il nome di Diablo II, con l’importante differenza che i cinematic e la qualità generale sono strettamente contemporanee: il disagio dei villaggi è reale, palpabile. Affrontare una quest secondaria è quasi un dovere perché si può percepire una vera necessità tanto nell’ambientazione quanto nelle parole grazie a una scrittura e a un doppiaggio di ottima fattura.
La maggior parte delle creature che popolano Sanctuarium provengono da un bestiario consolidato da 27 anni di storia, ma non sono comunque tantissime e alla lunga gli incontri risultano ripetitivi. D’altro canto, tutti i nemici sono posizionati in modo coerente tra le cinque regioni, seguendo la storia dei luoghi e le caratteristiche ambientali – per esempio, gli scorpioni giganti e i predatori si trovano nelle zone desertiche mentre serpenti e relativi adepti tra le paludi. Ogni avversario ha inoltre le proprie caratteristiche con peculiarità crescenti in base al suo livello di importanza. I mostri comuni hanno il loro pattern, gli elité possiedono i consueti tratti caratteristici, mentre i boss hanno dei modi unici di attaccare: per batterli è necessario leggere i loro movimenti guardando le hit box che compaiono subito primo dell’attacco.
Endgame
Diablo 4 mi ha fornito diversi motivi per vagare nel mondo di gioco: il vero divertimento inizia una volta terminata la storia principale. Diablo è farming, gli hack and slash sono un genere in cui bisogna giocare ancora e ancora fino a trovare quell’oggetto che porta il personaggio a un altro livello, che in realtà è solo un nuovo punto di partenza per nuove build e nuovo grinding. Così, una volta terminata la campagna principale, il gioco ci sblocca la prima Spedizione Principale, un dungeon più lungo del solito che una volta completato ci permette di cambiare il Livello del Mondo.
Inizialmente si può scegliere tra due livelli, Avventuriero e Veterano: ho scelto il secondo e più difficile. Una volta completata la prima Spedizione Principale ho sbloccato il livello Incubo, che si consiglia di giocare dal livello 50, anche se è possibile affrontare la spedizione quando si vuole, esattamente come è possibile fare con i successivi: Inferno e Tormento.
Ogni Livello del Mondo ci mette contro sfide maggiori, ma anche ricompense maggiori. L’endgame è costituito sempre dalla solita struttura: uccidi, raccogli gli oggetti e potenzia il viandante. Ci sono diversi mondi per ripetere la sequenza: i dungeon, le quest secondarie e gli eventi a tempo.
I dungeon si dividono in Cantine, cioè mini-dungeon e i Dungeon veri e propri. Su quest’ultimi vale la pena soffermarci un attimo perché ho notato una rilevante sbavatura: il level design è eccessivamente banale. In praticamente tutte le mappe dei dungeon, ho visto lo stesso pattern: scegli se andare a nord (o sud) oppure a est (oppure ovest); a un certo punto le due strade si uniscono, e dando uno sguardo veloce alla mappa, si capisce subito da che parte proseguire senza essere costretti a percorrere zone “morte”.
Le quest secondarie sono invece uno dei principali motivi – se non il primo – per cui si parla di Diablo 4 come di un MMORPG alla stregua di World of Warcraft. L’ultima fatica di Blizzard è ricca di missioni secondarie volte a ripulire il male da Sanctuarium in perfetto stile “videogioco online”: liberare un’area da aberrazioni; raccogliere oggetti droppati dai mostri; scortare qualcuno; portare a termine un dungeon vicino a un villaggio e molto altro che ho già visto nel multiplayer online dedicato a Warcraft e non solo.
Nonostante il senso di déjà-vu, le quest secondarie di Diablo 4 si distinguono per la profondità con cui vengono presentate: anche ripulire una zona è raccontata come un’esigenza dei personaggi non giocanti. Una coerenza che ho apprezzato e che è in linea con lo stile della saga, come si evince dai Tetri Favori, quest perpetua che ci rende, di fatto, un cacciatore di taglie.
Completano infine il quadro gli eventi a tempo, attività simili a quelle già citate, ma concentrate ciclicamente in determinate zone della mappa per un determinato periodo temporale: Maree Infernali, Fortezze, Boss mondiali e tutto quello che serve per sentirsi parte di una comunità con cui ho potuto parzialmente interagire durante questa recensione di Diablo 4 grazie all’always online, che non mi ha mai fatto sentire solo (nonostante non abbia dedicato ancora abbastanza tempo alla modalità PvP), tranne quando volevo esserlo all’interno di un dungeon o una spedizione.
