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Lies of P: provato del promettente soulslike ispirato a Pinocchio

La demo di Lies of P ci regala uno sguardo affascinante su un avvincente soulslike in arrivo quest’anno. Rilasciato a seguito dell’ultima conferenza Xbox, il gioco sembra prendere ispirazione dai capolavori di From Software e Hidetaka Miyazaki. In quest’analisi esploreremo i punti salienti della demo, analizzandone grafica, gameplay e le reminiscenze dei giochi “souls-like”.

L’uscita del gioco, dopo un primo rinvio, è prevista per il 19 settembre 2023. Lies of P uscirà su tutte le piattaforme, ma arriverà al day one su Xbox game pass.

Life of P: presentazione

Come si presenta alla vista

Sul fronte grafico, l’ultima fatica di Round 8 Studio delizia lo sguardo con texture curate e modelli poligonali tutto sommato dettagliati. Tuttavia, vale la pena notare che i nemici sembrano rifarsi in modo eccessivo all’immaginario burattinesco di Pinocchio. Questo porta a perdere un po’ di originalità, poichè i nostri avversari sono troppo spesso legati ad un’estetica sì mostruosa, ma sempre di natura antropomorfa. È importante sottolineare che si tratta ancora di una demo. Dunque è possibile che, nella versione definitiva, i nemici risultino essere più variegati e originali.

Le animazioni sembrano essere uno degli elementi più critici dell’esperienza. Sebbene esse svolgano bene il loro compito nell’immortalare l’azione, mancano della leggibilità che caratterizza i giochi di Hidetaka Miyazaki. I colpi dei nemici tendono ad andare a segno ora troppo presto, ora troppo tardi, mancando dell’ ottima prevedibilità che contraddistingue gli scontri delle esperienze From Software. Questo penalizza l’intero combat system, che in questo modo, si lega più al riconoscere gli attacchi in arrivo piuttosto che all’abilità del saperli leggere.

Anche le ombre, che dovrebbero essere dinamiche, spesso interagiscono in modo goffo con l’ambiente, compromettendo in parte l’esperienza. Dal punto di vista tecnico, bisogna applaudire l’efficacia del DLSS, che sembra migliorare le performance anche su hardware meno potenti.

Pad alla mano

Il gameplay di “Lies of P” attinge con intelligenza da meccaniche consolidate dei giochi “souls-like. Le statistiche potenziabili richiamano le esperienze puramente souls e sono Vitalità, Vigore, Forza Motrice, Tecnica e Sviluppo. Questi parametri consentono una buona personalizzazione del proprio personaggio, che al primo sguardo sembra possedere un’alta “build variety“.

La scelta della classe include le vie del Grillo (equilibrio), del Bastardo (destrezza) e dello Spazzino (forza). Questa scelta offre diverse opzioni di gioco, senza però costringere il giocatore verso un percorso predefinito già dalle prime battute. Scegliere una qualsiasi di queste classi, infatti, non preclude il livellamento di statistiche agli antipodi rispetto alla classe di origine.

Gli amanti dei souls si sentiranno come a casa: il combat system ricorda molto da vicino quanto già visto nelle scorse esperienze di casa From Software, in particolare in Bloodborne. I nemici, sebbene ostici, non sembrano impossibili da battere, anche se la già discussa imprevedibilità delle animazioni costringe ad un combattimento più legato alla pura memoria, ovvero al sapere riconoscere quale colpo stia per sopraggiungere, piuttosto che alla capacità di reazione del videogiocatore.

Il sistema di cure di lies of P è equivalente a quello tipico dei soulslike, con le “celle” che si ricaricano dopo ogni morte, o dopo esserci riposati ad uno “stargazer” (letteralmente osservatori di stelle), che qui svolgono la medesima funzione dei falò. Tuttavia, Lies of P offre un’aggiunta interessante: una volta esaurite le celle, sarà possibile recuperarne una danneggiando i nemici.

Tra i vari elementi carpiti al genere, Lies of p decide (consapevolmente, ma non colpevolmente) di assorbirne anche alcuni degli aspetti negativi (o quantomeno più controversi). Tra essi l’assoluta la mancanza della possibilità di mettere in pausa o il comando di salto, che è disponibile solo a seguito di una corsa e comunque capace di raggiungere solo le superficie più prossime.

Reminiscenze dei souls

Proprio a proposito degli elementi comuni alle creazioni partorite dalla mente di Hidetaka Miyazaki, Lies of P eredita molte delle caratteristiche distintive dei giochi dell’artista. Tra essi un level design meticoloso e ricco di strade secondarie da esplorare, nemici pericolosi da affrontare e segreti da scoprire. Frequenti anche le classiche porte con l’ormai iconico messaggio: “non si apre da questo lato“, che suggeriscono un ambiente di gioco ricco di shortcuts che collegano le singole aree.

Anche il piazzamento degli stargazer è interessante. Essi infatti sono disseminati in maniera davvero intelligente e trovarne uno risulta davvero appagante. Uno volta raggiunto lo stargazer l’utente vive la consapevolezza di un ambiente sicuro in cui dare frutto degli sforzi finora compiuti, spendendo l’esperienza in livelli, o viaggiando rapidamente all’hub centrale: l’hotel.

Il gioco abbraccia uno stile di combattimento frenetico e violento, fortemente ispirato a quanto visto in “Bloodborne“. Proprio come in quest’ultimo titolo, infatti, è possibile curarsi attaccando l’avversario. Questo crea un combat system che premia iniziativa ed aggressività, nel quale è fondamentale non concedere respiro ai nostri avversari. Tuttavia, la cura è possibile solo qualora il danno subito sia stato ridotto dalla parata, comando non presente nel capolavoro del 2015. Questo aggiunge un altro strato di complessità che potrebbe intrigare qualcuno.

