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The Talos Principle 2: il provato tra robot e filosofia

The Talos Principle 2 è il diretto erede del suo predecessore, sia da un punto di vista narrativo, come d’altronde era facile immaginarsi, ma anche da un punto di vista puramente filosofico, proponendo nuove questioni derivanti dalle medesime premesse.

Tuttavia sarebbe errato immaginarsi una mera ripetizione di ciò che è stato possibile vedere nel primo capitolo. I temi trattati in questa nuova iterazione sono sì connessi a quelli del predecessore, ma in modo nuovo, vedendoli sotto una nuova luce ed espandendone le tematiche.

Anche l’immaginario subisce la stessa sorte, con un gusto per l’antico e l’estremamente tecnologico che si incontrano fino a toccarsi, regalando un’atmosfera immediatamente riconoscibile e degli ambienti curati e ben realizzati nel quale non è mai noioso perdersi.

Il gioco è più verboso di quanto non ci potesse aspettare dalle premesse del primo capitolo, e non mancano i contenuti da leggere, ma le conversazioni non risultano mai essere noiose e fine a sé stesse, riuscendo a tenere il giocatore coinvolto attraverso scelte multiple varie e soddisfacenti, e sfidandone le convinzioni morali, com’è costume già dal primo puzzle di casa Croteam.

Reminiscenza e trasformazione

Sopratutto nelle primissime battute di gioco, chi ha già giocato The Talos Principle 1 si sentirà come a casa, con un sistema di gioco efficace e collaudato e dei puzzle molto reminiscenti del primo capitolo.

Ma questo è un nuovo capitolo e, in quanto tale, le sorprese però non tardano ad arrivare. Qualcuno potrebbe addirittura spaventarsi inzialmente per alcuni cambi registici. Infatti alcune cutscenes dal taglio più tradizionale interromperanno sporadicamente le sessioni di gioco. Va detto che queste sono rare, poste interamente (o quasi) lungo le prime battute di gioco e comunque non risultano mai invasive.

Visivamente il gioco fa un ottima figura e sembra essere ottimizzato relativamente bene, nonostante frequenti pop-up e alcune piccoli problemi di lighting che è facile immaginare vengano corretti prima del rilascio ufficiale del gioco.

Anche il level design è una diretta evoluzione della struttura del primo capitolo. Gli ambienti da esplorare per trovare e risolvere i numerosi puzzle del gioco sono vistosamente più ampi da quanto era possibile vedere nella prima iterazione del puzzle sviluppato da Croteam; ciononostante, permangono le caratteristiche labirintiche di svariati complessi di edifici e punti di interesse.

Grazie a un lavoro certosino dei world e level designer, perdersi è particolarmente difficile. Sono inoltre presenti molteplici punti di interesse e un percorso facile da intuire. Per quanto difficile, lo smarrirsi è un’attività compiaciutamente promossa dal titolo, che sa ricompensare i più curiosi con puzzle nascosti (che sembrano essere i più difficili) e punti di interesse vari che regalano ora una registrazione, ora un terminale contentente alcuni testi rivelatori.

Esplorare i vari mondi regala dunque una piacevole sensazione di libertà. Nell’eventualità di un giocatore particolarmente distratto (o svogliato) è stata integrata una bussola, che mostrerà la direzione per raggiungere i puzzle visti ma non esplorati e gli altri siti di interesse.

Le questioni narrative

Al momento dell’inizio del titolo, sono sià trascorsi diversi secoli dal finale canoninco di The Talos principle 1. Athena, così ha deciso di nominarsi il nostro alter-ego del primo capitolo, è riuscita con l’aiuto di nuovi robot a ricostruire una civiltà a tutti gli effetti “umana”, ma naturalmente alterata in base alle modificate necessità delle nuove forme di vita robotiche.

La popolazione è così espansa fino a raggiungere mille abitanti, e saremo proprio noi il millesimo e ultimo membro della comunità: 1K. Sì, ultimo. Nella società generata dalla mente dei creativi di Croteam, mille rappresenta il numero desiderato di abitanti, affinché si eviti una sovrapopolazione ed un esponenziale aumento delle richieste energetiche necessarie a far funzionare la nuova società.

Chiaramente questo goal, come viene chiamato dai membri della comunità di Nuova Gerusalemme, è motivo di dibattito presso i cittadini della città, tra chi si reputa favorevole a porsi un limite così da non ripetere gli errori compiuti dai predecessori – noi umani – e chi invece ritiene che porsi un limite significa scoraggiare lo sviluppo, la crescita e la diversificazione di una società altrimenti destinata alla stasi, anche a causa della longeva vita di cui dispongono i robot.

Nuova Gerusalemme è bella da guardare e da visitare, con molteplici punti di interesse e costruzioni da esplorare, ma la trama ci spingerà ad allontanarcene in fretta; 1K infatti poco dopo la sua nascita (se così si può definire) prenderà parte con qualche altro compagno ad una spedizione verso una misteriosa isola nelle prossimità di nuova Gerusalemme dalla quale sembra provenire una nube di dati che ha preso la forma di Prometeo, colui che nella mitologia Greca classica rubò il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini.

Il nostro viaggio non è più solitario, ma saremo accompagnati da alcuni collaboratori dalle personalità sfaccetate e variegate, che ci terranno compagnia durnate l’esplorazione, ma che non interferanno – almeno durante la prova che abbiamo avuto modo di provare – con i puzzles. Tutto questo, per quanto alcuni possano temere il contrario, non limita affatto l’introspezione derivante dai temi trattati.

Talos Principle 2 puzzle robot

Le questioni filosofiche

The Talos Principle è una – ormai lo si può dire – serie molto legata a temi filosofici, a mettere in crisi il videogiocatore, non in quanto tale, ma in quanto individuo. Il primo capitolo, lo si può dire senza paura di sbagliarsi, non finiva quando si spegneva il gioco. Le questioni, tanto intrinsiche quanto esplicitate attraverso testi o dialoghi, puntavano a mettere in crisi il player in quanto individuo, puntando a stravolgere completamente le sue convinzioni circa alcuni assunti filosofici.