Il viandante
Sono cinque le classi attualmente disponibili su Diablo 4: Barbaro, Druido, Incantatrice, Negromante e Tagliagole. La mia scelta è ricaduta sul negromante, buildato come un tank grazie alle abilità di Sangue affiancato da un Golem a menare come un fabbro. Probabilmente la mia velocità di esecuzione è stata minore rispetto ad altre build, ma le volte in cui sono morto durante i primi 50 livelli si possono contare sulle dita di una mano.
Cambiare build è abbastanza veloce ed economico, ma è un po’ seccante dover rivalutare ogni singolo oggetto dell’inventario per farla rendere al meglio. Come tutti i Diablo, l’equipaggiamento fa la differenza a causa degli effetti speciali dei singoli oggetti sulle abilità di classe; di conseguenza, sopratutto durante l’endgame in cui i dettagli fanno la differenza, il videogiocatore è obbligato a riprogrammare la propria build in base ai loot che trova, soprattutto se questi sono core per quelle più in voga (anche perché spostare gli effetti da un oggetto all’altro è un crafting abbastanza costoso).
Le abilità invece possono essere gestite agevolmente dal relativo albero. Così come nel terzo capitolo, in Diablo 4 bisogna concentrarsi su quattro abilità specifiche. Lo skill tree funziona esattamente seguendo questo ragionamento: l’ideale è massimizzare le abilità attive che vogliamo usare e poi investire tutto sulle passive; infatti, dal livello 50 in poi, il viandante accede al Tabellone d’Eccellenza in cui può limare le caratteristiche del personaggio verso la build che preferisce, con una certa dose di pazienza ed eccesso di zelo.
In aggiunta a quanto detto fino ad ora, il gameplay di Diablo 4 si basa su una matematica minuziosa. Ogni statistica è stata valutata con estrema cura, anche se Blizzard dovrà dedicare ancora tanto tempo al bilanciamento delle classi, e probabilmente non riuscirà comunque nell’impresa data la natura degli hack’n’slash. In aggiunta, le nuove meccaniche e i nuovi parametri sono tutto fuorché banali: per esempio, il Colpo Fortunato non è un semplice critico, mentre Sopraffazione – meccanica basata sul subire pochi danni – permette di giocare diversamente rispetto ad altri videogiocatori che preferiscono buttarsi nella mischia.
Aggiornamento perpetuo
Diablo 4 può essere giocato in solitaria, ma rimane un live service. Non è solo una questione di always online, già presente in Diablo 3: ci sono tante feature che mi hanno continuamente ricordato che stavo visitando un mondo vivo. Girovagando per l’open world Blizzard in sella al mio cavallo, sono spesso finito dentro un evento a tempo nel quale partecipavano altri giocatori; quando ho deciso di evitarli, magari per dedicarmi a una quest secondaria, il mio viandante è finito col ritrovarsi in una zona martoriata da altri personaggi amici che mi hanno aiutato a portare a termine una missione che potevo tranquillamente completare da solo. E quando proprio volevo nascondermi finendo nei meandri di Sanctuarium, sono incappato in un Altare di Lilith che ha attivato un bonus +2 alle statistiche non solo del mio viandante, ma anche di tutti i personaggi che ho creato (live service per l’appunto).
Diablo 4 su Xbox Series X
Il lungo lavoro per portare Diablo 3 su console è servito. Diablo 4 sull’ammiraglia Xbox ha dei comandi pressoché ottimi. Ho giocato tutti i videogiochi della saga su PC e Diablo 4 non mi ha fatto sentire minimamente la mancanza di mouse e tastiera, nemmeno durante la navigazione dei menù, solitamente la parte più tediosa da gestire con un controller, anche se qualche lieve sbavutura nel muoversi all’interno dell’inventario è presente.
Per quanto concerne la parte tecnica, il comparto audio è da oscaral miglior sonoro: giocare Diablo 4 senza volume è altamente sconsigliato: musiche, doppiaggio e suoni ambientali sono assolutamente imprescindibili. L’immersione è totale.
D’altro canto, nonostante abbia molto apprezzato il lato artistico, la grafica di Diablo 4 su Xbox Series X non è ai livelli delle produzioni next-gen. Questo non mina assolutamente la bontà del gioco, ma le limitazioni che gli sviluppatori hanno dovuto imporre a causa del cross-gen si vedono largamente.
Conclusione
Sì, Diablo 4 ha una fortissima contaminazione da MMO, con diverse ispirazioni prese direttamente da World of Warcraft. La parte positiva è che queste caratteristiche si mescolano benissimo con l’intera saga, del resto Diablo 2 è stato uno dei videogiochi più giocati online nei primi anni duemila.