Anche se la meccanica del parry è presente, è importante sottolineare che questa richiede un po’ più di impegno rispetto ad altri titoli. Anche il “danno-premio” finale raramente appaga appieno l’impegno profuso. Molto discutibile risulta la vibrazione del controller, che trema dall’inizio alla fine dell’animazione in maniera decisamente troppo violenta, conferendo una spiacevole sensazione al tatto.

Conclusioni

Lies of P si presenta come un’avventura promettente che attinge con sagacia dall’eredità dei giochi “souls-like”. Nonostante alcuni aspetti da rifinire, come la poca originalità nel design dei nemici e le animazioni, che potrebbero essere più fluide, la demo offre un’esperienza coinvolgente e intrigante.

Notevole anche la durata della demo stessa, che delizia il palato degli utenti con circa due ore di gameplay, sintomo della consapevolezza del team sull’ottimo lavoro svolto finora.

L’ambientazione e la trama misteriosa catturano l’attenzione, mentre il gameplay solido e le scelte strategiche che si presentano al giocatore rendono “Lies of P” una promettente aggiunta al genere soulslike.

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Diablo 4 – Recensione: dall’inferno all’infinito

Per alcuni sono passati undici anni; per molti altri ben ventitré. La serie Diablo è finalmente tornata con il suo nuovo, moderno e – a tratti controverso – capitolo. Sono tra quelli che non sono mai stati pienamente soddisfatti da Diablo 3 e so che Blizzard è cosciente che esistono videogiocatori come me. Anche per questo motivo la casa di Irvine è tornata all’origine del male con un’opera cruda, violenta e moderna. Scopriamo insieme, in questa recensione di Diablo 4, se Blizzard Entertainment sia riuscita a tornare ai vecchi fasti riesumando il peccato originale, e anche se stessa, da un recente passato poco memorabile.

La figlia dell’odio

Ho iniziato la mia avventura su Diablo 4 nei panni di un nuovo viandante perso tra le desolate lande di Vette Frantumate, una fredda area in cui faccio subito conoscenza del bene e del male che dovrò affrontare nel corso dei sei atti che compongono la campagna principale. Le due facce della stessa medaglia prendono la forma di un lupo nero, l’horadrim Lorath e i petali di sangue di Lilith.

Così come Link è l’eroe prescelto che continuamente si risveglia in The Legend of Zelda, il Viandante di Diablo è una figura senza passato che diventa eroe di un mondo in eterna lotta: Sanctuarium. In Diablo 4, Blizzard ha aggiunto diversi particolari che rendono il videogiocatore maggiormente legato all’intera trama rispetto al passato. Uno su tutti: i petali di sangue, che sono stati casualmente – o così sembra – ingeriti dal nostro alter ego diventandone il legame tra me e la Figlia dell’Odio.

Il titolo di Lilith nasce da suo padre, Mephisto, Signore dell’Odio e uno dei tre Primi Maligni dell’universo di gioco insieme a Baal e lo stesso Diablo. Ma non solo: Lilith è anche la creatrice di Sanctuarium, che ormai libera dalla sue catene vuole tornare a regnare nel proprio mondo. Come di consueto per la saga, questa volontà ha generato nuovi scontri con le forze angeliche capitanate da Inarius, ma anche con gli altri maligni che temono il potere della nuova pretendente al trono. Non voglio essere causa di spoiler e quindi arriverò subito al punto: la trama di Diablo 4 è una piacevole scala di grigi, ricca di intrecci e personaggi che risaltano per la propria costruzione. Blizzard ha fatto un ottimo lavoro sui principali amici, gli horadrim, e i principali nemici, ma anche il tempo dedicato ai personaggi secondari è più che adeguato.

La campagna principale di Diablo 4 mi ha portato per mano alla ricerca di Lilith ed Elias, il vassalo della Figlia dell’Odio. Seguendo i petali di sangue, ho incontrato – in un mondo di gioco enorme – angeli e demoni in una trama che ritengo la migliore dell’intera serie.

Recensione Diablo 4: Lilith

Un mondo in eterna lotta

Sanctuarium è un mondo ricco di attività, poiché pieno di sofferenza, malvagità e figure ambigue, in entrambe le fazioni. In Diablo 4, questo concetto viene mostrato e dimostrato passo dopo passo: per esempio, tutti i maligni hanno antipatie tra i loro ranghi e simpatie tra gli umani. Le logiche di Lilith non sono banalmente spietate, ma hanno quasi un senso di ragionevolezza che mi hanno fatto chiedere se fosse veramente lei il male che devo combattere. E dopo la fine della campagna principale, una vera risposta non l’ho ancora trovata, poiché Diablo 4 termina con un cliffhanger tutto da completare, stagione dopo stagione.

Nello specifico, ho portato a termine la campagna principale di Diablo 4 nel giro di una decina di ore. Un tempo leggermente superiore a quello necessario per completare gli atti di Diablo II – di cui abbiamo recensito la nuova edizione Resurrected – e Diablo III. Ma come avete già intuito, Lilith è solo un pretesto per vagare all’interno di una mappa – divisa in cinque regioni – ricca di nemici e grinding. Per lo scopo, gli sviluppatori hanno deciso di applicare l’auto leveling: tutte le creature di Sanctuarium hanno sempre il nostro stesso livello, con qualche eccezione per alcune attività endgame come le Spedizioni principali e le Fortezze.

