Il primo showcase del 2024 di PlayStation si svolge in un momento cruciale per l’azienda. Con il recente cambio di management e le sfide che Sony affronta nel campo delle esclusive e della comunicazione, l’attenzione dei fan è al massimo.
Il precedente annuncio di concentrarsi su 12 live-service (adesso 11 dopo l’ufficiale abbandono del titolo online ambientato nell’universo di “The last of us”) aveva suscitato preoccupazioni tra gli appassionati dei single-player 1st party.
Sony riassicura con uno state of play che mostra quello che c’è da aspettarsi nel futuro di Playstation, mostrando anche la prossima esclusiva in arrivo, seppur 2nd party: Rise of the Ronin, oltre a diverse altre sorprese, tra cui un Silent Hill gratuito per tutti i possessori di PS5
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Ad aprire le danze, Stellar Blade il nuovo gioco di Shift Up si mostra estensivamente per quanto riguarda trama, gameplay e ambientazione. In arrivo il 26 Aprile di quest’anno.
Subito a seguire, Sonic Shadow Generation, un’iconica remastered dell’iconico titolo del 2011 è in arrivo quest’autunno.
Zenless Zone Zero è il nuovo gioco della miHoYo, la celebre casa di sviluppo madre di titoli di successo come Genshin Impact.
Foamstars è un nuovo titolo Online-only 4v4 sviluppato da Toylogic. In arrivo incluso con l’abbonamento Sony il 6 Febbraio su Playstation 4 e 5.
Arriva quest’aprile l’acclamato Dave The Diver anche su Playstation: Annunciata anche una nuova espansione con Godzilla a Maggio.
Arriva anche V Rising, che esce dalla fase alpha per approdare su console Sony in un generico 2024.
La redenzione di Konami sembra partire col piede giusto, che annuncia che già da oggi è disponibile un nuovoPlayable Teaser. Si tratta di Silent Hill The Short Message, fortemente ispirato alla breve esperienza di Kojima su Silent Hill rilasciata la scorsa generazione, ma che promette non pochi batticuore. Disponibile già da adesso completamente gratuitamente per tutti i possessori di Playstation 5.
Ma le sorprese non finiscono qui, è stato mostrato il trailer del Remake di Silent Hill 2.
È stato poi il turno di Judas, il nuovo gioco di Ken Levine, creatore della celeberrima serie di Bioshock, in sviluppo presso gli studi Ghost Story Games. Ancora non abbiamo avuta alcuna finestra di lancio.
È finalmente giunto il momento di due giochi in uscita per Playstation VR2. Si tratta di Metro Awakening VR, in arrivo in un generico 2024 e Legendary tales, in arrivo l’8 Febbraio. Si tratta di due promettenti titolo che colmano il vuoto lasciato da ormai troppo tempo degli acquirenti dell’hardware Sony dedicato alla realtà virtuale.
È stato mostrato anche Dragon’s Dogma 2, che sembra essere davvero molto interessante per gli appassionati del genere. Si tratta di un action RPG, che promette ampia caratterizzazione dello stile di gioco e profondità di gameplay. In arrivo il 22 marzo.
Il 22 Marzo si promette una data di scontri, in quanto è previsto anche Rise Of The Ronin, la prossima esclusiva Playstation 5 in sviluppo presso Team Ninja, Sviluppatori dell’acclamato Nioh. Il gameplay ha posto evidenza sulla libertà di movimento e un sistema di combattimento accattivante.
Annunciata inoltre una versione “enhanced” di Until Dawn, in arrivo quest’anno su PC e PS5
A chiudere arriva Kojima, che mostra Death Stranding 2 On the beach in modo estensivo, mostrando i muscoli del Decima Engine. Il nuovo titolo del creatore di metal gear solid sembra riprendere diversi anni dopo quanto abbiamo avuto modo di giocare nel primo capitolo, aggiungendo nuovi e inaspettati personaggi. In arrivo nel 2025
Kojima ha inoltre annunciato di essere al lavoro su una nuova IP in collaborazione con Sony. Non è stato possibile vedere nulla, ma è stato dichiarato che si tratta di un nuovo titolo stealth di spionaggio, e l’autore stesso ha dichiarato voler essere il coronamento di una carriera (“the culmination of my work”).
Atmosfera onirica, movimenti estremamente rallentati e dilatati, il pianto straziante di un neonato, una sensazione di disagio e terrore che cresce ogni istante. Due uomini incappucciati assalgono all’improvviso il padrone di casa che, chiamando disperato il nome della moglie, li fredda a colpi di pistola. La porta della camera da letto che si apre, la tragedia. Brividi. Questo che vi ho appena descritto è l’inizio di Max Payne, capolavoro sviluppato da Remedy Entertaiment e pubblicato da Gathering of Developers il 23 luglio 2001 per PC. Fecero seguito Max Payne 2: The Fall of Max Payne pubblicato nel 2003 e il terzo e ultimo capitolo della saga: Max Payne 3 uscito nel 2012.
Se c’è una trilogia di videogiochi che deve essere giocata, è assolutamente quella di Max Payne. Fin da subito, ben 23 anni fa, sono stato rapito dalla sua narrazione intensa, avvolgente come un buon romanzo noir e ho vissuto le gesta di Max in un viaggio intriso di azione e dramma. L’innovazione del “bullet time”, di cui parleremo diffusamente in seguito, ha trasformato le sparatorie in vera e propria arte, regalando un senso di controllo del tempo unico. I personaggi, da Max stesso a Mona Sax, sono sfaccettati e indimenticabili e le loro storie si intrecciano in modo avvincente.
La trama, densa di misteri e colpi di scena, è un’epopea noir che mi ha lasciato col fiato sospeso. L’ambientazione cupa di New York, la colonna sonora mozzafiato e le sfide di gameplay innovativo sono solo alcune delle ragioni per cui consiglio caldamente di immergersi in questo mondo. La trilogia di Max Payne non è solo un gioco è un’esperienza emotiva e cinematografica che ha ridefinito il mio concetto di narrazione nei videogiochi. Se amate l’azione avvincente, i personaggi memorabili e le storie coinvolgenti, Max Payne è un viaggio che non potete permettervi di perdere.
L’Avventura di Max Payne
Max Payne, antieroe dai contorni più che oscuri, è un uomo di contraddizioni e tragedie, con un passato che si annida tra le ombre. Inizia come un tranquillo e ironico detective della NYPD nonché un padre di famiglia con una vita serena. Ma il destino ha in serbo dolori insondabili per lui. La morte di sua moglie e della figlia, vittime di un tragico evento legato al traffico di droga, getta la sua esistenza nell’abisso dell’oscurità.
La sua ricerca di giustizia si trasforma in una vendetta personale, che lo porta attraverso il cupo scenario di New York, in un turbine di ingiustizie e cospirazioni. Max si ritrova invischiato in una rete di crimine organizzato, intrighi politici e doppi giochi, tutto mentre la sua anima si consuma nella disperazione.
La prima parte della trilogia è una discesa agli inferi, dove Max è accusato ingiustamente dell’omicidio di suo amico e collega Alex Balder. Fuggendo dalla legge, scava sempre più a fondo nella corruzione della città per smascherare la verità.
La seconda parte, vede Max ancora tormentato dai fantasmi del passato. Il suo incontro con Mona Sax, un’assassina dal passato oscuro, aggiunge nuovi strati di complessità emotiva. La trama si intreccia in una danza mortale tra doppi giochi e tradimenti, mentre il nostro alter ego virtuale naviga tra le pericolose acque del caos.