I temi di The Talos Principle 2 si evolvono direttamente dalle premesse poste dalla prima iterazione e dal DLC, “Road to Gehenna”. L’iconografia rimane molto vicina a quella del predecessore, con forte enfasi sulle tradizioni greche, romane e cristiane.

Anche qui, infatti, la religione è centrale rispetto alle tematiche trattate, mettendo in discussione il rapporto tra creato e creatore, ma anche tra “Messia” e apostoli.

Chi era appassionato della componente più celebrosa e filosofica dell’esperienza maturata in nel primo capitolo può dormire sereno anche su The Talos Principle 2: anche una banale conversazione con un png sui gatti può produrre stimolanti conversazioni sul ruolo della morte e la sua funzione nel ciclo della nostra vita.

I puzzle

Chi ha già esperienza con le avventure puzzle di Croteam potrebbe trovare la primissima parte del gioco eccessivamente semplice o reminscente di quanto già visto nella precedente iterazione della serie. Tuttavia, ben presto il sistema di puzzle si arrichisce di nuovi e divertenti tasselli che stratificano maggiormente il sistema di luci e laser maturato nel corso di The Talos Principle 1.

I puzzle sono quindi efficaci e divertenti, senza mai per questo risultare eccessivamente complessi o tediosi, ritagliando tra l’altro agli enigmi più intricati un’evidente etichetta da contenuto opzionale così da regalare una sfida più impegnativa a chiunque ne sia alla ricerca, e invece impegnare quanto basta il giocatore meno prono al completismo.

Non bisogna temere però: anche i puzzle “di trama” sono complessi quanto basta per dover applicare un minimo di materia grigia. La risoluzione non risulterà mai banale o scontata, ma spesso e volentieri arriva il momento di “Eureka! tanto apprezzato dagli amanti del genere.

Infine, anche il tetramino trova maggiore spazio che nel suo predecessore con delle interessanti novità che ne sposteranno il focus dalle due dimensioni del tetris classico, alle tre dimensioni del mondo di Nuova Gerusalemme e dintorni.

Talos Principle 2 puzzle

Conclusione

The Talos Principle 2 non si limita a essere un pigro ricalco del predecessore. Al contrario, partendo dalle premesse – già solide – della prima avventura puzzle di Croteam, ne espande gli aspetti, sia tematicamente immaginando una società nascente dopo gli eventi del primo capitolo con tutte le questioni filosofiche derivanti, sia contenutisticamente, con una netto balzo avanti dal punto di vista grafico, e un’espansione delle meccaniche puzzle già cementate nel primo.

Tutti coloro che hanno apprezzato il primo capitolo sono caldamente invitati a dare una chance alla demo disponibile su Steam. The Talos Principle 2 potrebbe spaventare chi desiderasse un gioco più simile al primo capitolo in tutti gli aspetti, sopratutto vista la grande quantità di personaggi con cui è possibile interagire sin dall’inizio contrariamente a quanto visto nelle precedenti iterazioni della serie, ma che non mancherà di conquistare con le sue tematiche profonde e mai banali e con i suoi puzzle di spessore.

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Società

The Textorcist: esorcizzare scrivendo – Videogiochi Italiani

The Textorcist: the story of Ray Bibbia è un gioco difficile da raccontare a parole. Ed è buffo, considerando come le parole siano proprio il fulcro del gameplay.
Si tratta, infatti, di una di quei giochi che è necessario provare con mano riuscire a catturarne l’essenza.

L’esperienza del team MorbidWare si presenta come una suggestiva fusione di generi ed esperienze: un bullet-hell, una boss-rush ed un corso avanzato di dattilografia.

Se già nelle premesse il gioco, partorito dalla mente di Diego Sacchetti, può apparire anticonvenzionale, le peculiarità non si limitano al puro gameplay. Caratteristiche principali del gioco sono personaggi irriverenti e grotteschi, una suggestiva ambientazione da B-Movie e una trama apertamente ironica e leggera.

Contesto

The Textorcist nasce da una demo del 2016 sviluppata per l’occasione della Global Game Jam. Con Diego Sacchetti nelle vesti di Lead Designer, in collaborazione con Daniele Ricci alla programmazione ed GosT per le musiche. La demo, dal titolo: Ray Bibbia: The exorcism of Lorem Ipsum è ancora oggi giocabile gratuitamente. Chiunque sia indeciso sull’acquisto del titolo può provarlo e decidere se il gioco rientri o meno nei propri gusti personali.

Il progetto riceve immediatamente feedback positivo da parte dell’utenza, nonostante la spiccata difficoltà generale dell’esperienza. Questo convince il team a dedicarsi alla realizzazione di un gioco completo, partendo dalle medesime premesse. Esce così nel 2019 The Textorcist, videogame dall’indubbio sapore da B-Movie, condito con uno spiccato senso dell’umorismo e dal gameplay stralunato ma appassionante.

Ray Bibbia è un esorcista privato, con valori tutt’altro che tipicamente cristiani: mostra infatti una malsana passione per l’alcol e per le prostitute. Dopo l’esorcismo di una ragazza, veniamo a catapultati nel bel mezzo di un concerto metal. Qui dopo aver esorcizzato il band-leader, veniamo a conoscenza di disonesti retroscena del Vaticano, la massima istituzione religiosa e politica nel mondo ideato da Diego. Sarà nostro compito controllare la fondatezza di queste accuse ed -eventualmente- fare giustizia.

Come da tradizione, il burrascoso prete si troverà ben presto coinvolto in questioni ben più grandi di lui, che lo coinvolgeranno personalmente. Questo va ad aumentare la partecipazione emotiva del giocatore e farlo sentire più coinvolto in una storia che, altrimenti, sarebbe troppo generica.