Gameplay

Naturalismo ai massimi livelli

Sanctuarium è un’enorme opera di Caravaggio in cui l’oscurità è data da sfondi neri su cui un barlume di luce spicca al fine di concentrare lo sguardo del videogiocatore verso i volti scarnificati e sofferenti delle persone e dei mostri che popolano questa landa disperata. Lo stile artistico di Diablo 4 mi ha riportato indietro ai primi due capitoli; in particolare a quell’opera magna che conosciamo con il nome di Diablo II, con l’importante differenza che i cinematic e la qualità generale sono strettamente contemporanee: il disagio dei villaggi è reale, palpabile. Affrontare una quest secondaria è quasi un dovere perché si può percepire una vera necessità tanto nell’ambientazione quanto nelle parole grazie a una scrittura e a un doppiaggio di ottima fattura.

La maggior parte delle creature che popolano Sanctuarium provengono da un bestiario consolidato da 27 anni di storia, ma non sono comunque tantissime e alla lunga gli incontri risultano ripetitivi. D’altro canto, tutti i nemici sono posizionati in modo coerente tra le cinque regioni, seguendo la storia dei luoghi e le caratteristiche ambientali – per esempio, gli scorpioni giganti e i predatori si trovano nelle zone desertiche mentre serpenti e relativi adepti tra le paludi. Ogni avversario ha inoltre le proprie caratteristiche con peculiarità crescenti in base al suo livello di importanza. I mostri comuni hanno il loro pattern, gli elité possiedono i consueti tratti caratteristici, mentre i boss hanno dei modi unici di attaccare: per batterli è necessario leggere i loro movimenti guardando le hit box che compaiono subito primo dell’attacco.

Recensione Diablo 4: Boss Fight

Endgame

Diablo 4 mi ha fornito diversi motivi per vagare nel mondo di gioco: il vero divertimento inizia una volta terminata la storia principale. Diablo è farming, gli hack and slash sono un genere in cui bisogna giocare ancora e ancora fino a trovare quell’oggetto che porta il personaggio a un altro livello, che in realtà è solo un nuovo punto di partenza per nuove build e nuovo grinding. Così, una volta terminata la campagna principale, il gioco ci sblocca la prima Spedizione Principale, un dungeon più lungo del solito che una volta completato ci permette di cambiare il Livello del Mondo.

Inizialmente si può scegliere tra due livelli, Avventuriero e Veterano: ho scelto il secondo e più difficile. Una volta completata la prima Spedizione Principale ho sbloccato il livello Incubo, che si consiglia di giocare dal livello 50, anche se è possibile affrontare la spedizione quando si vuole, esattamente come è possibile fare con i successivi: Inferno e Tormento.

Ogni Livello del Mondo ci mette contro sfide maggiori, ma anche ricompense maggiori. L’endgame è costituito sempre dalla solita struttura: uccidi, raccogli gli oggetti e potenzia il viandante. Ci sono diversi mondi per ripetere la sequenza: i dungeon, le quest secondarie e gli eventi a tempo.

Città

I dungeon si dividono in Cantine, cioè mini-dungeon e i Dungeon veri e propri. Su quest’ultimi vale la pena soffermarci un attimo perché ho notato una rilevante sbavatura: il level design è eccessivamente banale. In praticamente tutte le mappe dei dungeon, ho visto lo stesso pattern: scegli se andare a nord (o sud) oppure a est (oppure ovest); a un certo punto le due strade si uniscono, e dando uno sguardo veloce alla mappa, si capisce subito da che parte proseguire senza essere costretti a percorrere zone “morte”.

Le quest secondarie sono invece uno dei principali motivi – se non il primo – per cui si parla di Diablo 4 come di un MMORPG alla stregua di World of Warcraft. L’ultima fatica di Blizzard è ricca di missioni secondarie volte a ripulire il male da Sanctuarium in perfetto stile “videogioco online”: liberare un’area da aberrazioni; raccogliere oggetti droppati dai mostri; scortare qualcuno; portare a termine un dungeon vicino a un villaggio e molto altro che ho già visto nel multiplayer online dedicato a Warcraft e non solo.

Nonostante il senso di déjà-vu, le quest secondarie di Diablo 4 si distinguono per la profondità con cui vengono presentate: anche ripulire una zona è raccontata come un’esigenza dei personaggi non giocanti. Una coerenza che ho apprezzato e che è in linea con lo stile della saga, come si evince dai Tetri Favori, quest perpetua che ci rende, di fatto, un cacciatore di taglie.

Completano infine il quadro gli eventi a tempo, attività simili a quelle già citate, ma concentrate ciclicamente in determinate zone della mappa per un determinato periodo temporale: Maree Infernali, Fortezze, Boss mondiali e tutto quello che serve per sentirsi parte di una comunità con cui ho potuto parzialmente interagire durante questa recensione di Diablo 4 grazie all’always online, che non mi ha mai fatto sentire solo (nonostante non abbia dedicato ancora abbastanza tempo alla modalità PvP), tranne quando volevo esserlo all’interno di un dungeon o una spedizione.

Recensione Diablo 4: Maree Infernali

Il viandante

Sono cinque le classi attualmente disponibili su Diablo 4: Barbaro, Druido, Incantatrice, Negromante e Tagliagole. La mia scelta è ricaduta sul negromante, buildato come un tank grazie alle abilità di Sangue affiancato da un Golem a menare come un fabbro. Probabilmente la mia velocità di esecuzione è stata minore rispetto ad altre build, ma le volte in cui sono morto durante i primi 50 livelli si possono contare sulle dita di una mano.