Infine, nella terza e ultima parte, Max “assaggia” la violenza mafiosa in Brasile dove affronta nuovi nemici e nuove sfide. Il filo rosso della sua storia si lega al cerchio, rivelando connessioni inaspettate e un epilogo carico di emozioni. Max Payne, il detective avvincente, passa attraverso il fuoco della sofferenza e si trasforma in un’icona indelebile dei videogiochi, portando con sé una storia epica e un viaggio interiore impossibili di dimenticare.
Personaggi, anzi, Icone
I personaggi di Max Payne sono un gruppo affascinante di individui con storie e personalità uniche che hanno reso la trilogia indimenticabile. Max, il nostro eroe con una faccia da duro ma un cuore a pezzi, naviga attraverso il dolore con una passione per il dramma noir che non smette mai di intrigare. La sua voce narrante, intrisa di cinismo e disillusione, è la colonna sonora emotiva di tutto l’epico.
Mona Sax, la femme fatale con un tocco di mistero, è come una rosa tra le spine. La sua connessione complicata con Max è un intreccio di emozioni contrastanti, e il modo in cui i loro destini si intrecciano è tanto affascinante quanto complicato. Il capitano Vladmir Lem è il classico villain russo, ma la sua compostezza e sarcasmo hanno aggiunto un tocco di umorismo nero alla trama.
Il “don” di New York, il vecchio e saggio Alfred Woden, è un personaggio che trasuda autorità e mistero, con le sue decisioni oscure e le motivazioni enigmatiche. E poi c’è il folle ma geniale Vlad, il re degli ambienti distorti e surreali. Ogni personaggio, anche quelli minori, ha contribuito a dipingere un quadro complesso e coinvolgente che ha reso la trilogia di Max Payne una saga indimenticabile, popolata da individui che ti seguono anche quando spegni la console.
Il “Bullet Time”
Il mondo rallenta e la percezione si amplia in un’esperienza unica che solo Max Payne può regalare. Il “bullet time” nella trilogia è più di una semplice meccanica di gioco; è un balletto coreografato di proiettili, una danza letale in cui il tempo scorre al tuo comando. Ricordo la prima volta che ho attivato il bullet time: tutto sembrava congelarsi mentre le traiettorie delle munizioni appena esplose da fucili e pistole si intrecciavano in aria.
Immerso in una sparatoria mozzafiato, il mondo si trasformava in una tavolozza di azione e adrenalina. Ogni sparo diventava un’opportunità strategica e l’agilità nel gestire il tempo diventava la chiave per sfuggire alle situazioni più estreme. L’effetto visivo di proiettili che fendevano l’aria a velocità ridotta, mentre Max si muoveva con grazia attraverso il caos, fu un’esperienza viscerale.
Il “bullet time” non era solo uno strumento tattico, ma un’espressione artistica della potenza del videogioco. Saltare da dietro una copertura, rallentare il tempo e vedere i nemici sorpresi mentre le mie pallottole li freddavano con precisione millimetrica era un piacere insuperabile. La sensazione di controllo totale sullo scorrere del tempo, mentre le mie decisioni determinavano l’esito degli scontri, era pura elettricità ludica.
Il “bullet time” nella trilogia di Max Payne ha ridefinito il concetto di azione frenetica nei videogiochi, creando un’esperienza che ha lasciato un’impronta indelebile sulla mia memoria di giocatore. Quei momenti di lentezza, con il cuore che batteva all’unisono con la colonna sonora avvincente, sono frammenti di pura magia videoludica che rimarranno con me per sempre.
Colonna sonora da urlo
La musica è spesso sottovalutata, ma nella trilogia di Max Payne, la colonna sonora è stata una parte fondamentale dell’esperienza. Le melodie epiche hanno amplificato le emozioni e reso ogni momento ancora più memorabile. Ritmi cadenzati, coinvolgenti, violenti la fanno da padroni. Posso dirlo: Max Payne va anche ascoltato oltre che giocato.
Conclusione
La trilogia di Max Payne ha conquistato il cuore dei giocatori grazie a una combinazione perfetta di narrativa coinvolgente, personaggi indimenticabili, innovazione nel gameplay e una colonna sonora da brivido. Questi giochi hanno segnato un’epoca e continueranno a essere citati come pietre miliari nella storia dei videogiochi. E voi, quali ricordi avete di Max Payne? Fatecelo sapere nei commenti e continuate a giocare!
Sembra proprio che gli appassionati di tennis, categoria spesso bistrattata a favore dei fan del calcio, del basket persino del football e dell’hockey, potranno avere, in questo 2024 il loro titolo tripla A. Parliamo di Top Spin, serie famosa di 2K Games, il cui ultimo capitolo risale al 2011 con Top Spin 4 per Xbox 360, PS3 e Wii. Peraltro proprio questo capitolo è considerato, da molti, il miglior videogioco di simulazione tennistica mai realizzato. Fino ad ora, si spera.
Sviluppato da Hangar 13, Top Spin 2K25 dovrebbe uscire entro l’anno, su quali piattaforme è ancora da svelare, ma crediamo che come minimo arriverà su Xbox Serie X/S, PS5 e PC.
Dal trailer il gioco sembra essere graficamente ultra-realistico con campi e spalti in vero 3D, spettatori compresi. Sarà abbastanza ovvio che ci saranno numerose licenze ufficiali sia di sportivi noti che di campi e tornei.
Al momento niente si sa di più, il trailer proposto mira a far rendere conto solo dell’altissima qualità visiva raggiunta.
Nei primi mesi del 2024 vedrà la luce anche Final Fantasy VII Rebirth, secondo capitolo della tanto chiacchierata trilogia remake del leggendario Final Fantasy 7 (per una retrospettiva di questo capolavoro vi rimando a questo articolo). Ma cosa ha a che fare Ehrgeiz, il gioco di cui tratta questo primo articolo della rubrica Videogiochi Dimenticati, con il remake di Final Fantasy VII? Ebbene, mi credereste se vi dicessi che Cloud, Tifa, Sephiroth e molti altri protagonisti di Final Fantasy VII sono presenti anche in questo gioco?
Dopo aver stuzzicato la vostra curiosità, siamo pronti a traghettarvi alla scoperta di Ehrgeiz, uno dei videogiochi più strani dimenticati della sconfinata libreria della prima Playstation. Pronti a salire sul ring per scambiare qualche pugno con Cloud e soci?
Un picchiaduro in vero 3D
Uscito nel marzo del 1998, prima in versione arcade e in seguito sulla prima Playstation, Ehrgeiz: God Bless the Ring fu il frutto della collaborazione tra Dreamfactory e Namco. Quest’ultima, insieme a Squaresoft, si occupò nello specifico della distribuzione del gioco.
In apparenza, Ehrgeiz poteva sembrare un semplice picchiaduro 3D, genere che a fine anni 90 era decisamente saturo. Tuttavia, appena iniziato a giocare, le particolarità del gioco diventavano subito evidenti. A differenza di giochi come Tekken o Soul Edge, in Ehrgeiz i combattenti non erano confinati su un classico piano bidimensionale, ma potevano spostarsi liberamente in ogni direzione all’interno dei vari stage.
Questa caratteristica conferiva al gameplay una grande originalità ed era una vera e propria ventata di aria fresca in un genere sovraffollato come quello dei picchiaduro 3D. Finalmente era possibile sperimentare nuove meccaniche di gioco e strategie, che si basavano più sul corretto posizionamento e sulla capacità di sfruttare gli stages che nell’abilità nell’utilizzo delle combo.
Oltre al suo gameplay originale, uno dei grandi punti di forza di Ehrgeiz era costituito proprio dagli stage. Gli scenari di Ehrgeiz erano davvero ampi, ben realizzati e con numerose zone interattive. Molti dei livelli possedevano persino diversi piani rialzati, che potevano essere sfruttati per devastanti attacchi in picchiata.