La scelta di rendere Diablo 4 un live service è azzeccata perché rende l’ultima fatica di Blizzard coerente con il suo passato e assolutamente al passo con i tempi. Nonostante le influenze esterne, Diablo 4 è il miglior hack and slash in circolazione mentre le Stagioni già annunciate ci diranno se sarà il migliore di tutti i tempi.
Un’ottima notizia per i fan di nicchia, un po’ meno per tutti gli altri: gli hack’n’slash sono videogiochi pensati per un numero esiguo di persone che hanno voglia e tempo per grindare. Diablo 4 è l’eccellenza del genere: artisticamente meraviglioso nella sua crudezza e violenza e tecnicamente al passo con l’Anno Domini 2023.
Dettagli e Modus Operandi
Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, PC, PS4, Xbox One
Data uscita: 06/06/2023
Prezzo: 79,99 €
Ho provato il gioco a partire dal day one su Xbox Series X grazie a un codice fornito dal publisher.
Planet of Lana, la prima produzione dello studio Wishfully, aveva già attratto a sé molti occhi all’Xbox ShowCase del 2021. Si parla di una produzione dalle dimensioni visibilmente più contenute e che pone grande enfasi su un comparto artistico di richiamo pittorico particolarmente brillante e su una narrazione silenziosa di pregio.
Il titolo arriva sui nostri schermi nelle vesti di unpuzzle-adventure di chiara ispirazione “Uediana”, ma che impara con intelligenza le lezioni impartite dai più recenti titoli Playdead come Limbo, pescando a piene mani anche dalle suggestioni di Journey.
Il timore di un’opera eccessivamente derivativa va però dissipato rapidamente: Planet of Lana è un gioco con una personalità propria capace sì di imparare dai migliori, ma comunque in grado di mantenere una propria distinta personalità.
La narrazione
La prima opera firmata Wishfully esplora diverse suggestioni narrative: l’abbandono e la perdita, il genuino affetto tra due ragazzini, l’amore spontaneo che può scaturire tra uomo e bestia.
Già dal trailer infatti, abbiamo fatto conoscenza di Mui, adorabile bestiolina che ci terrà compagnia per quasi tutta la durata dell’avventura, capace di arrampicarsi laddove a noi l’accesso sarà precluso, e soluzione essenziale a molti enigmi disseminati per il percorso di gioco.
Se è vero però che il rapporto fra i due coprotagonisti appare tenero e sincero, l’amicizia scaturita dalla necessità dei due sembra cementarsi un pizzico troppo rapidamente. Manca (forse più per ragioni tecniche e di budget che per scelte di design) quella lenta ma percepibile sedimentazione del rapporto fra Trico ed “il ragazzo” in The Last Guardian, evidente fonte d’ispirazione per Planet of Lana.
Nelle prime battute il gioco ci proietta in un piccolo villaggio di pescatori, un pianeta riconducibile al nostro come ambienti, ma con fauna e panorami “stellari” ampiamente alterati, memori più della fantasia di Cameron espressa in Avatar, che dalla realtà osservabile sul nostro pianeta.
La quiete del villaggio di Lana, coprotagonista del gioco e alter-ego del videogiocatore, non è purtroppo destinata a perdurare, interrotta da delle misteriose macchine che invadono il villaggio e ne rapiscono gli abitanti. Tra questi, Ilo, il fratello di Lana. La nostra eroina riesce miracolosamente a fuggire ripromettendosi di salvare il fratello, inconsapevole di essere destinata a svelare misteri ben più grandi di lei. Nel tragitto, farà conoscenza con Mui, la già citata amabile creaturina.
Raccontare senza parole
L’ultima fatica Wishfully non comunica mai direttamente le informazioni sopra descritte. Il titolo è infatti sprovvisto di dialoghi esplicativi (o quantomeno quelle poche battute che hanno i personaggi sono comunicate in una lingua di fantasia, incomprensibile all’utente) e mancano persino i tanto abusati frammenti di testo sparsi per la mappa che spiegano per filo e per segno storia e retroscena di varia natura.
L’opera infatti si serve della mera comunicazione per ambienti, e talvolta per immagini, quasi icone religiose (rubate con furbizia a lavori ben più celebri come Journey di Thatgamecompany), volte non tanto a dare una spiegazione precisa degli eventi, ma più a suggerire al giocatore più attento possibili significati e valori di ciò che accade a schermo.
Planet of Lana certamente non è il primo titolo che racconta una vicenda senza l’ausilio di dialoghi o di testi scritti. Ciònondimeno non è semplice narrare una storia (per quanto semplice voglia essere quella del gioco in questione) “silenziosamente” senza per questo risultare inutilmente criptici e misteriosi.