Cambiare build è abbastanza veloce ed economico, ma è un po’ seccante dover rivalutare ogni singolo oggetto dell’inventario per farla rendere al meglio. Come tutti i Diablo, l’equipaggiamento fa la differenza a causa degli effetti speciali dei singoli oggetti sulle abilità di classe; di conseguenza, sopratutto durante l’endgame in cui i dettagli fanno la differenza, il videogiocatore è obbligato a riprogrammare la propria build in base ai loot che trova, soprattutto se questi sono core per quelle più in voga (anche perché spostare gli effetti da un oggetto all’altro è un crafting abbastanza costoso).

Le abilità invece possono essere gestite agevolmente dal relativo albero. Così come nel terzo capitolo, in Diablo 4 bisogna concentrarsi su quattro abilità specifiche. Lo skill tree funziona esattamente seguendo questo ragionamento: l’ideale è massimizzare le abilità attive che vogliamo usare e poi investire tutto sulle passive; infatti, dal livello 50 in poi, il viandante accede al Tabellone d’Eccellenza in cui può limare le caratteristiche del personaggio verso la build che preferisce, con una certa dose di pazienza ed eccesso di zelo.

Inventario

In aggiunta a quanto detto fino ad ora, il gameplay di Diablo 4 si basa su una matematica minuziosa. Ogni statistica è stata valutata con estrema cura, anche se Blizzard dovrà dedicare ancora tanto tempo al bilanciamento delle classi, e probabilmente non riuscirà comunque nell’impresa data la natura degli hack’n’slash. In aggiunta, le nuove meccaniche e i nuovi parametri sono tutto fuorché banali: per esempio, il Colpo Fortunato non è un semplice critico, mentre Sopraffazione – meccanica basata sul subire pochi danni – permette di giocare diversamente rispetto ad altri videogiocatori che preferiscono buttarsi nella mischia.

Aggiornamento perpetuo

Diablo 4 può essere giocato in solitaria, ma rimane un live service. Non è solo una questione di always online, già presente in Diablo 3: ci sono tante feature che mi hanno continuamente ricordato che stavo visitando un mondo vivo. Girovagando per l’open world Blizzard in sella al mio cavallo, sono spesso finito dentro un evento a tempo nel quale partecipavano altri giocatori; quando ho deciso di evitarli, magari per dedicarmi a una quest secondaria, il mio viandante è finito col ritrovarsi in una zona martoriata da altri personaggi amici che mi hanno aiutato a portare a termine una missione che potevo tranquillamente completare da solo. E quando proprio volevo nascondermi finendo nei meandri di Sanctuarium, sono incappato in un Altare di Lilith che ha attivato un bonus +2 alle statistiche non solo del mio viandante, ma anche di tutti i personaggi che ho creato (live service per l’appunto).

Recensione Diablo 4: Giudizio

Diablo 4 su Xbox Series X

Il lungo lavoro per portare Diablo 3 su console è servito. Diablo 4 sull’ammiraglia Xbox ha dei comandi pressoché ottimi. Ho giocato tutti i videogiochi della saga su PC e Diablo 4 non mi ha fatto sentire minimamente la mancanza di mouse e tastiera, nemmeno durante la navigazione dei menù, solitamente la parte più tediosa da gestire con un controller, anche se qualche lieve sbavutura nel muoversi all’interno dell’inventario è presente.

Per quanto concerne la parte tecnica, il comparto audio è da oscar al miglior sonoro: giocare Diablo 4 senza volume è altamente sconsigliato: musiche, doppiaggio e suoni ambientali sono assolutamente imprescindibili. L’immersione è totale.

D’altro canto, nonostante abbia molto apprezzato il lato artistico, la grafica di Diablo 4 su Xbox Series X non è ai livelli delle produzioni next-gen. Questo non mina assolutamente la bontà del gioco, ma le limitazioni che gli sviluppatori hanno dovuto imporre a causa del cross-gen si vedono largamente.

Conclusione

Sì, Diablo 4 ha una fortissima contaminazione da MMO, con diverse ispirazioni prese direttamente da World of Warcraft. La parte positiva è che queste caratteristiche si mescolano benissimo con l’intera saga, del resto Diablo 2 è stato uno dei videogiochi più giocati online nei primi anni duemila.

La scelta di rendere Diablo 4 un live service è azzeccata perché rende l’ultima fatica di Blizzard coerente con il suo passato e assolutamente al passo con i tempi. Nonostante le influenze esterne, Diablo 4 è il miglior hack and slash in circolazione mentre le Stagioni già annunciate ci diranno se sarà il migliore di tutti i tempi.

Un’ottima notizia per i fan di nicchia, un po’ meno per tutti gli altri: gli hack’n’slash sono videogiochi pensati per un numero esiguo di persone che hanno voglia e tempo per grindare. Diablo 4 è l’eccellenza del genere: artisticamente meraviglioso nella sua crudezza e violenza e tecnicamente al passo con l’Anno Domini 2023.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, PC, PS4, Xbox One
  • Data uscita: 06/06/2023
  • Prezzo: 79,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su Xbox Series X grazie a un codice fornito dal publisher.

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Street Fighter 6 – Recensione

Il 2023 si prospetta come un anno davvero memorabile per gli amanti dei picchiaduro, con i nuovi capitoli di Tekken e Mortal Kombat ormai in dirittura d’arrivo. E Capcom, casa madre della saga di Street Fighter, non poteva certamente mancare alla festa. Uscito nei negozi da poche settimane, a ben sette anni di distanza dal lancio di Street Fighter V, Street Figher 6 ha l’arduo compito di rilanciare il brand e fornire una valida alternativa ai suoi agguerriti concorrenti. Capcom sarà riuscita a fare centro? Scopriamolo insieme in questa recensione in cui passeremo ai raggi X l’ultimo capitolo della saga di Ryu e Ken, Street Fighter 6.