Curiosamente, negli scontri in versus erano presenti solo versioni ridotte delle arene, che riducevano di molto la strategia degli scontri a favore dei classici scambi ravvicinati tipici dei picchiaduro. Una scelta davvero strana.
Naturalmente, non è tutto oro quel che luccica. Ehrgeiz infatti pagava la sua originalità con un set di attacchi davvero risicato. Le combo dei vari personaggi erano molto basilari, dal momento che ogni lottatore disponeva solo di un attacco alto, uno basso (che potevano essere concatenati) e di un pulsante per gli attacchi speciali. Questi ultimi andavano a consumare un’apposita barra, che si svuotava ancor più velocemente qualora il personaggio disponesse di un’arma; in quest’ultimo caso, infatti, la pressione del tasto special avrebbe portato all’estrazione dell’arma, il cui utilizzo avrebbe gradualmente consumato il suddetto indicatore.
Ehrgeiz proponeva anche una serie di attacchi in corsa, parate e contromosse. Tutto però dava l’idea di un qualcosa di poco preciso, superficiale e spesso e volentieri a farla da padrone negli scontri era il buon vecchio button mashing (ovvero pigiare tasti alla rinfusa sperando in qualcosa di buono).
Uno strano roster
Il roster di Ehrgeiz appariva fin da subito decisamente stereotipato. Tra wrestler, ninja, ragazzine armate di yo-yo e cloni di Kazuya, quasi nessuno dei protagonisti riusciva davvero a svettare per carisma e originalità.
Ad eccezione, naturalmente, dei progatonisti di Final Fantasy VII. Ehrgeiz ospita infatti Cloud, Tifa e Sephirot, tre dei personaggi principali del gioco. In seguito era possibile sbloccare Yuffie, Vincent e persino Zack. Quest’ultimo in Final Fantasy VII non era nemmeno un personaggio giocabile. Tuttavia ogni fan conosce bene l’importanza di Zack nell’economia della trama.
Un esperimento particolare
Come ulteriore elemento di originalità, la versione Playstation di Ehrgeiz proponeva anche la modalità Quest. Si trattava di una sorta di GDR in tempo reale. Alla guida di due aercheologi avventurieri, Clair e Koji (entrambi giocabili anche in modalità picchiaduro) il giocatore avrebbe dovuto farsi strada attraverso intricati dungeon e combattendo orde di mostri e boss.
Nella modalità Quest era ovviamente possibile salire di livello e potenziare il proprio equipaggiamento, per meglio adattarsi alle nuove sfide. Sebbene l’idea fosse interessante, il quest mode non raccolse particolari consensi a causa della ripetitività del gameplay e dell’eccessiva difficoltà delle battaglie.
In generale, il gioco ebbe un accoglienza mista. Se i fan giapponesi apprezzarono lo strano esperimento, anche grazie alla presenza degli outsiders di Final Fantasy, in occidente l’accoglienza fu molto più tiepida, anche a causa del ritardo con cui il gioco giunse nel vecchio continente, quasi due anni dopo l’uscita giapponese.
L’eredità di Ehrgeiz
Cosa rimane dunque di Ehrgeiz al giorno d’oggi? Non si può certamente dire che il gioco sia invecchiato particolarmente bene o che abbia lasciato un ricordo indelebile nelle menti dei videogiocatori.
Tuttavia siamo sicuri che tutti gli amanti dei picchiaduro che ai tempi hanno provato questo titolo lo ricordino ancora oggi. Ehrgeiz ebbe infatti l’indubbio merito di provare qualcosa di diverso, di staccarsi dai consolidati binari del picchiaduro 3D per proporre un’esperienza più originale.
E poi, diciamocelo, a quale fan di Final Fantasy non stuzzica l’idea di vedere Cloud e Sephiroth prendersi a pugni e calci in faccia anziché affrontarsi come al solito a colpi di spada e magie?
Nell’ultimo decennio, creare un videogioco – in termini puramente tecnici – è relativamente più facile rispetto al passato. Il lato positivo di questa opportunità è vedere opere indipendenti che colmano le lacune lasciate dai grandi del settore, troppo spesso occupati a seguire il trend del momento piuttosto che l’arte. D’altro canto, c’è una bulimia di opere che rischia di saturare di noia un’industria che diventa ogni giorno più piatta.
In questo scenario c’è poi Fumito Ueda, che è riuscito a imporsi nell’industria videoludica grazie a solo tre videogiochi in vent’anni di carriera (più Enemy Zero in cui ha lavorato come animator). Tra queste c’è ICO: un’opera fondamentale per la carriera di Ueda, un videogioco che ho amato e che oggi voglio raccontarvi.
Chi è Fumito Ueda
Classe 1970, Ueda è noto al grande pubblico per lavori che si distinguono particolarmente per atmosfera, costruzione visiva e narrazione emotiva.
La sua carriera prende una svolta positiva nel 1997, quando inizia la sua vventura il Sony con ICO, arrivato poi su PlayStation 2 nel 2001, ma la consacrazione arriva il suo secondo titolo del 2005, sempre per PS2: Shadow of the Colossus (di cui abbiamo già parlato in un altro articolo).
Infine, dopo una lunga pausa ritorna nel 2016 per un’esclusiva Playstation 4: The Last Guardian. Anche questo gioco, così come già avvenuto tra Wander e il suo cavallo in Shadow of the Colossus, esplora i legami emotivi tra il protagonista e una creatura di nome Trico, con la quale dovremo affrontare le sfide del mondo immaginario creato da Ueda.
Primi passi in ICO
Rilasciato su PlayStation 2 nel 2001, ICO parla di sentimenti, diversità, legami, coraggio, paura. Il protagonista, Ico per l’appunto, è un ragazzino con delle corna bianche, che ben presto viene trasportato via dalle guardie del suo paese per essere rinchiuso in sarcofago all’interno di un castello. Il motivo? Le corna indicherebbero presagio di grandi sventure per il villaggio.
Dopo esserci liberati dal sarcofago, cominciamo a vagare nel castello e troviamo imprigionata una ragazzina di nome Yorda. Una volta liberata, scopriamo di non poterla comprendere, poiché lei dialoga in una lingua sconosciuta; così cominceremo ad esplorare il castello insieme a Yorda, affrontando enigmi e creature oscure.
Le creature oscure che affronteremo avranno come primo obiettivo far del male a Yorda; questo ci fa intuire sin da subito un probabile legame tra la ragazzina, il male oscuro e probabilmente il castello stesso di cui Yorda può aprire determinate porte grazie all’uso di misteriosi poteri magici, che diventano maggiormente ignoti se pensiamo che la comunicazione tra Ico e la Yorda avviene tramite gesti, segnali, versi.
Le creature oscure che affronteremo.
Gameplay e narrazione
Ciò che contraddistingue il gameplay della prima opera di Fumito Ueda è che per gran parte del tempo dovremo – con la pressione di un tasto – tenere per mano Yorda, così da proteggerla dalle creature e allo stesso tempo farci aiutare nella risoluzione di enigmi ambientali. Questa scelta aumenta il coinvolgimento emotivo e il rapporto con Yorda, di cui ci sentiamo responsabili.
Ico ha le corna bianche, mentre Yorda una carnagione molto pallida. Queste differenze fisiche tra Ico e Yorda impattano su diversi aspetti dell’opera, a simboleggiare l’unicità degli individui. Per esempio: le hitbox dei due protagonisti sono diverse e la storia integra perfettamente queste particolarità, sottolineando nuovamente le tematiche di diversità e anche di collaborazione tra i due ragazzini.