Il protagonista, già di per sé originale, è inserito in un contesto altrettanto creativo: una Roma distopica, popolata da malviventi, criminali e satanassi di varia natura. Come è facile immaginare, né la trama né l’ambientazione sono (né vogliono essere) i veri protagonisti dell’esperienza. Il centro del gioco è invece costituito principalmente dalle varie bossfight disseminate per tutta l’avventura.

Il gioco

Come già accennato poco sopra, The textorcist è un’insolita commistione di generi ed esperienze. Il modo più efficace per descriverlo è un mix fra un bullet-hell, una boss-rush e un corso intensivo di coordinazione occhio-mani e di dattilografia.

Sì, dattilografia. Perché per poter esorcizzare i demoni che affronteremo, non basterà schivare i proiettili con le freccette. Sarà invece necessario digitare sulla tastiera le preghiere (più spesso che no in latino) atte a espellere ed esiliare il demonio in questione.

La premessa può già di per sé dare idea di un gameplay complesso, spaventando i giocatori meno avvezzi alla sfida. Tuttavia, The Textorcist sorprendentemente riesce ad essere ancora più severo e difficile di quanto non si possa immaginare dall’incipit!

Venire colpiti una volta da un proiettile fa solo sfuggire di mano il testo sacro al prete ubriacone, costringendoci a recuperare il libro il prima possibile. Sia perché il testo è necessario per poter proseguire nella preghiera, sia per evitare di perdere una preziosa vita. Se infatti il giocatore viene colpito nuovamente senza avere le sacre scritture in pugno, perde definitivamente una delle vite. Come se non bastasse, dopo ogni colpo il giocatore deve ricominciare il sermone da capo.

Bisogna prestare massima attenzione anche nella digitazione delle singole lettere. Scrivere la lettera sbagliata, infatti, fa retrocedere di una lettera nella digitazione della parola complessiva.

Un gameplay arduo e complesso, sì, ma comunque sempre appagante, poiché i miglioramenti del giocatore sono evidenti ad ogni partita. Tuttavia ogni giocatore desidererà presto avere un altro arto, così da potersi muovere più agevolmente nella tastiera.

Contrariamente da quanto ci si potrebbe immaginare, The Textorcist è perfettamente compatibile col controller ed è disponibile anche sulle console di casa Sony, Nintendo e Microsoft. Tuttavia, mi sento di consigliare di provare il titolo su PC, in quanto giocarlo con tastiera mi sembra più efficace per trasmettere la sfida e in generale a rendere le meccaniche di gioco più coese con l’esperienza utente.

Conclusioni

Morbidware è un team innegabilmente giovane, e The Texorcist rappresenta il loro primo gioco completo.

Nonostante le origini italiche di Diego, il gioco non è disponibile in italiano. Questo è dovuto ad una evidente questione di marketing e costi, visto il pubblico relativamente di nicchia del genere di riferimento. Inoltre vi sono altrettante ovvie questioni di sviluppo. Se nel gioco scrivere è la meccanica principale, tradurre in diverse lingue avrebbe comportato rifare quasi per intero determinati scontri.

The Textorcist è un’ottima idea che trova compimento in una pregevole realizzazione, sia dal punto di vista tecnico, con un’esperienza complessiva praticamente libera da bug compromettenti, e un’interfaccia chiara e sempre leggibile, che consente di non perdere mai di vista il nostro Ray anche in mezzo a una miriade di proiettili. Anche dal punto di vista strutturale il gioco non delude, grazie ad una difficoltà crescente, senza ostacoli insormontabili, e ad una trama leggera ed accattivante, che riesce ad incuriosire al punto giusto, senza per questo risultare invadente.

The textorcist è un avventura unica nel suo genere. Nato da una demo, trova la sua identità fra una comicità irriverente, capace ampiamente di parlare a un pubblico italiano, e un gameplay difficile ma appagante, capace di appagare i videogiocatori più ostinati, regalando però attimi di soddisfazione a chi non è in cerca di una sfida, ma si limita a navigarlo più in superficie. Altamente consigliato.

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Editoriali

Armored Core VI: rigiocare la saga dopo 25 anni

Era il lontano 1998, settembre per la precisione. Da poco diciannovenne e felice possessore della prima Playstation, uscita qualche anno prima sul mercato, mi apprestavo a festeggiare il mio compleanno, rigorosamente posticipato poiché, cadendo in agosto, gli amici erano tutti in vacanza. Nel giorno del mio compleanno bis, i miei amici si presentarono a casa con una decina di giochi per la mia amata console: tra questi, non posso dimenticare, c’era un titolo che stuzzicò da subito la mia curiosità. Si trattava di Armored Core, AC per gli amici.

Genesi

Armored Core nasceva da un’idea di Shoji Kawamori, mecha designer di storiche serie di anime (una delle più note in Italia è Capitan Harlock), oltre che dall’amore sconsiderato dei giapponesi per i robot giganti.

La saga di FromSoftware era ed è formata da simulatori di combattimento tra Mech (o Mecha), enormi robottoni guidati da un pilota che se le danno di santa ragione in scenari più o meno realistici. L’aspetto migliore del primo Armored Core era il fatto che si trattava di un titolo 3D in cui era possibile spostarsi in ogni direzione, sparare ovunque e trovarsi contro nemici che provenissero da ogni angolo, con una fluidità al tempo inimmaginabile.

La caratteristica principale della serie è sempre stata la personalizzazione del proprio mech. Il gioco metteva a disposizione una marea di potenziamenti per gambe, braccia e armi; scalabili al massimo, altamente modulari, i mech potevano essere plasmati ad uso e consumo del giocatore per affrontare le varie missioni, a patto di avere abbastanza crediti per farlo. Come ottenere crediti? È presto detto: bastava concludere le missioni e ottenevate la giusta ricompensa, dopo aver scalato ovviamente il costo dei proiettili usati e le spese di gestione.

Caratteristiche di gioco

Esplorare quei mondi e quegli scenari mi teneva incollato allo schermo per ore. Armored Core aveva una grafica poligonale in 3D che non faceva gridare al miracolo, ma considerando l’anno di uscita e la piattaforma, non si poteva chiedere di più onestamente.