Piatto ricco mi ci ficco

Street Fighter 6: modalità
Ecco le tre modalità principali di Street Fighter 6.

Il primo aspetto che colpisce di Street Fighter 6 è la ricchezza dell’offerta che propone. Capcom sembra aver fatto tesoro delle critiche ricevute all’uscita del quinto capitolo e ha inserito da subito un buon numero di modalità di gioco e contenuti.

Fin dalla prima schermata, il giocatore dovrà scegliere fra tre percorsi differenti, ovvero il World Tour, il Battle Hub e il Fighting Ground. Andiamo ad esplorare nel dettaglio queste modalità.

Alla conquista di Metro City

Il World tour rappresenta un divertente passatempo per il single player.

La modalità World è di fatto la nuova modalità storia di Street Fighter 6. Dopo aver creato il suo avatar, il giocatore viene catapultato per le strade di Metro City, storica città legata alla saga di Final Fight.

Qui viene offerta la possibilità di interagire con numerosi personaggi, svolgendo per loro missioni o semplicemente sfidandoli a classici incontri 1 vs 1.

La mappa di gioco risulta sempre molto chiara e distingue in modo netto le missioni principali, legate alla progressione della storia da tutti i compiti collaterali. Durante gli spostamenti la telecamera si troverà alle spalle del giocatore, mentre per gli scontri avremo la classica inquadratura laterale.

L’aspetto grafico di Metro city e del World Tour in generale è senz’altro convincente, anche se risulta evidente il downgrade rispetto alle modalità principali di Street Fighter 6.

Col progredire della storia il nostro personaggio, oltre a salire di livello e potenziare le sue statistiche, ha la possibilità di incontrare tutti i personaggi di Street Fighter 6 e di “assumerli” come maestri.

In questo modo l’avatar da noi creato può imparare tutte le mosse speciali dei vari lottatori, mescolandole in modo originale per creare il proprio set personalizzato, sebbene le mosse base del personaggio restino legate allo stile del lottatore scelto come maestro.

Nel corso dell’avventura capita di affrontare anche varie battaglie di gruppo, in cui il nostro protagonista, talvolta spalleggiato da un alleato, deve sbaragliare intere orde di nemici, secondo la tradizione dei classici picchiaduro a scorrimento.

Wolrd tour offre anche una serie di divertenti mini giochi, che aumentano ulteriormente la varietà dell’avventura. Mi limito a citare l’Hado Pizza, che attraverso l’inserimento corretto di comandi sempre più complessi ci consente di sfornare squisite prelibatezze a base di pizza.

In definitiva, la modalità World Tour è una buona novità per il single player. Certo, la trama non brilla per complessità e originalità e l’azione di gioco alla lunga diviene ripetitiva, ma World Tour garantisce un buon coinvolgimento e tanto divertimento, oltre a fungere da introduzione per le meccaniche base di Street Fighter 6.

Sala giochi virtuale

Street Fighter 6: Battle hub
Battle Hub è il cuore pulsante della community di Street Fighter 6.

Nella modalità Battle Hub, sempre alla guida del nostro avatar, veniamo introdotti in una modernissima e sfarzosa sala giochi virtuale. Questo ambiente è creato per rappresentare il punto di ritrovo ideale per la community di Street Fighter 6.

In questa modalità abbiamo la possibilità di sederci di fronte ai vari cabinati per sfidare gli avatar avversari in classiche sfide a Street fighter 6. Inoltre, gli avatar possono affrontarsi nelle sfide speciali (su cui torneremo) e persino in battaglie tra avatar, con tutte le mosse e le abilità sbloccate nella modalità world tour.

I giocatori hanno anche la possibilità di chattare tra loro, stringere amicizia, unirsi nei vari club (che possono anche essere creati dal giocatore stesso), comprare oggetti e vari miglioramenti estetici nei negozi dedicati e persino sfidarsi ai vecchi classici capcom, tra cui i primi due Street Fighter e Final Fight.

Torna anche il Capcom Fighting Network, che consente di visualizzare i migliori replay, consultare le classifiche e gestire la propria lista di amici e di giocatori seguiti.

Infine, Battle hubs propone una serie di eventi e tornei personalizzati, che vanno a mantenere sempre alto il coinvolgimento dei giocatori e permettono ad ognuno di trovare gli avversari e le competizioni più adatte al suo livello.

Ho trovato questa modalità davvero ben fatta e ricca di possibilità. Unico neo è rappresentato dalla valuta di gioco. Ancora una volta avremo a disposizione un doppio sistema di denaro, ovvero i fighter coins, scambiabili con denaro reale e i drive tickets, ottenibili svolgendo varie attività nel battle hub.

Purtroppo questi ultimi hanno vari svantaggi rispetto ai fighter coins, sia perché gli acquisti tramite tickets risultano più onerosi e difficili, sia per il fatto che diversi elementi, come i nuovi lottatori che verranno introdotti in forma di DLC, non saranno acquistabili tramite tickets.

Pronti a scendere in campo

Il Fighting Grounds rappresenta il fulcro dell’azione in Street Fighter 6.

Come già accennato, il Fighting Ground presenta tutte le modalità classiche di Street Fighter. La modalità Arcade è dedicata alle storie dei singoli lottatori (che a dire la verità risultano un po’ piatte, almeno finora) e può essere affrontato a varie difficoltà e con un numero variabile di scontri.