ICO ha una narrazione minimalista: è privo di interfaccia e inventario. Come in opere più recenti come Limbo e Inside, l’opera di Fumito Ueda non ha un tutorial. Sarà il videogiocatore a scoprire man mano tutta la storia, senza che (quasi) nulla venga detto o scritto.
Immagine simbolica ed importante
Esplorazione ed atmosfera
ICO è un videogioco in terza persona con una visuale panoramica che segue più o meno a distanza le gesta dei protagonisti. La scelta è azzeccata perché dà l’idea di una regia ben precisa ed è molto adatta all’ambientazione, ovvero un grande castello con stanze enormi e ampi spazi esterni.
Come un dipinto in movimento, per estetica e gestione della telecamera, il gioco ci tiene per mano alternando momenti di contemplazione a situazioni con enigmi sempre più ardui. La comparsa sempre più copiosa delle creature oscure diviene opprimente, rendendo la voglia di fuggire dal castello sempre maggiore.A un certo punto, respireremo una solitudine che ha il sapore dell’abbandono che ci accompagnerà fino alla fine del titolo.
Le sezioni all’aperto sono caratterizzate da pont e cortili, ma anche negli ambienti esterni si respira forte la solitudine che può essere ammorbidita solamente un po’ dal legame che si crea fra i due ragazzini e la comparsa delle creature, indesiderate, che creano paura e fanno sorgere sempre più domande al giocatore.
I puzzle ambientali, in alcuni casi di risoluzione non intuitiva, richiedono l’ingegno del giocatore per essere superati. Spesso richiederanno una combinazione di più elementi, tra esplorazione, manipolazione di oggetti e soprattutto l’aiuto di Yorda, con o senza poteri magici.
Perché ho amato Ico
Già dall’introduzione ICO mi coinvolgeva in un’atmosfera fiabesca, sognante. Quando poi dopo le primissime fasi di gioco mi sono reso conto che per la prima volta non dovevo solamente proteggere un secondo personaggio che seguiva in automatico i miei passi, ma dovevo letteralmente dargli la mano, il senso di empatia faceva crescere in me un forte legame con Yorda ad ogni passo e situazione che si superava assieme.
In ICO, il senso di responsabilità è un peso di gran lunga maggiore rispetto ad altri videogiochi. Non si pensa solo alla vita del proprio personaggio, ma ancor di più alla vita dell’altro, di Yorda, così da fondere preoccupazioni, attenzione e senso di fragilità in una miscela che rende ogni passo emozionante e particolarmente attento alle circostanze. Tenere (quasi) sempre la mano di Yorda unita alla nostra, vuol dire crescere con lei in un viaggio condiviso, farle capire che assieme, attraversando mille ostacoli, fatti di creature oscure e non, si può uscirne, feriti dentro e fuori, ma sopravvivendo.
Questi due ragazzini, che si sono trovati imprigionati nel medesimo luogo, ma con due storie personali diverse, si incontrano su di un binario comune della loro esistenza e lo percorrono assieme. Nel corso dell’avventura, il legame tra i due si cementerà e avremo modo di capire meglio l’origine e il destino di Yorda. Allo stesso tempo, si formerà anche il percorso di Ico, in una trama che fa crescere entrambi i protagonisti e noi stessi, che abbiamo tenuto strette le loro mani per tutto il tempo.
Attimi di silenzio, schermo nero, voce narrante del protagonista: “Parigi in autunno, gli ultimi mesi dell’anno e la fine del millennio. In questa città ho molti ricordi: bar, musica, amore… e morte”. Così inizia Broken Sword, avventura grafica punta e clicca targata Revolution Software, pubblicata nel 1996, con protagonisti George Stobbart e Nicole Collard. Quegli attimi di silenzio che precedono quel breve ma intenso monologo, sembrano rappresentare gli occhi che si chiudono prima di addormentarsi e di iniziare un sogno, poiché cari lettori, Broken Sword èun’avventura indimenticabile, che continua a scorrere nelle vene anche decenni dopo.
Incipit
George Stobbart è un turista americano in visita a Parigi, e mentre è seduto al tavolino all’esterno di un bistrot intento a flirtare con la cameriera, resta coinvolto in un’esplosione che lo priva dei sensi. Prima che ciò accadesse aveva visto un clown entrare nel locale e poco dopo scappare via, capendo così, successivamente, che il pagliaccio sarebbe diventato l’indiziato numero uno.
Al nostro risveglio, nei panni di George, cominciamo a guardarci intorno, ed entrando nel bistrot scopriamo un cadavere al suo interno. Troviamo poi la cameriera sana e salva, un po’ stordita, e successivamente facciamo la conoscenza della polizia che ci interroga con le solite domande di rito, invitandoci poi ad andare alla stazione di polizia nel caso dovessimo ricordarci qualcosa.
L’inizio del gioco, dopo l’esplosione al bistrot.
Tornando in strada, oltre a vedere il bistrot disastrato, notiamo un’affascinante ragazza con una macchina fotografica e facciamo così la conoscenza di Nicole Collard, una fotoreporter a caccia dello scoop della vita, in grado di farla svoltare a livello professionale.
La chiacchierata con Nico è illuminante, poiché ci informa del fatto che avrebbe dovuto incontrare, in quei minuti lì al bistrot, un uomo chiamato Plantard (che distrattamente avevamo visto entrare nel bistrot, prima dell’esplosione), che le aveva accennato di avere informazioni su una serie di omicidi avvenuti in quel periodo, commessi molto probabilmente da una persona con diversi costumi.
Restiamo così coinvolti in una storia più grande di noi, ma ciò non farà desistere il nostro George Stobbart, con la collaborazione di Nicole Collard, ad indagare per voler scoprire di più sugli omicidi e sul misterioso assassino.
Trama di Broken Sword 1
La trama di Broken Sword è fin dal primo istante molto coinvolgente. Il modo in cui essa ci viene introdotta, narrata, fa sì che ci troviamo subito al centro di un qualcosa di avvincente. Partendo dalla serie di omicidi, indagando assieme a Nicole e parallelamente alla polizia, prenderemo una strada che ci porterà ai Cavalieri Templari, l’ordine monastico cavalleresco creato nel 1118 dall’aristocratico Hugo di Payns.
Questo rappresenta uno dei motivi che maggiormente coinvolge il videogiocatore, difatti in una fase di gioco – nell’appartamento di Nico – abbiamo modo di conoscere per bene la storia dei Templari, con tanto di scene di intermezzo che ci spiegano storicamente le vicende dei Cavalieri. Mi ricordo bene quanto rimasi affascinato da tutto ciò, anche perché personalmente non li conoscevo.
Ciò che balzava agli occhi, soprattutto in quegli anni, erano le location meravigliosamente disegnate, dettagliate, con colori nitidi e una definizione più alta rispetto ad altri giochi simili. La splendida localizzazione in italiano, la caratterizzazione di ogni personaggio, anche secondario, con enigmi sempre ben bilanciati ed un’ottima curva di apprendimento, contribuirono a rendere il gioco una perla nel panorama videoludico.
Da Parigi all’Irlanda, per poi passare in Spagna, ogni posto è realizzato in maniera credibile e con dovizia di particolari. Girare per l’Europa, fermarsi un attimo ad ammirarne i dettagli,è come guardare delle cartoline, o dei piccoli affreschi che popoleranno la nostra memoria per poi riposare lì in eterno.
I dialoghi con gli altri personaggi sono ricchi di ironia, sarcasmo, ma sanno essere anche piuttosto riflessivi e profondi (molte volte potremo scegliere anche noi come e cosa rispondere). Ciò che funziona molto è il carattere carismatico di George e l’intesa che si crea da subito con la fotoreporter Nicole Collard, nostra compagna di avventure, dotata di un bel caratterino, che spicca per iniziativa e doti investigative.
Un pub in Irlanda.