Il gameplay fu considerato ottimo dalla critica e piacque molto anche a me: lo trovai molto interessante e coinvolgente. Questo mio giudizio deriva dalle ore di divertimento che trascorsi e dalla buona struttura a missioni che From Software creò. Gli scenari infatti proponevano città piene di detriti, basi lunari e ambienti desertici. La base lunare, in particolare, attirò la mia attenzione poiché la missione che ospitava era caratterizzata dalla bassa gravità. Nello specifico, nel tentativo di salvare la terra da un attacco dalla luna, il nostro mech avrebbe dovuto fare i conti con la poca gravità che influiva sui salti e sui suoi movimenti.

Un piccolo appunto negativo sul gioco era la difficoltà nel controllare il mech con il pad: i tasti da utilizzare erano troppi, a volta anche contemporaneamente. A parte questo piccolo intoppo, il primo Armored Core risultava godibile sotto tutti i punti di vista, grazie alle missioni ben congegnate, alla fluidità dei movimenti e all’arsenale a disposizione. Infine, la longevità era un altro punto forte, con quasi 50 missioni da completare. Il gioco fu pubblicato nel luglio del 97 in Giappone per poi arrivare in Europa nel giugno dell’anno successivo.

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Approccio a Fires of Rubicon

L’università, la ricerca del lavoro e tante altre vicissitudini – naturali nella crescita di ogni individuo – mi hanno portato ad allontanarmi dal mondo videoludico (ma sono rientrato alla grande negli ultimi anni). Dopo 25 anni, in una calda giornata di fine agosto, mi imbatto in Armored Core VI Fires of Rubicon. Dopo una rapida ricerca mi rendo conto di essermi perso ben quindici capitoli (spin off inclusi), ma i ricordi suscitati dal gioco sono più forti del tempo perso. Così lo ordino senza troppo pensarci.

Il giorno dopo, al day one, Armored Core VI è nelle mie mani. Emozionato inserisco il gioco nella mia Xbox Serie X, ed eccomi di nuovo ai comandi di un mech, dopo tanto, tanto tempo. Quello che non avevo messo in conto è che si ha a che fare con From Software (Dark Souls, Elden Ring): la difficoltà di gioco è elevatissima e non “settabile”; inoltre, gli sviluppatori sono noti per gettare letteralmente il videogiocatore nel mezzo del gioco senza alcun preambolo. Complice la mia età avanzata e i riflessi non più pronti come una volta, mi sono ritrovato ad impiegare due giorni per sconfiggere il boss alla fine del tutorial, maledetta From Software!

Addentrandosi più nel gioco, comprendo che la struttura portante del gameplay è immutata, ma ovviamente abbiamo una storia che fa da contorno alle battaglie.

Caratteristiche narrative e tecniche

Sul pianeta Rubicon 3 è stata trovata una nuova fonte di energia che le varie corporazioni tentano con ogni mezzo di accaparrarsi. Il giocatore interpreta un mercenario che, combattendo ora per una ora per l’altra di queste fazioni, cambierà il destino della guerra e del pianeta. Niente di trascendentale o innovativo dunque. Forse però è proprio questa la forza di Fires of Rubicon.

Giocarci è sempre e maledettamente divertente. Le mappe sono credibili e varie, forse eccessivamente post apocalittiche, ma è la storia che lo impone. Peccato non aver implementato una specie di open world. Infatti, gli scenari sono delimitati da una banda rossa laterale che il mech non può oltrepassare. Una scelta che sicuramente limita la strategia di combattimento.

Voci confermate dicono che avremo ben tre finali diversi, quindi sarà obbligatorio effettuare almeno tre distinte run e fare scelte diverse per completare pienamente il gioco. Le missioni hanno alti e bassi, alcune sono troppo facili altre ai limiti dell’impossibile, con boss finali veramente duri a morire. Fortunatamente ci viene in soccorso la modularità dei mech e il loro collaudo, che è possibile effettuare prima di iniziare ogni battaglia. In questo modo è possibile rendersi conto della efficacia della configurazione adottata.

I combattimenti, infine, sono davvero spettacolari, con un arsenale molto vario da utilizzare che rende piacevole sparare missili di vario genere nei denti degli avversari!

Conclusioni

Armored Core VI è il videogioco che From Software avrebbe voluto sin dall’inizio, ma che i limiti tecnici della tecnologia a disposizione impedivano di creare a suo tempo. Fires of Rubicon è un titolo maturo con bellissimi modelli poligonali dei robot, un ambiente vivo e dinamico, una IA non eccelsa ma percepibile, una storia convincente e una personalizzazione del robot ancora maggiore.

La longevità è di circa 25 ore: si snoda tra 5 capitoli, 41 missioni e la possibilità di scegliere tra finali alternativi. Il gameplay di Armored Core VI – rispetto al primissimo del 97 – mantiene inalterato il divertimento introducendo, grazie a mappe ben strutturate, un’importante componente strategica che costringe il videogiocatore a sfruttare le caratteristiche ambientali per cercare di sorprendere i nemici e procurarsi un vantaggio su di loro.

In definitiva, Armored Core VI è un gran gioco, sia che siate fan della serie sia se non abbiate mai pilotato un mech prima d’ora. L’opera di From Software merita la vostra attenzione, poiché la soddisfazione ed il divertimento che può dare non è inferiore a qualsiasi soulslike di Hidetaka Miyazaki.

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Giocare a Starfield senza alcuna aspettativa, un’esperienza da 10 e lode

Io, su Starfield, non avevo aspettative, nel senso che non lo attendevo proprio. Forse per distrazione sono rimasto fuori da tutto quel susseguirsi di news e rumors che, come succede da anni, ogni titolo Bethesda si porta dietro in attesa del lancio ufficiale, generando quel mix di hype per un nuovo gioco che si sa, avrà tantissimo da offrire, e di critiche preventive da parte di chi si aspetta una marea di bug che probabilmente rimarranno irrisolti nei secoli.