Va segnalato qui l’ottimo lavoro svolto da Capcom nel programmare l’intelligenza artificiale. Gli avversari controllati dalla CPU infatti, soprattutto ai livelli di difficoltà più alti, sono davvero all’altezza della situazione.

Scordiamoci di vincere grazie al caso o alla ripetizione delle mosse: i nostri avversari sono sempre pronti a punirci con combo e strategie di gioco mutuate dalle esperienze online e propongono davvero un buon livello di sfida.

Vecchie e nuove conoscenze

Street Fighter 6: roster

Il versus permette sfide singole o a squadre contro la cpu o un avversaio umano, mentre le sfide speciali sono incontri singoli con regole particolari. In questa modalità saranno presenti ostacoli particolari, come raggi elettrici o esplosivi e ci saranno condizioni di vittoria specifiche (per esempio atterrare l’avversario tre volte).

Parlando del roster, Street Fighter 6 mette a disposizione 18 lottatori. Non si tratta di un numero particolarmente elevato, ma se non altro i personaggi presenti offrono un’ottima varietà.

Fanno il loro ritorno gli otto protagonisti di street Figher 2, a cui si affiancano dieci altri lottatori, tra i quali alcune vecchie conoscenze come Deejay e Cammy e diversi volti completamente nuovi.

Ho trovato i nuovi inserimenti piuttosto ben caratterizzati e interessanti, con la sola eccezione di Kimberly e Lily, fin troppo simili tra loro esteticamente. Merita sicuramente una menzione la gigantesca Marisa, lottatrice italiana il cui stile di lotta a base di Pancrazio si ispira ai gladiatori romani.

Dal punto di vista del Gameplay, ogni lottatore propone uno stile originale ed interessante, anche se è ancora troppo presto per discutere del bilanciamento del roster.

Mazzate da tutto il mondo

Sono presenti anche gli scontri online, come sempre divisi tra amichevoli e classificati. In questi ultimi il rango e il punteggio iniziale del giocatore vengono stabiliti dopo una prima serie di dieci scontri, che andranno a collocare il giocatore in una categoria adeguata al suo livello.

Durante le battaglie non abbiamo quasi mai riscontrato alcun tipo di rallentamento o lag, nemmeno nei combattimenti cross-platform o con avversari provenienti dall’altra parte del mondo.

Capcom è infatti riuscita ad implementare il rollback netcode in maniera davvero encomiabile, regalandoci un’esperienza online davvero piacevole, scorrevole e divertente.

L’importanza dell’allenamento

Street Fighter 6: Modalità Allenamento
La modalità training di Street Fighter 6 è di gran lunga la migliore della saga.

Merita una menzione speciale la modalità allenamento, davvero ricchissima e completa. La modalità infatti presenta una serie enorme di informazioni e tutorial, divisi per livello, che consentono al giocatore di prendere gradualmente familiarità con tutti gli elementi di gioco.

Sono comprese anche istruzioni specifiche per le meccaniche più avanzate, che di solito si incontrano solo negli scontri online. Questo permette ad ogni giocatore di avere molte più indicazioni per migliorare le sue abilità.

Il gioco fornisce anche delle piccole guide ad ogni personaggio, che consentono una maggiore comprensione dei punti di forza e debolezza di ogni lottatore e delle tattiche base da adottare nel suo utilizzo.

Un Gameplay rinnovato

Street Fighter 6 inserisce numerosi elementi di novità nel suo gameplay.

Veniamo ora all’elemento cardine di Street Fighter 6, ovvero il suo gameplay. Fin dall prime battute, il nuovo titolo Capcom ricorda da vicino lo stile del suo predecessore, proponendo scontri dal ritmo sostenuto in cui tempismo e prontezza di riflessi contano quanto la tecnica.

Questo sesto capitolo però introduce tutta una serie di innovazioni che vanno a modificare radicalmente le strategie e l’andamento delle battaglie. Anzitutto, ogni lottatore ora dispone di un numero maggiore di mosse, sia speciali che uniche. Questo va ad aumentare di molto la profondità dei personaggi, obbligando il giocatore a spendere più tempo nella modalità allenamento per padroneggiarli a dovere.

Torna la barra dedicata alle critical art, divisa in tre livelli. Tutti i personaggi avranno a disposizione tre diverse super, ognuna delle quali consumerà un numero maggiore di indicatori. Anche in questo caso, sta al giocatore decidere se sfruttare un maggior numero di super più deboli o concentrarsi su un unico colpo mortale.

Ma l’innovazione più importante è certamente l’inserimento del drive system, che ora andremo ad approfondire meglio.

Un drive per ogni evenienza

Street Fighter 6: Drive System
Il drive system innova e modifica il gameplay di Street Fighter 6 in maniera davvero importante.

Sotto la barra dell’energia vitale si trova un nuovo indicatore, denominato appunto drive. Grazie a questa barra il giocatore può eseguire una serie di nuove abilità. Anzitutto il drive impact, una potente attacco in grado di spezzare la guardia avversaria e assorbire una certa quantità di danno, permettendo di innescare le proprie combo.

Segue il drive parry, una mossa difensiva simile alle parate viste in Street Fighter 3, che va ad annullare totalmente gli attacchi avversari ma comporta il rischio di lasciare il giocatore scoperto se eseguita al momento sbagliato.

Al drive parry è possibile collegare il drive rush, un rapido scatto in avanti che va a ridurre la durata dei frame degli attacchi, permettendo di innescare combo e combinazioni davvero devastanti.

É possibile attivare il rush anche a partire da alcune mosse base del personaggio, cosa che rende questa abilità davvero insidiosa e in grado di diventare la base di moltissime strategie offensive.