Broken Sword, lato enigmi, propone per la maggior parte quelli classici che coinvolgono l’inventario oppure la combinazione di più oggetti tra loro con altri sullo schermo e con gli stessi personaggi. Oltre a questa tipologia di puzzle ce ne sono anche altri che richiedono l’interazione dell’utente su certe parti dello schermo in uno specifico momento, come ad esempio infilarsi in una stanza proprio nel momento in cui un altro personaggio, che ci fa da guardia, viene attirato da un diversivo attuato da noi in precedenza.
Conclusione
Se siete amanti delle classiche avventure grafiche punta e clicca, se vi piacciono giochi che hanno nella narrativa la loro colonna portante e vi stuzzica il risolvere enigmi di ogni genere, Broken Sword (che ha anche una sua director’s cut con nuove sezioni di gioco) non può mancare nella vostra collezione. Anche i successivi capitoli – tra alti e bassi – sono assolutamente meritevoli di essere giocati. E personalmente non mancherò l’appuntamento con il stesso e nuovo capitolo della saga e la rimasterizzazione già annunciata del primo capitolo, in arrivo nel 2024: Broken Sword – Shadow of the Templars: Reforged.
The Textorcist: the story of Ray Bibbia è un gioco difficile da raccontare a parole. Ed è buffo, considerando come le parole siano proprio il fulcro del gameplay. Si tratta, infatti, di una di quei giochi che è necessario provare con mano riuscire a catturarne l’essenza.
L’esperienza del team MorbidWare si presenta come una suggestiva fusione di generi ed esperienze: un bullet-hell, una boss-rush ed un corso avanzato di dattilografia.
Se già nelle premesse il gioco, partorito dalla mente di Diego Sacchetti, può apparire anticonvenzionale, le peculiarità non si limitano al puro gameplay. Caratteristiche principali del gioco sono personaggi irriverenti e grotteschi, una suggestiva ambientazione da B-Movie e una trama apertamente ironica e leggera.
Contesto
The Textorcist nasce da una demo del 2016 sviluppata per l’occasione della Global Game Jam. Con Diego Sacchetti nelle vesti di Lead Designer, in collaborazione con Daniele Ricci alla programmazione ed GosT per le musiche. La demo, dal titolo: Ray Bibbia: The exorcism of Lorem Ipsum è ancora oggi giocabile gratuitamente. Chiunque sia indeciso sull’acquisto del titolo può provarlo e decidere se il gioco rientri o meno nei propri gusti personali.
Il progetto riceve immediatamente feedback positivo da parte dell’utenza, nonostante la spiccata difficoltà generale dell’esperienza. Questo convince il team a dedicarsi alla realizzazione di un gioco completo, partendo dalle medesime premesse. Esce così nel 2019 The Textorcist, videogame dall’indubbio sapore da B-Movie, condito con uno spiccato senso dell’umorismo e dal gameplay stralunato ma appassionante.
Ray Bibbiaè un esorcista privato, con valori tutt’altro che tipicamente cristiani: mostra infatti una malsana passione per l’alcol e per le prostitute. Dopo l’esorcismo di una ragazza, veniamo a catapultati nel bel mezzo di un concerto metal. Qui dopo aver esorcizzato il band-leader, veniamo a conoscenza di disonesti retroscena del Vaticano, la massima istituzione religiosa e politica nel mondo ideato da Diego. Sarà nostro compito controllare la fondatezza di queste accuse ed -eventualmente- fare giustizia.
Come da tradizione, il burrascoso prete si troverà ben presto coinvolto in questioni ben più grandi di lui, che lo coinvolgeranno personalmente. Questo va ad aumentare la partecipazione emotiva del giocatore e farlo sentire più coinvolto in una storia che, altrimenti, sarebbe troppo generica.
Il protagonista, già di per sé originale, è inserito in un contesto altrettanto creativo: una Roma distopica, popolata da malviventi, criminali e satanassi di varia natura. Come è facile immaginare, né la trama né l’ambientazione sono (né vogliono essere) i veri protagonisti dell’esperienza. Il centro del gioco è invece costituito principalmente dalle varie bossfight disseminate per tutta l’avventura.
Il gioco
Come già accennato poco sopra, The textorcist è un’insolita commistione di generi ed esperienze. Il modo più efficace per descriverlo è un mix fra un bullet-hell, una boss-rush e un corso intensivo di coordinazione occhio-mani e di dattilografia.
Sì, dattilografia. Perché per poter esorcizzare i demoni che affronteremo, non basterà schivare i proiettili con le freccette. Sarà invece necessario digitare sulla tastiera le preghiere (più spesso che no in latino) atte a espellere ed esiliare il demonio in questione.
La premessa può già di per sé dare idea di un gameplay complesso, spaventando i giocatori meno avvezzi alla sfida. Tuttavia, The Textorcist sorprendentemente riesce ad essere ancora più severo e difficile di quanto non si possa immaginare dall’incipit!
Venire colpiti una volta da un proiettile fa solo sfuggire di mano il testo sacroal prete ubriacone, costringendoci a recuperare il libro il prima possibile. Sia perché il testo è necessario per poter proseguire nella preghiera, sia per evitare di perdere una preziosa vita. Se infatti il giocatore viene colpito nuovamente senza avere le sacre scritture in pugno, perde definitivamente una delle vite. Come se non bastasse, dopo ogni colpo il giocatore deve ricominciare il sermone da capo.
Bisogna prestare massima attenzione anche nella digitazione delle singole lettere. Scrivere la lettera sbagliata, infatti, fa retrocedere di una lettera nella digitazione della parola complessiva.
Un gameplay arduo e complesso, sì, ma comunque sempre appagante, poiché i miglioramenti del giocatore sono evidenti ad ogni partita. Tuttavia ogni giocatore desidererà presto avere un altro arto, così da potersi muovere più agevolmente nella tastiera.
Contrariamente da quanto ci si potrebbe immaginare, The Textorcist è perfettamente compatibile col controller ed è disponibile anche sulle console di casa Sony, Nintendo e Microsoft. Tuttavia, mi sento di consigliare di provare il titolo su PC, in quanto giocarlo con tastiera mi sembra più efficace per trasmettere la sfida e in generale a rendere le meccaniche di gioco più coese con l’esperienza utente.
Conclusioni
Morbidware è un team innegabilmente giovane, e The Texorcist rappresenta il loro primo gioco completo.
Nonostante le origini italiche di Diego, il gioco non è disponibile in italiano. Questo è dovuto ad una evidente questione di marketing e costi, visto il pubblico relativamente di nicchia del genere di riferimento. Inoltre vi sono altrettante ovvie questioni di sviluppo. Se nel gioco scrivere è la meccanica principale, tradurre in diverse lingue avrebbe comportato rifare quasi per intero determinati scontri.
The Textorcist è un’ottima idea che trova compimento in una pregevole realizzazione, sia dal punto di vista tecnico, con un’esperienza complessiva praticamente libera da bug compromettenti, e un’interfaccia chiara e sempre leggibile, che consente di non perdere mai di vista il nostro Ray anche in mezzo a una miriade di proiettili. Anche dal punto di vista strutturale il gioco non delude, grazie ad una difficoltà crescente, senza ostacoli insormontabili, e ad una trama leggera ed accattivante, che riesce ad incuriosire al punto giusto, senza per questo risultare invadente.
The textorcist è un avventura unica nel suo genere. Nato da una demo, trova la sua identità fra una comicità irriverente, capace ampiamente di parlare a un pubblico italiano, e un gameplay difficile ma appagante, capace di appagare i videogiocatori più ostinati, regalando però attimi di soddisfazione a chi non è in cerca di una sfida, ma si limita a navigarlo più in superficie. Altamente consigliato.