Ecco, io da tutto questo ne sono rimasto fuori, oltretutto involontariamente, finché navigando nel negozio di Steam mi è arrivata la notifica (tardiva): “Ehi, è uscito Starfield, compralo”. Quel poco che avevo sentito a riguardo era estremamente negativo (e per alcune cose, a ragion veduta, ma ne parliamo tra un po’), eppure ho deciso di comprare lo stesso il gioco. Il risultato? L’ho trovato strabiliante.

Ora, di cose che non vanno ce ne stanno parecchie. Dalla grafica distante anni luce dagli standard odierni alla gestione dell’inventario rimasta immutata nel corso dei diversi Elder Scrolls e Fallout, caotica e poco intuitiva, così come accade per il quest tracker che accorpa tutto lasciando giusto la possibilità di raggruppare le missioni per tipologia o fazione (ma con oltre mille pianeti, non era forse il caso di aggiungere un organizer per località?).

Queste, in sintesi, sono le principali cose che non vanno, di cui probabilmente si è discusso ovunque e di cui ha parlato anche qualche Nostradamus prima di poter mettere le mani sul gioco. Eppure, come dicevo, sto trovando Starfield un gioco eccezionale. Mi sono chiesto perché, e questa volta il mio incarnare l’autentico spirito della contraddizione non c’entra nulla: Starfield mi piace come pochi altri giochi perché puoi fare una miriade di cose e io da questo titolo non mi aspettavo proprio nulla.

L’ultimo lancio di Bethesda prosegue a modo suo la piccola rivoluzione avviata da Baldur’s Gate 3: si tratta di un gioco completo, senza microtransazioni o dlc (al netto di future possibili espansioni, ovviamente) e una libertà di movimento infinita. Mi sono ritrovato subito a vivere le stesse vibes che mi hanno regalato i diversi Fallout, di cui ho un bellissimo ricordo e mi sono trovato bene nonostante l’assenza V.A.T.S. (ossia della mira assistita introdotta nel terzo capitolo, poi utilizzata anche in New Vegas, Fallout 4 e Fallout 76), essenziale per chi non è proprio un campione negli sparatutto.

La cosa che più mi piace in questo gioco sono le quest. Sono tantissime, così tante da mettere all’angolo un maniaco del completismo come me. Infatti, se Baldur’s Gate 3 (ormai metro di paragone di ogni titolo videludico) mi ha stordito per la vastità delle mappe, tanto da infastidirmi perché sapevo che mi sarei perso qualcosa, lo stesso non è successo con Starfield: i pianeti, gli avamposti e gli npc sono così tanti che mi sono felicemente arreso all’idea di non poter materialmente esplorare tutto in una sola run (e neanche in due, tre, forse dieci).  

Poi c’è la bella novità della personalizzazione della navicella spaziale: se ne può avere una o un’intera flotta e per ognuna di queste si può modificare ogni singolo pezzo. A questo si aggiunge la possibilità di costruire avamposti negli oltre 1.000 pianeti dislocati nei 100 sistemi solari della mappa. Insomma, una figata pazzesca.

Certo, non è tutto oro quello che luccica: c’è più di qualche elemento che ha fatto storcere la bocca anche ad un outsider come me. La cosa che più mi da fastidio è la gestione dei dialoghi: avviando una conversazione, l’inquadratura passa ad un primo piano dell’npc di riferimento, il quale non si muoverà più di tanto dalla posizione originale. Per farla breve, se avete interagito con un personaggio che era di spalle, è capace che questo vi parlerà senza guardarvi in faccia, che non è il massimo.

Stessa cosa vale per le interazioni dei seguaci, i quali ogni tanto proveranno ad inserirsi nei discorsi avviati dal personaggio con i vari npc, ma il 90% delle volte sono commenti a sé stanti e che non provocano alcuna reazione. Insomma, è come quando l’amico poco simpatico si mette in mezzo e fa una battuta che nessuno capisce e quindi tutti stanno in silenzio facendo finta di nulla. Il gelo.

Male anche la realizzazione degli npc privi di interazioni che popolano il mondo: sembra che sia stato fatto copia e incolla su una decina di modelli e che le varie città siano abitate da un’infinità di fratelli gemelli, oltretutto vestiti uguali. Su questo bisogna chiudere un occhio o si rischia di spegnere il pc o la console.

Pecche inaccettabili da un gioco così tanto atteso, ma se non ci si aspetta nulla non è un problema passarci sopra. Anche la tanto citata “ripetitività” dei pianeti è stata criticata forse ingiustamente: non è vero che gli ambienti sono tutti uguali. Anche le lune, prive di vegetazione e fauna, presentano differenze tra loro (e ho girato già parecchi sistemi). Sulla presenza di insediamenti nemici estranei a quest (ossia i mini dungeons) è vero, vige ancora la ricetta Bethesda che abbiamo tutti quanti sperimentato per anni sia negli Elder Scrolls che nei Fallout: si trova la base nemica dove ci sono pirati spaziali, contrabbandieri o un’invasione di insettoidi alieni, la si ripulisce e si torna a casa con il bottino generato casualmente. E che male c’è, soprattutto vista l’enorme mole di quest che ci si trova a dover affrontare, già alle prime ore di gioco?

In conclusione, Starfield è un titolo da consigliare assolutamente a tutti gli amanti del genere che hanno voglia di esplorare, di immergersi in un viaggio planetario in cui le scelte contano, in cui l’azione frenetica si alterna con meritati momenti di pausa ad esplorare pianeti nascosti o a modificare e migliorare la propria nave, oppure a riposarsi nel proprio rifugio costruito con tanto sudore.

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La storia di Mortal Kombat: ascesa, declino e redenzione

Da pochi giorni è finalmente disponibile Mortal Kombat 1, dodicesimo episodio della celeberrima saga di NetheRealm Studios. Per celebrare l’occasione abbiamo deciso di proporvi un piccolo viaggio nel tempo, alla riscoperta dei primi episodi di questa pluricelebrata serie.