Fa il suo ritorno anche l’overdrive, ovvero la possibilità di potenziare le mosse speciali con la pressione di più pulsanti d’attacco al momento dell’esecuzione.

Infine, il drive reversal, eseguibile innescando un drive impact quando si è appena bloccato un attacco nemico. Il nostro personaggio eseguirà un contrattacco in grado di allentare la pressione scagliando l’avversario lontano da noi.

Ognuna di queste tecniche andrà sfruttata con attenzione, dal momento che il consumo dell’indicatore drive causa lo stato di burnout, durante il quale l’indicatore si ricarica molto più lentamente e il nostro personaggio subisce danni maggiori dagli attacchi nemici.

É facile intuire come tutte queste nuove abilità accrescano moltissimo la varietà degli scontri, dal momento che ora il giocatore ha a disposizione un numero molto maggiore di scelte e possibilità, sia offensive che difensive.

Personalmente credo che Capcom con questo sistema abbia davvero fatto centro, poichè è riuscita ad innovare in maniera intelligente il gameplay rendendolo ancora più solido ed imprevedibile.

Lo stile più appropriato

Street Fighter 6: Comandi semplificati
La scelta di inserire comandi semplificati in Street Fighter 6 ha fatto davvero discutere.

E veniamo all’altro grande cambiamento, che tanto ha fatto discutere i fan, ovvero la presenza dei comandi semplificati. In Street Fighter 6 infatti il giocatore può scegliere tra tre set di comandi, ovvero classico, moderno e dinamico.

Il sistema classico propone il tipico schema a sei pulsanti, tre pugni e tre calci deboli, medi e forti. Le abilità drive si attivano combinando un pugno e un calcio medio oppure un pugno ed un calcio forte.

Il sistema moderno si basa su quattro pulsanti, ovvero attacco debole, medio, forte e speciale. A seconda della situazione la cpu sceglie se eseguire un pugno o un calcio. Le mosse speciali sono molto semplificate e possono essere attivate dalla semplice pressione del comando speciale, accompagnato da una singola direzione.

Con questo stile il danno inflitto dalle combo è leggermente minore rispetto allo stile classico. Questo sistema ricorda quello di giochi come Super Smash Bros o Injustice e sembra pensato per i giocatori alle prime armi o abituati ad altri picchiaduro.

Il sistema dinamico infine è quello più guidato ed automatizzato. Selezionandolo avremo solamente tre tasti a disposizione, legati alla distanza dall’avversario (vicino, medio e lontano). Con la semplice pressione consecutiva dello stesso comando il nostro lottatore innescherà automaticamente tutta una serie di combo.

Questo stile è evidentemente pensato solo per i giocatori più scanzonati, che non hanno tempo e pazienza per imparare comandi speciali e combo. Non sarà possibile ricorrere allo stile dinamico nelle sfide online.

Anche in questo caso, ho apprezzato la scelta di Capcom, che permette anche a giocatori meno pratici della saga di Street Fighter di avvicinarsi a questo gioco, dal momento che i comandi moderni possono risultare più semplici ed abbordabili per molti potenziali utenti. Tuttavia, non sarebbe strano avere delle sorprese, dal momento che già diversi giocatori di alto livello scelgono di affrontare le sfide online utilizzando proprio lo stile moderno.

Street Fighter 6 è davvero un titolo incredibile, completo in ogni suo aspetto.

Conclusione

Street Fighter 6 è davvero un eccellente picchiaduro, completo in ogni suo aspetto. Il gioco Capcom unisce un’eccellente gameplay ad un gran numero di modalità, sia per il signle player che per il multigiocatore. Gli unici difetti del gioco sono da riscontrare nel roster non troppo numeroso e nelle singole storie dei personaggi, fin troppo brevi e superficiali. Consiglio assolutamente l’acquisto, soprattutto per i fan del genere. Non ve ne pentirete!

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, Switch, PC, PS4
  • Data uscita: 26/05/2023
  • Prezzo: 59,99 €

Ho nuovamente provato il gioco a partire dal day one dell’ultimo update su PlayStation 5.

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Editoriali

Return to Monkey Island è un’anacronistica necessità

“Salve, sono Guybrush Threepwood, temibile pirata”: quanti di noi sono cresciuti con questo tormentone nella testa, agli inizi degli anni ’90, quando le avventure grafiche spopolavano tra i videogiocatori di Amiga? Era il 1990 e la Lucasfilm, poi Lucasarts, nota casa di produzione cinematografica già autrice di pietre miliari nel genere videoludico come Zak McKraken, Indiana Jones e Loom, tirò fuori dal cilindro The Secret of Monkey Island, avventura grafica che innumerevoli notti insonni regalò ai giovani dell’epoca, almeno nel mio caso). Il recentissimo Return to Monkey Island riprendere esattamente da dove eravamo rimasti, con l’obiettivo di chiudere la trama.

La storia

Protagonista della serie è Guybrush Threepwood, temibile pirata o quasi, che in realtà di temibile il personaggio ha ben poco: lo si può definire tranquillamente un farfallone, ironico e rubacuori, un molto ma molto fortunato piratucolo trovatosi nel momento giusto e al posto giusto. Ed è su questa linea che Ron Gilbert, geniale creatore della serie, fa proseguire il suo “vero” terzo capitolo dopo ben 31 anni dall’ultimo episodio. Return to Monkey Island (sviluppato TerribleToyBox con la collaborazione della Lucasfilm). È un ritorno al passato, un cerchio che si chiude, la ciliegina sulla torta, un “padre di famiglia” che finalmente ha deciso di raccontare la fine della storia, a noi che avendo giocato ai primi due capitoli a suo tempo un po’ tutti figli di Gilbert lo siamo.