Io, su Starfield, non avevo aspettative, nel senso che non lo attendevo proprio. Forse per distrazione sono rimasto fuori da tutto quel susseguirsi di news e rumors che, come succede da anni, ogni titolo Bethesdasi porta dietro in attesa del lancio ufficiale, generando quel mix di hype per un nuovo gioco che si sa, avrà tantissimo da offrire, e di critiche preventive da parte di chi si aspetta una marea di bug che probabilmente rimarranno irrisolti nei secoli.
Ecco, io da tutto questo ne sono rimasto fuori, oltretutto involontariamente, finché navigando nel negozio di Steam mi è arrivata la notifica (tardiva): “Ehi, è uscito Starfield, compralo”. Quel poco che avevo sentito a riguardo era estremamente negativo (e per alcune cose, a ragion veduta, ma ne parliamo tra un po’), eppure ho deciso di comprare lo stesso il gioco. Il risultato? L’ho trovato strabiliante.
Ora, di cose che non vanno ce ne stanno parecchie. Dalla grafica distante anni luce dagli standard odierni alla gestione dell’inventario rimasta immutata nel corso dei diversi Elder Scrolls e Fallout, caotica e poco intuitiva, così come accade per il quest tracker che accorpa tutto lasciando giusto la possibilità di raggruppare le missioni per tipologia o fazione (ma con oltre mille pianeti, non era forse il caso di aggiungere un organizer per località?).
Queste, in sintesi, sono le principali cose che non vanno, di cui probabilmente si è discusso ovunque e di cui ha parlato anche qualche Nostradamus prima di poter mettere le mani sul gioco. Eppure, come dicevo, sto trovando Starfield un gioco eccezionale. Mi sono chiesto perché, e questa volta il mio incarnare l’autentico spirito della contraddizione non c’entra nulla: Starfield mi piace come pochi altri giochi perché puoi fare una miriade di cose e io da questo titolo non mi aspettavo proprio nulla.
L’ultimo lancio di Bethesda prosegue a modo suo la piccola rivoluzione avviata da Baldur’s Gate 3: si tratta di un gioco completo, senza microtransazioni o dlc (al netto di future possibili espansioni, ovviamente) e una libertà di movimento infinita. Mi sono ritrovato subito a vivere le stesse vibes che mi hanno regalato i diversi Fallout, di cui ho un bellissimo ricordo e mi sono trovato bene nonostante l’assenza V.A.T.S. (ossia della mira assistita introdotta nel terzo capitolo, poi utilizzata anche in New Vegas, Fallout 4 e Fallout 76), essenziale per chi non è proprio un campione negli sparatutto.
La cosa che più mi piace in questo gioco sono le quest. Sono tantissime, così tante da mettere all’angolo un maniaco del completismo come me. Infatti, se Baldur’s Gate 3 (ormai metro di paragone di ogni titolo videludico) mi ha stordito per la vastità delle mappe, tanto da infastidirmi perché sapevo che mi sarei perso qualcosa, lo stesso non è successo con Starfield: i pianeti, gli avamposti e gli npc sono così tanti che mi sono felicemente arreso all’idea di non poter materialmente esplorare tutto in una sola run (e neanche in due, tre, forse dieci).
Poi c’è la bella novità della personalizzazione della navicella spaziale: se ne può avere una o un’intera flotta e per ognuna di queste si può modificare ogni singolo pezzo. A questo si aggiunge la possibilità di costruire avamposti negli oltre 1.000 pianeti dislocati nei 100 sistemi solari della mappa. Insomma, una figata pazzesca.
Certo, non è tutto oro quello che luccica: c’è più di qualche elemento che ha fatto storcere la bocca anche ad un outsider come me. La cosa che più mi da fastidio è la gestione dei dialoghi: avviando una conversazione, l’inquadratura passa ad un primo piano dell’npc di riferimento, il quale non si muoverà più di tanto dalla posizione originale. Per farla breve, se avete interagito con un personaggio che era di spalle, è capace che questo vi parlerà senza guardarvi in faccia, che non è il massimo.
Stessa cosa vale per le interazioni dei seguaci, i quali ogni tanto proveranno ad inserirsi nei discorsi avviati dal personaggio con i vari npc, ma il 90% delle volte sono commenti a sé stanti e che non provocano alcuna reazione. Insomma, è come quando l’amico poco simpatico si mette in mezzo e fa una battuta che nessuno capisce e quindi tutti stanno in silenzio facendo finta di nulla. Il gelo.
Male anche la realizzazione degli npc privi di interazioni che popolano il mondo: sembra che sia stato fatto copia e incolla su una decina di modelli e che le varie città siano abitate da un’infinità di fratelli gemelli, oltretutto vestiti uguali. Su questo bisogna chiudere un occhio o si rischia di spegnere il pc o la console.
Pecche inaccettabili da un gioco così tanto atteso, ma se non ci si aspetta nulla non è un problema passarci sopra. Anche la tanto citata “ripetitività” dei pianeti è stata criticata forse ingiustamente: non è vero che gli ambienti sono tutti uguali. Anche le lune, prive di vegetazione e fauna, presentano differenze tra loro (e ho girato già parecchi sistemi). Sulla presenza di insediamenti nemici estranei a quest (ossia i mini dungeons) è vero, vige ancora la ricetta Bethesda che abbiamo tutti quanti sperimentato per anni sia negli Elder Scrolls che nei Fallout: si trova la base nemica dove ci sono pirati spaziali, contrabbandieri o un’invasione di insettoidi alieni, la si ripulisce e si torna a casa con il bottino generato casualmente. E che male c’è, soprattutto vista l’enorme mole di quest che ci si trova a dover affrontare, già alle prime ore di gioco?
In conclusione, Starfield è un titolo da consigliare assolutamente a tutti gli amanti del genere che hanno voglia di esplorare, di immergersi in un viaggio planetario in cui le scelte contano, in cui l’azione frenetica si alterna con meritati momenti di pausa ad esplorare pianeti nascosti o a modificare e migliorare la propria nave, oppure a riposarsi nel proprio rifugio costruito con tanto sudore.
Da pochi giorni è finalmente disponibile Mortal Kombat 1, dodicesimo episodio della celeberrima saga di NetheRealm Studios. Per celebrare l’occasione abbiamo deciso di proporvi un piccolo viaggio nel tempo, alla riscoperta dei primi episodi di questa pluricelebrata serie.
Questi titoli, usciti originariamente in versione arcade e convertiti per praticamente tutti i sistemi dell’epoca, sono stati gli artefici del successo di Mortal Kombat e della nascita della sua leggendaria eredità. Recuperiamo una manciata di gettoni e prepariamoci a riscoprire le origini di uno dei dominatori assoluti del genere dei picchiaduro. Fight!
Mortal Kombat: il primo mitico episodio
Il Mortal Kombat originale vide la luce nel 1992 in versione arcade ad opera di Midway Games. In quel periodo il panorama dei giochi da sala era quasi interamente dominato dal leggendario Street Fighter 2 di Capcom. Anche il solo pensare di competere con quel titolo sembrava pura follia.
Eppure Midway riuscì nell’impresa, dal momento che il suo picchiaduro si rivelò un successo planetario, divenendo uno dei cabinati più giocati in assoluto. Come se non bastasse, nel corso del 1993, arrivò su praticamente ogni sistema di gioco esistente, comprese le console portatili Gameboy e Game Gear.
Gli ingredienti del successo furono molteplici. Anzitutto l’utilizzo della grafica digitalizzata, novità assoluta per quei tempi. Midway infatti assoldò un team di attori le cui movenze vennero trasposte direttamente in forma digitale. I videogiocatori ebbero davvero l’impressione di trovarsi di fronte ad un film di arti marziali interattivo.