Questi titoli, usciti originariamente in versione arcade e convertiti per praticamente tutti i sistemi dell’epoca, sono stati gli artefici del successo di Mortal Kombat e della nascita della sua leggendaria eredità. Recuperiamo una manciata di gettoni e prepariamoci a riscoprire le origini di uno dei dominatori assoluti del genere dei picchiaduro. Fight!

Mortal Kombat: il primo mitico episodio

Il Mortal Kombat originale vide la luce nel 1992 in versione arcade ad opera di Midway Games. In quel periodo il panorama dei giochi da sala era quasi interamente dominato dal leggendario Street Fighter 2 di Capcom. Anche il solo pensare di competere con quel titolo sembrava pura follia.

Eppure Midway riuscì nell’impresa, dal momento che il suo picchiaduro si rivelò un successo planetario, divenendo uno dei cabinati più giocati in assoluto. Come se non bastasse, nel corso del 1993, arrivò su praticamente ogni sistema di gioco esistente, comprese le console portatili Gameboy e Game Gear.

Gli ingredienti del successo furono molteplici. Anzitutto l’utilizzo della grafica digitalizzata, novità assoluta per quei tempi. Midway infatti assoldò un team di attori le cui movenze vennero trasposte direttamente in forma digitale. I videogiocatori ebbero davvero l’impressione di trovarsi di fronte ad un film di arti marziali interattivo.

La trama del gioco inoltre era davvero avvincente e veniva sviscerata nei dettagli nell’intro di gioco e nei finali dei personaggi. Fulcro della storia era il Mortal Kombat, torneo interdimensionale utilizzato dall’Outworld per impossessarsi degli altri regni. I guerrieri della terra, guidate dal Dio del tuono Raiden, hanno il compito di sconfiggere lo stregone Shang Tsung e i suoi guerrieri per salvare la terra dalla conquista.

I personaggi del gioco erano tutti ben caratterizzati, sia visivamente che per quanto riguarda il loro background. Ad entrare nel cuore dei videogiocatori più di ogni altro furono però i due ninja, Sub-Zero e Scorpion, che divennero ben presto le due figure più iconiche della saga.

Per quanto riguarda il gameplay, Mortal Kombat proponeva un sistema a cinque tasti: due pugni, due calci e una parata. Gli attacchi base dei personaggi tendevano ad essere molto simili ed erano le mosse speciali a differenziare in maniera significativa i vari lottatori. Rispetto a Street Fighrer 2 il gameplay era sicuramente meno profondo, ma dannatamente divertente, intuitivo e dinamico: seppe far breccia nell’animo dei giocatori.

Naturalmente, l’ultimo ingrediente del successo di Mortal Kombat fu la sua incredibile violenza. Durante gli scontri, infatti, ogni colpo andato a segno avrebbe causato copiosi spruzzi di liquido rosso dal corpo del nostro avversario. Come se ciò non bastasse, al termine dello scontro, dopo l’apparizione dell’iconica scritta “Finish Him!”, il giocatore avrebbe avuto la possibilità di eseguire le celeberrime fatality: mosse finali, attivabili tramite combinazione, che causavano l’uccisione dell’avversario, spesso in modi davvero spettacolari e brutali.

Mortal Kombat II: un sequel leggendario

Nonostante l’incredibile successo del primo capitolo, Midway non rimase a dormire sugli allori. Già nel corso dell’anno successivo, il 1993, fece la sua apparizione nelle sale giochi di tutto il mondo Mortal Kombat II.

Ambientato interamente nel regno di Outworld, Mortal Kombat 2 introdusse Shao Kahn, imperatore di Altromondo e nuovo antagonista del gioco. Ancora una volta, i guerrieri della terra erano chiamati a difendere il loro mondo attraverso il Mortal Kombat, con l’ulteriore svantaggio di combattere in territorio nemico.

Mortal Kombat 2 non introdusse nessun elemento particolarmente innovativo a livello di gameplay, ma si limitò a potenziare e migliorare ogni singolo aspetto del gioco originale. La grafica, il sonoro, il numero dei lottatori selezionabili, persino la complessità della trama. Ogni singolo elemento di Mortal Kombat 2 ampliava e perfezionava il suo predecessore.

Unica novità davvero degna di nota era la netta accellerazione del ritmo di gioco, che rendeva MK2 molto più veloce e frenetico del suo predecessore. Il gioco introdusse anche un maggior numero di fatality per personaggio, oltre alle babality (con cui potevamo tramutare l’avversario in un bambino) e le friendship (simpatici scherzi che deridevano l’avversario anzichè ucciderlo).

Tutti questi elementi fecero di Mortal Kombat II un successo planetario, apprezzato dalla quasi totalità dei giocatori e convertito ancora una volta per ogni sistema casalingo esistente. Il gioco è tuttora considerato uno dei picchiaduro più famosi ed influenti di sempre.

Unico neo del gioco era costituito dalla sua terribile difficoltà, dovuta anche ad una CPU programmata in modo davvero perfido. Oltre ad imbrogliare sui frame delle mosse, infatti, il computer era anche in grado di “leggere” in anticipo i comandi inseriti dal giocatore, in modo da anticiparli. L’unica maniera davvero efficace per contrastare la CPU era imparare a sfruttare i suoi pattern preimpostati. Così facendo il giocatore aveva la possibilità di anticipare a sua volta le azioni nemiche. Un esempio pratico era l’utilizzo del salto all’indietro che, da una certa distanza, spingeva sempre il computer a saltare a sua volta, esponendosi agli attacchi.

Mortal Kombat 3: un’eredità pesante

Mortal Kombat 3

Dopo Mortal Kombat 2 passarono due interi anni prima che Midway decidesse di riproporre il suo cavallo di battaglia. Nel frattempo, il mondo dei videogiochi cambiò profondamente. Le console a 16 bit vennero pian piano soppiantate dalle più prestanti 32 bit, come il Sega Saturn e la prima mitica Playstation.