Return of Monkey Island è un toccasana in questi tempi, in cui le avventure grafiche non vanno più di moda e dove le nuove generazioni rincorrono sparatutto con grafica fotorealistica. Si tratta di un ritorno alla sana ironia e al filone dei videogiochi dove è ancora necessario usare il cervello per arrivare alla fine.

A dire la verità, per quanto Return to Monkey Island sia un gioco con una trama che può essere completata in circa una decina di ore in modalità difficile (RTMI ha anche una modalità “leggera” con meno enigmi che impedisce ogni tipo di frustrazione), il mio consiglio è di prendersela comoda, di conoscere tutti i personaggi, di sperimentare ogni dialogo perché signori, il tutto vale davvero il prezzo del biglietto!

Ok bello, ma tecnicamente?

Tecnicamente Gilbert non si è molto discostato dal concetto del vecchio SCUMM, innovandolo però con una nuova interfaccia che prevede che il cursore identifichi gli oggetti con i quali si può interagire “suggerendo” l’azione da intraprendere in base agli oggetti stessi. La grafica, per quanto in fase di anteprima sia stata criticata da buona parte della comunità videoludica di appassionati e non, risulta a mio avviso ben riuscita, centrando perfettamente la caratterizzazione dei vari personaggi, dai protagonisti alle comparse. Gli enigmi sono ben calibrati riuscendo, nel contempo, a rappresentare una sfida adeguata senza appesantire la storia di sfide troppo cervellotiche che porterebbero alla frustrazione del giocatore.

Gilbert tra l’altro lo aveva anticipato nelle sue varie interviste prima dell’uscita del titolo, il 19 settembre: ha dovuto, in fase di realizzazione, privilegiare enigmi quanto più possibili lineari per andare incontro alla generazione attuale di videogiocatori, non disposta a sacrificare più tempo del dovuto come magari nei primi anni ’90. In quest’ottica, altro supporto ai videogiocatori è dato dal libro degli aiuti, disponibile sin dai primi istanti nell’inventario di Guybrush e utilizzabile a piacimento. “Se il giocatore si barcamena cercando aiuti su internet, tanto vale che glieli diamo direttamente noi del team di sviluppo, che il gioco l’abbiamo creato” ha affermato Ron Gilbert.

Quella mente geniale di Ron Gilbert

La trama di Return to Monkey Island

La storia di Return to Monkey Island inizia esattamente dallo stesso punto in cui è finito il secondo capitolo, prendendo la piega che probabilmente aveva in mente Gilbert sin dal principio. Certo, ha dovuto fare i conti col passato e con il fatto che prima di RTMI sono usciti altri tre capitoli, ma grazie a dei flashback narrativi e al libro dei ricordi, il giocatore viene riportato immediatamente sui giusti binari della storia.

Sono passati anni da quando Guybrush ha cercato di mettere le mani sul Segreto di Monkey Island, di fatto non riuscendoci a causa del malvagio pirata fantasma Le Chuck che si è rivelato avere il suo stesso obiettivo. Ora si ritrova di nuovo sull’isola di Melee: tante cose sono cambiate ma non la voglia del nostro eroe di scoprire il Segreto. Venendo a sapere che Le Chuck sta mettendo su una ciurma per salpare verso l’Isola della Scimmia, trova il modo di salpare anche lui.

Tutto qui?

Le cose si complicano quando entra in gioco anche un trio di pirati improbabile, salito alla ribalta come nuovo comando pirata dell’isola di Melee e che, attraverso la magia oscura, cerca anch’esso il Segreto alleandosi a fasi alterne, con una spruzzata di un pò di sano doppiogiochismo piratesco, con Le Chuck. Ci saranno nuove isole da esplorare e nuovi personaggi da incontrare, ma anche alcune conoscenze di vecchia data: i riferimenti al passato sono numerosi lungo tutto il gioco, e avremo nuovamente a che fare con Carla, Stan, Otis, Herman.

Se una nota si può appuntare a Ron Gilbert è che, a volte, è davvero estenuante dover andare da un punto all’altro della mappa perché magari ci si rende conto di non aver preso un oggetto…ma d’altronde, è questo lo spirito di un’avventura grafica (peraltro i tempi di percorrenza vengono efficacemente ridotti), fino allo scontro finale, il faccia a faccia tra Guybrush e Le Chuck da tutti atteso, scontro in cui colui che ne uscirà vittorioso avrà finalmente in mano il desiderato Segreto di Monkey Island!

Conclusioni

RTMI è un gioco da provare, adatto sia a chi non ha mai avuto a che fare con un’avventura grafica e non conosce la saga, sia ai fan di vecchia data di Guybrush per i quali diventa un “must have”, imprescindibile prosecuzione (e fine?) del percorso fatto finora tra isole, spade, vascelli e zombie fantasma.

Return to Monkey Island è un gioco di altri tempi di cui si sentiva proprio il bisogno, un prodotto quasi anacronistico ma tremendamente attuale per chi lo aspettava da ben 31 anni. Sembra ieri aver lasciato Guybrush e affini in quel criptico finale di Monkey Island 2, e oggi eccoci qui, con in mano un bellissimo seguito in cui i dialoghi, la satira, l’ironia ci accompagnano nell’opera, forse, di commiato di Ron Gilbert. Saluteremo probabilmente Ron, ma in futuro credo proprio che la saga proseguirà. Monkey Island continuerà a vivere e quel piratucolo senza nessuna speranza con un nome più assurdo della sua ambizione avrà ancora altre avventure da affrontare.