Al contrario, l’avventura della nostra eroina rischia di finire sul versante opposto: il racconto rischia di risultare prevedibile per i videogiocatori più navigati, rimanendo però una valida esperienza per i più giovani o i meno avvezzi al genere. Non temete però, per quanto semplice, le animazioni, la colonna sonora ed il gusto estetico sopperiranno a una storia semplice conferendole il giusto peso emotivo e l’attiva partecipazione del giocatore.
Il gioco
Il team di Wishfully decide consapevolmente di non voler rivoluzionare il mondo dei puzzle games, limitandosi ad imitare i migliori del genere. Ciò è chiaramente un bene dal punto di vista pratico, visto quanto facile sia sopravvalutare le capacità del proprio Team (sopratutto se agli albori com’è il caso di wishfully), d’altro canto però così facendo i puzzles risultano troppo spesso banali e dalla risoluzione immediatamente comprensibile per tutti i videogiocatori avvezzi al genere.
Il titolo infatti si presenta come adatto ai più giovani ed ai meno avvezzi al mondo dei videogames, complice anche la breve durata complessiva dell’esperienza che si aggira attorno alle 4 ore e il fatto che il titolo sia disponibile nel servizio in abbonamento di Microsoft. I neofiti apprezzeranno senza dubbio lo stile grafico, la dolcezza della narrazione e la semplicità dei comandi.
Controllare due personaggi alla volta può apparire complesso sulla carta, tuttavia le azioni che potremo far compiere ai nostri protagonisti sono veramente ridotte, alla luce di quello che è presumibilmente un design di tipo sottrattivo.
Lana, infatti, può soltanto saltare ed abbassarsi, oltre a comandare a Milo, chiedendogli di aspettarla o di seguirla e, all’occorrenza, di posizionarsi in un punto determinato a non grande distanza dal nostro alter-ego.
A questo proposito, il sistema di movimento di Lana è stranamente meccanico e datato, costringendo a movimenti lenti e fuori dal tempo: per saltare a destra mentre siamo rivolti a sinistra, infatti dovremo prima far voltare il nostro personaggio e solo allora premere il comando di salto.
Una svista che sicuramente non influenzerà complessivamente il valore dell’esperienza ma che emerge prepotente in un oceano di cura e amore verso tutti gli altri comparti che fanno emergere in negativo un sistema di controllo a tratti alienante.
Come si presenta
Basta un solo sguardo per apprezzare la cura e la dedizione impiegata dal team per costruire gli ambienti di Planet of Lana. Il colpo d’occhio è immediato e lo stile usato rende il gioco riconoscibile da un solo screenshot.
Il timore che la palette cromatica potesse risultare ridondante e poco varia viene in realtà fugato presto, sia perché le macchine e le creature sono realizzate utilizzando dei toni di nero molto peculiari, che spezzano bene con gli ambienti molto colorati, sia perché il gioco fa capolino in ambienti dissimili l’un con l’altro: spaziando da deserti a paludi; da foreste ad accampamenti abbandonati.
Se è innegabile che questi ambienti donino necessaria freschezza al titolo, evitando un precoce affaticamento cromatico, questi risultano essere poco connessi l’un l’altro, dando la spiacevole sensazione di trovarsi in dei veri e propri livelli a tenuta stagna, piuttosto che di star facendo un esperienza di viaggio continua e indissolubile.
Il comparto sonoro è più che apprezzabile con un sound design avvolgente e rilassante, utile a immedesimarsi nell’azione.
È però nella colonna sonora, composta da Takeshi Furukawa (già celebre per aver curato le musiche di The Last Guardian), che l’avventura di Wishfully brilla maggiormente dal punto di vista sonoro: composizioni potenti e posizionate sapientemente sono in grado di far emozionare anche il più duro degli orecchi.
Conclusione
Planet of Lana è un gioco che si lascia ispirare dai migliori, senza la presunzione di voler rivoluzionare il genere. Quello che spicca nella produzione Wishfully è senz’altro il comparto artistico, curato, riconoscibile e che non può lasciare indifferenti, sia dal lato visivo che sonoro. Si tratta in definitiva di un’esperienza memorabile e adatta a tutti, senza però raggiungere le vette delle produzioni a cui si ispira.
Dettagli e Modus Operandi
Piattaforme: Xbox Series S|X, PC, Xbox One
Data uscita: 23/05/2023
Prezzo: 19,99 €
Ho provato il gioco a partire dal day one su PC grazie all’Xbox Game Pass
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