La trama del gioco inoltre era davvero avvincente e veniva sviscerata nei dettagli nell’intro di gioco e nei finali dei personaggi. Fulcro della storia era il Mortal Kombat, torneo interdimensionale utilizzato dall’Outworld per impossessarsi degli altri regni. I guerrieri della terra, guidate dal Dio del tuono Raiden, hanno il compito di sconfiggere lo stregone Shang Tsung e i suoi guerrieri per salvare la terra dalla conquista.
I personaggi del gioco erano tutti ben caratterizzati, sia visivamente che per quanto riguarda il loro background. Ad entrare nel cuore dei videogiocatori più di ogni altro furono però i due ninja, Sub-Zero e Scorpion, che divennero ben presto le due figure più iconiche della saga.
Per quanto riguarda il gameplay, Mortal Kombat proponeva un sistema a cinque tasti: due pugni, due calci e una parata. Gli attacchi base dei personaggi tendevano ad essere molto simili ed erano le mosse speciali a differenziare in maniera significativa i vari lottatori. Rispetto a Street Fighrer 2 il gameplay era sicuramente meno profondo, ma dannatamente divertente, intuitivo e dinamico: seppe far breccia nell’animo dei giocatori.
Naturalmente, l’ultimo ingrediente del successo di Mortal Kombat fu la sua incredibile violenza. Durante gli scontri, infatti, ogni colpo andato a segno avrebbe causato copiosi spruzzi di liquido rosso dal corpo del nostro avversario. Come se ciò non bastasse, al termine dello scontro, dopo l’apparizione dell’iconica scritta “Finish Him!”, il giocatore avrebbe avuto la possibilità di eseguire le celeberrime fatality: mosse finali, attivabili tramite combinazione, che causavano l’uccisione dell’avversario, spesso in modi davvero spettacolari e brutali.
Mortal Kombat II: un sequel leggendario
Nonostante l’incredibile successo del primo capitolo, Midway non rimase a dormire sugli allori. Già nel corso dell’anno successivo, il 1993, fece la sua apparizione nelle sale giochi di tutto il mondo Mortal Kombat II.
Ambientato interamente nel regno di Outworld, Mortal Kombat 2 introdusse Shao Kahn, imperatore di Altromondo e nuovo antagonista del gioco. Ancora una volta, i guerrieri della terra erano chiamati a difendere il loro mondo attraverso il Mortal Kombat, con l’ulteriore svantaggio di combattere in territorio nemico.
Mortal Kombat 2 non introdusse nessun elemento particolarmente innovativo a livello di gameplay, ma si limitò a potenziare e migliorare ogni singolo aspetto del gioco originale. La grafica, il sonoro, il numero dei lottatori selezionabili, persino la complessità della trama. Ogni singolo elemento di Mortal Kombat 2 ampliava e perfezionava il suo predecessore.
Unica novità davvero degna di nota era la netta accellerazione del ritmo di gioco, che rendeva MK2 molto più veloce e frenetico del suo predecessore. Il gioco introdusse anche un maggior numero di fatality per personaggio, oltre alle babality (con cui potevamo tramutare l’avversario in un bambino) e le friendship (simpatici scherzi che deridevano l’avversario anzichè ucciderlo).
Tutti questi elementi fecero di Mortal Kombat IIunsuccesso planetario, apprezzato dalla quasi totalità dei giocatori e convertito ancora una volta per ogni sistema casalingo esistente. Il gioco è tuttora considerato uno dei picchiaduro più famosi ed influenti di sempre.
Unico neo del gioco era costituito dalla sua terribile difficoltà, dovuta anche ad una CPU programmata in modo davvero perfido.Oltre ad imbrogliare sui frame delle mosse, infatti, il computer era anche in grado di “leggere” in anticipo i comandi inseriti dal giocatore, in modo da anticiparli. L’unica maniera davvero efficace per contrastare la CPU era imparare a sfruttare i suoi pattern preimpostati. Così facendo il giocatore aveva la possibilità di anticipare a sua volta le azioni nemiche. Un esempio pratico era l’utilizzo del salto all’indietro che, da una certa distanza, spingeva sempre il computer a saltare a sua volta, esponendosi agli attacchi.
Mortal Kombat 3: un’eredità pesante
Dopo Mortal Kombat 2 passarono due interi anni prima che Midway decidesse di riproporre il suo cavallo di battaglia. Nel frattempo, il mondo dei videogiochi cambiò profondamente. Le console a 16 bit vennero pian piano soppiantate dalle più prestanti 32 bit, come il Sega Saturn e la prima mitica Playstation.
Anche il genere dei picchiaduro, mietitore assoluto dei primi anni 90, stava cambiando rapidamente. Titoli come Virtua Fighter e Tekken avevano letteralmente stregato i videogiocatori, attratti dal fascino dei nuovi giochi in 3D. Nonostante il clima difficile, nell’aprile del 1995 Mortal Kombat 3invase le sale giochi di tutto il mondo, riuscendo di nuovo ad ottenere un ottimo successo.
Questo terzo episodio presentava toni ed atmosfere ancora più oscure ed opprimenti rispetto ai suoi predecessori. Il malvagio Shao Kahn stavolta decide di aggirare il Mortal Kombat, invadendo direttamente il pianeta terra. Di conseguenza, gli stages di MK3 presentano scenari presi sia da Outworl sia da una terra sull’orlo della catastrofe.
Rispetto ai predecessori, Mortal Kombat 3 pigiava ancora di più sull’accelleratore, con un gameplay ancora più forsennato e veloce. L’aggiunta delle combo e del pulsante della corsa aumentava ulteriormente la frenesia degli scontri e i riflessi dei giocatori dovevano essere più che buoni per ottenere risultati accettabili.
Anche il comparto grafico e il sonoro del gioco migliorarono ulteriormente rispetto al secondo capitolo, sebbene le tecniche di digitalizzazione risultassero ormai superate. Naturalmente fecero il loro ritorno le mitiche fatality, accompagnate dalle babality, dalle friendship e dalle nuovissime animality. Queste ultime vedevano il nostro combattente tramutarsi in una vera e propria belva, che in alcuni casi sbranava interamente l’avversario.
Pur ricevendo una buona accoglienza, Mortal Kombat 3 non riuscì a conquistare interamente il pubblico, soprattutto a causa di un roster piuttosto bislacco che inseriva un enorme numero di new entry, a volte non proprio azzeccate e andava ad escludere lottatori leggendari come Scorpion, Raiden e Kitana.
Per ovviare a questo difetto l’anno successivo Midway pubblicò due nuove versioni del gioco, Ultimate Mortal Kombat 3 e Mortal Kombat Trilogy, che andarono ad espandere in modo molto significativo il roster, lasciando praticamente inalterato il gioco.
Nel 1997 Midway decise che era giunto il momento anche per Mortal Kombat di passare alla terza dimensione. Ecco dunque arrivare Mortal Kombat 4, primo titolo della saga a proporre una grafica interamente in 3D.
Mortal Kombat 4 introdusse Shinnok, letale divinità anziana nemica di Raiden, evaso dal Netherrealm per invadere la terra. Toccherà di nuovo a Raiden e ai suoi guerrieri sconfiggerlo e porre fine alla sua minaccia. Queste premesse permisero ai programmatori di proporre un cast davvero ben assortito, con quasi tutti i volti storici della saga affiancati da alcune new entry davvero interessanti.
Le novità introdotte da Mortal Kombat 4 erano davvero molte. I personaggi avevano la possibilità di estrarre un’arma tramite particolari sequenze e di sfruttarla temporaneamente. In più, all’interno degli stages erano presenti diversi elementi interattivi, che potevano essere raccolti ed utilizzati come strumenti offensivi. Inoltre, i personaggi avevano la facoltà di muoversi in profondità per effettuare particolari schivate, sebbene gli scontri restassero confinati su un’asse orizzontale.