Anche il genere dei picchiaduro, mietitore assoluto dei primi anni 90, stava cambiando rapidamente. Titoli come Virtua Fighter e Tekken avevano letteralmente stregato i videogiocatori, attratti dal fascino dei nuovi giochi in 3D. Nonostante il clima difficile, nell’aprile del 1995 Mortal Kombat 3 invase le sale giochi di tutto il mondo, riuscendo di nuovo ad ottenere un ottimo successo.

Questo terzo episodio presentava toni ed atmosfere ancora più oscure ed opprimenti rispetto ai suoi predecessori. Il malvagio Shao Kahn stavolta decide di aggirare il Mortal Kombat, invadendo direttamente il pianeta terra. Di conseguenza, gli stages di MK3 presentano scenari presi sia da Outworl sia da una terra sull’orlo della catastrofe.

Rispetto ai predecessori, Mortal Kombat 3 pigiava ancora di più sull’accelleratore, con un gameplay ancora più forsennato e veloce. L’aggiunta delle combo e del pulsante della corsa aumentava ulteriormente la frenesia degli scontri e i riflessi dei giocatori dovevano essere più che buoni per ottenere risultati accettabili.

Anche il comparto grafico e il sonoro del gioco migliorarono ulteriormente rispetto al secondo capitolo, sebbene le tecniche di digitalizzazione risultassero ormai superate. Naturalmente fecero il loro ritorno le mitiche fatality, accompagnate dalle babality, dalle friendship e dalle nuovissime animality. Queste ultime vedevano il nostro combattente tramutarsi in una vera e propria belva, che in alcuni casi sbranava interamente l’avversario.

Pur ricevendo una buona accoglienza, Mortal Kombat 3 non riuscì a conquistare interamente il pubblico, soprattutto a causa di un roster piuttosto bislacco che inseriva un enorme numero di new entry, a volte non proprio azzeccate e andava ad escludere lottatori leggendari come Scorpion, Raiden e Kitana.

Per ovviare a questo difetto l’anno successivo Midway pubblicò due nuove versioni del gioco, Ultimate Mortal Kombat 3 e Mortal Kombat Trilogy, che andarono ad espandere in modo molto significativo il roster, lasciando praticamente inalterato il gioco.

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Una transizione difficile

Nel 1997 Midway decise che era giunto il momento anche per Mortal Kombat di passare alla terza dimensione. Ecco dunque arrivare Mortal Kombat 4, primo titolo della saga a proporre una grafica interamente in 3D.

Mortal Kombat 4 introdusse Shinnok, letale divinità anziana nemica di Raiden, evaso dal Netherrealm per invadere la terra. Toccherà di nuovo a Raiden e ai suoi guerrieri sconfiggerlo e porre fine alla sua minaccia. Queste premesse permisero ai programmatori di proporre un cast davvero ben assortito, con quasi tutti i volti storici della saga affiancati da alcune new entry davvero interessanti.

Le novità introdotte da Mortal Kombat 4 erano davvero molte. I personaggi avevano la possibilità di estrarre un’arma tramite particolari sequenze e di sfruttarla temporaneamente. In più, all’interno degli stages erano presenti diversi elementi interattivi, che potevano essere raccolti ed utilizzati come strumenti offensivi. Inoltre, i personaggi avevano la facoltà di muoversi in profondità per effettuare particolari schivate, sebbene gli scontri restassero confinati su un’asse orizzontale.

Nonostante tutte queste innovazioni, Mortal Kombat 4 non riuscì a far breccia nei cuori dei giocatori. Questo insuccesso fu anzitutto dovuto ai controlli, piuttosto legnosi e non sempre rispondenti. Inoltre, pur presentando una grafica interamente poligonale, Mortal Kombat 4 restava saldamente ancorato ai canoni dei giochi di combattimento 2D: questa situazione creò una sorta di ibrido che non seppe accontentare pienamente né i fan dei picchiaduro in 3D né gli amanti dei classici giochi bidimensionali.

Un lungo percorso di redenzione

Dopo Mortal Kombat 4 la saga iniziò un lungo periodo di sperimentazione. I giochi che si susseguirono nel corso degli anni, infatti, pur presentando una qualità più che discreta e diverse interessanti innovazioni, non seppero raggiungere i fasti degli episodi originali.

Questo almeno fino al 2011, data di uscita di Mortal Kombat, nono episodio della saga. Questo titolo, uscito per PS3, Xbox 360 e PC, propose un vero e proprio reboot della saga. Grazie ad una serie di viaggi del tempo, infatti, la timeline di Mortal Kombat venne riscritta, annullando tutti gli eventi successivi a Mortal Kombat 3.

Anche il gameplay venne profondamente rinnovato e migliorato, regalando un picchiaduro divertente, profondo e godibile. Il successo del nuovo Mortal Kombat permise alla saga di vivere una vera e propria seconda giovinezza, grazie ad una nuova serie di giochi dalla qualità davvero eccelsa.

Infine, il punto più alto della saga è stato raggiunto dal meraviglioso Mortal Kombat 11, uno dei migliori picchiaduro di sempre. Vedremo se Mortal Kombat 1 saprà essere all’altezza di questi grandi picchiaduro.

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Editoriali

Sullo stato dell’arte dell’industria videoludica: Limbo e To The Moon

Nel panorama dei videogiochi indie esistono prodotti che hanno la potenzialità di veicolare dei concetti piuttosto importanti ai loro fruitori, soprattutto a quelli più predisposti a coglierne il significato. Tra i tanti, due importanti esempi di questo trend sono  “Limbo”, sviluppato da Playdead (2010), e “To the Moon”, di Freebird Games (2011). Entrambi sono giochi indie in single-player di breve durata, ed entrambi hanno avuto un ruolo importante nel mercato indipendente con attestati di stima e amore da parte di addetti al lavoro ed appassionati di gaming, diventando parte importante del medium videoludico stesso.

Fra tutti ho scelto Limbo e To the Moon perché mi sono sono rimasti nel cuore, giungendo dentro di me in maniera differente e restando memorabili anche dopo tutti questi anni a dimostrazione che con pochi mezzi è possibile brillare di luce propria, rimanendo impressi nella memoria del videogiocatore.