Nonostante tutte queste innovazioni, Mortal Kombat 4 non riuscì a far breccia nei cuori dei giocatori. Questo insuccesso fu anzitutto dovuto ai controlli, piuttosto legnosi e non sempre rispondenti. Inoltre, pur presentando una grafica interamente poligonale, Mortal Kombat 4 restava saldamente ancorato ai canoni dei giochi di combattimento 2D: questa situazione creò una sorta di ibrido che non seppe accontentare pienamente né i fan dei picchiaduro in 3D né gli amanti dei classici giochi bidimensionali.
Un lungo percorso di redenzione
Dopo Mortal Kombat 4 la saga iniziò un lungo periodo di sperimentazione.I giochi che si susseguirono nel corso degli anni, infatti, pur presentando una qualità più che discreta e diverse interessanti innovazioni, non seppero raggiungere i fasti degli episodi originali.
Questo almeno fino al 2011, data di uscita di Mortal Kombat, nono episodio della saga. Questo titolo, uscito per PS3, Xbox 360 e PC, propose un vero e proprio reboot della saga. Grazie ad una serie di viaggi del tempo, infatti, la timeline di Mortal Kombat venne riscritta, annullando tutti gli eventi successivi a Mortal Kombat 3.
Anche il gameplay venne profondamente rinnovato e migliorato, regalando un picchiaduro divertente, profondo e godibile. Il successo del nuovo Mortal Kombat permise alla saga di vivere una vera e propria seconda giovinezza, grazie ad una nuova serie di giochi dalla qualità davvero eccelsa.
Infine, il punto più alto della saga è stato raggiunto dal meravigliosoMortal Kombat 11, uno dei migliori picchiaduro di sempre. Vedremo se Mortal Kombat 1 saprà essere all’altezza di questi grandi picchiaduro.
Nel panorama dei videogiochi indie esistono prodotti che hanno la potenzialità di veicolare dei concetti piuttosto importanti ai loro fruitori, soprattutto a quelli più predisposti a coglierne il significato. Tra i tanti, due importanti esempi di questo trend sono “Limbo”, sviluppato da Playdead (2010), e “To the Moon”, di Freebird Games (2011). Entrambi sono giochi indie in single-playerdi breve durata, ed entrambi hanno avuto un ruolo importante nel mercato indipendente con attestati di stima e amore da parte di addetti al lavoro ed appassionati di gaming, diventando parte importante del medium videoludico stesso.
Fra tutti ho scelto Limbo e To the Moon perché mi sono sono rimasti nel cuore, giungendo dentro di me in maniera differente e restando memorabili anche dopo tutti questi anni a dimostrazione che con pochi mezzi è possibile brillare di luce propria, rimanendo impressi nella memoria del videogiocatore.
Limbo è un puzzle-platform in 2D privo di dialoghi con altri NPC, senza una narrazione testuale o vocale, né il classico tutorial didascalico, ed è privo di HUD; lo stile di gioco è un “prova e muori”, con il frequente susseguirsi di enigmi e trappole di ogni tipo. Tecnicamente parlando, Limbo, gira su un motore grafico proprietario, leggero e adatto al contesto; un perenne bianco e nero, con giochi di luci e ombre molto suggestivi, in grado di donare all’intera esperienza un’atmosfera surreale.
Il protagonista è un ragazzino finito in un mondo oscuro; all’inizio lo vediamo steso sul terreno e tocca a noi svegliarlo, interagendo con i tasti. Questo gioco non è rivoluzionario, ma elegante e ricercato esteticamente, intelligente ed accattivante nelle sue meccaniche, con una narrazione visiva che ci guida in un quasi totale silenzio. Alcuni nemici si possono eliminare interagendo con l’ambiente circostante, mentre altri andranno schivati per poter andare avanti e scontrarsi con i vari enigmi da risolvere.
Limbo
To the Moon, è realizzato con RPG maker, difatti a vederlo ha l’aspetto di un classico gioco di ruolo anni ’90, privo però di alcuni elementi rpg più caratteristici, come il livello di progressione dei personaggi. Qui troviamo una grafica colorata, una narrazione che avviene tramite i tanti testi su schermo, fatti di dialoghi e descrizioni varie, con musiche che sanno toccare il cuore; il gameplay è ridotto all’osso, quasi ai livelli di una visual novel, se non per qualche minigioco e puzzle, che di tanto in tanto veicola la profonda e toccante trama.
Questo titolo vive di una trama toccante e piena di sentimenti. Il gioco ci mette nei panni di 2 dottori, Eva Rosalene e Neil Watts, dipendenti della “Sigmund Agency of Life Generation”. Quest’azienda, tramite l’impianto di ricordi artificiali, aiuta i pazienti in fin di vita ad avere una morte più serena, eliminando i loro rimpianti, ed esaudendo (in un certo senso), i desideri più importanti, quelli magari durati una vita
To The Moon
Less is more
I giochi indie sono sviluppati solitamente da piccoli studi indipendenti, che (spesso) non hanno l’aiuto economico di un editore, ma questo può voler dire anche avere meno vincoli e sentirsi più liberi di esprimere maggiormente la propria autorialità. Ciò che mi viene da pensare è che non è detto ci sia sempre l’intenzione conscia di veicolare un certo tipo di messaggio, ma ciò non vuol dire che esso stesso non si crei ugualmente durante lo sviluppo e che quindi poi giunga comunque al giocatore.
Parlando di cinema, un’opinione che mi è capitato di sentire sui film di Christopher Nolan, è che quando lui ha realizzato film con meno budget a disposizione, senza l’utilizzo di troppi effetti speciali e dovendo quindi mettere mano di più al cuore della pellicola stessa, è riuscito a realizzare opere che, secondo una parte della critica, son state complessivamente migliori di altre sue, magari più titolate e di maggior successo ai botteghini.
Il mio parallelismo richiama, tornando in ambito videoludico, la differenza tra alcune produzioni di grosse software house tripla A e quelle degli sviluppatori di giochi indie (entrambe le categorie hanno sia ottimi prodotti che mediocri, non dimenticandoci che poi esistono anche produzioni che si trovano nel mezzo), che non avendo tutta questa disponibilità di mezzi, sono anche più costretti a lavorare di più all’anima del videogioco stesso.
In queste condizioni possono riuscire a superare questi limiti, per far sì che essi diventino orizzonti da raggiungere e superare. Può capitare così, che possa venir fuori un’esperienza più immersiva, dando più spazio a trama e caratterizzazione, fornendo quel tocco artistico che passa anche da un’estetica più o meno ricercata. A livello di storie, concetti, è sempre più difficile tirar fuori qualcosa di nuovo ed originale, ma la differenza sta nel modo in cui le idee, anche le più usate, vengono rielaborate.
I due giochi protagonisti di questo articolo, insieme ad altri di cui magari vi parlerò in futuro, sono piccoli grandi gioielli, opere d’arte in miniatura, che fanno bene ad un’industria videoludica che ha, in generale, un po’ paura di sperimentare e di proporre qualcosa di diverso e nuovo, che abbia più anima, originalità e meno ripetitività.
Ritengo comunque che l’industria videoludica stia vivendo un periodo storico abbastanza positivo. I ragazzi di oggi sono in grado di apprezzare anche titoli retrò o comunque giochi nuovi realizzati appositamente così (anche remastered e remake possono aiutare, in certi casi), capendo così che non sempre serve la grafica pompata per divertirsi, ma che intrattenimento, sfida ed emozioni, possono essere ovunque.