Limbo è un puzzle-platform in 2D privo di dialoghi con altri NPC, senza una narrazione testuale o vocale, né il classico tutorial didascalico, ed è privo di HUD; lo stile di gioco è un “prova e muori”, con il frequente susseguirsi di enigmi e trappole di ogni tipo. Tecnicamente parlando, Limbo, gira su un motore grafico proprietario, leggero e adatto al contesto; un perenne bianco e nero, con giochi di luci e ombre molto suggestivi, in grado di donare all’intera esperienza un’atmosfera surreale.

Il protagonista è un ragazzino finito in un mondo oscuro; all’inizio lo vediamo steso sul terreno e tocca a noi svegliarlo, interagendo con i tasti. Questo gioco non è rivoluzionario, ma elegante e ricercato esteticamente, intelligente ed accattivante nelle sue meccaniche, con una narrazione visiva che ci guida in un quasi totale silenzio. Alcuni nemici si possono eliminare interagendo con l’ambiente circostante, mentre altri andranno schivati per poter andare avanti e scontrarsi con i vari enigmi da risolvere.

Limbo
Limbo

To the Moon, è realizzato con RPG maker, difatti a vederlo ha l’aspetto di un classico gioco di ruolo anni ’90, privo però di alcuni elementi rpg più caratteristici, come il livello di progressione dei personaggi. Qui troviamo una grafica colorata, una narrazione che avviene tramite i tanti testi su schermo, fatti di dialoghi e descrizioni varie, con musiche che sanno toccare il cuore; il gameplay è ridotto all’osso, quasi ai livelli di una visual novel, se non per qualche minigioco e puzzle, che di tanto in tanto veicola la profonda e toccante trama.

Questo titolo vive di una trama toccante e piena di sentimenti. Il gioco ci mette nei panni di 2 dottori, Eva Rosalene e Neil Watts, dipendenti della “Sigmund Agency of Life Generation”. Quest’azienda, tramite l’impianto di ricordi artificiali, aiuta i pazienti in fin di vita ad avere una morte più serena, eliminando i loro rimpianti, ed esaudendo (in un certo senso), i desideri più importanti, quelli magari durati una vita

To The Moon
To The Moon

Less is more

I giochi indie sono sviluppati solitamente da piccoli studi indipendenti, che (spesso) non hanno l’aiuto economico di un editore, ma questo può voler dire anche avere meno vincoli e sentirsi più liberi di esprimere maggiormente la propria autorialità. Ciò che mi viene da pensare è che non è detto ci sia sempre l’intenzione conscia di veicolare un certo tipo di messaggio, ma ciò non vuol dire che esso stesso non si crei ugualmente durante lo sviluppo e che quindi poi giunga comunque al giocatore.

Parlando di cinema, un’opinione che mi è capitato di sentire sui film di Christopher Nolan, è che quando lui ha realizzato film con meno budget a disposizione, senza l’utilizzo di troppi effetti speciali e dovendo quindi mettere mano di più al cuore della pellicola stessa, è riuscito a realizzare opere che, secondo una parte della critica, son state complessivamente migliori di altre sue, magari più titolate e di maggior successo ai botteghini.

Il mio parallelismo richiama, tornando in ambito videoludico, la differenza tra alcune produzioni di grosse software house tripla A e quelle degli sviluppatori di giochi indie (entrambe le categorie hanno sia ottimi prodotti che mediocri, non dimenticandoci che poi esistono anche produzioni che si trovano nel mezzo), che non avendo tutta questa disponibilità di mezzi, sono anche più costretti a lavorare di più all’anima del videogioco stesso.

In queste condizioni possono riuscire a superare questi limiti, per far sì che essi diventino orizzonti da raggiungere e superare. Può capitare così, che possa venir fuori un’esperienza più immersiva, dando più spazio a trama e caratterizzazione, fornendo quel tocco artistico che passa anche da un’estetica più o meno ricercata. A livello di storie, concetti, è sempre più difficile tirar fuori qualcosa di nuovo ed originale, ma la differenza sta nel modo in cui le idee, anche le più usate, vengono rielaborate.

Conclusione

I due giochi protagonisti di questo articolo, insieme ad altri di cui magari vi parlerò in futuro, sono piccoli grandi gioielli, opere d’arte in miniatura, che fanno bene ad un’industria videoludica che ha, in generale, un po’ paura di sperimentare e di proporre qualcosa di diverso e nuovo, che abbia più anima, originalità e meno ripetitività.

Ritengo comunque che l’industria videoludica stia vivendo un periodo storico abbastanza positivo. I ragazzi di oggi sono in grado di apprezzare anche titoli retrò o comunque giochi nuovi realizzati appositamente così (anche remastered e remake possono aiutare, in certi casi), capendo così che non sempre serve la grafica pompata per divertirsi, ma che intrattenimento, sfida ed emozioni, possono essere ovunque.

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Recensioni

Immortals of Aveum – Recensione

L’uscita di Immortals of Aveum, verso la fine di agosto, è indubbiamente passata un po’ in sordina. Il gioco, infatti, non ha goduto di una campagna pubblicitaria particolarmente efficace. Inoltre l’essere uscito in concomitanza con giochi davvero di primo piano, come Baldur’s Gate 3 (di cui abbiamo già parlato sul blog) non ha certamente giovato alla causa di Immortals of Aveum.

Tuttavia, fin dalle prime immagini mostrate, lo sparatutto targato Ascendant Studios e Electronics Arts è riuscito a catturare la nostra attenzione. Questo soprattutto in virtù della sua natura ibrida, a metà strada tra uno sparatutto ed un’avventura.

In questa recensione passeremo al microscopio Immortals per mettere in mostra pregi e difetti di questo particolarissimo titolo. Recuperiamo il nostro equipaggiamento magico e lanciamoci all’esplorazione del mondo di Aveum!

Nelle terre di Aveum

Immortals of Aveum: magia rossa

Come facilmente intuibile dal titolo, Immortals è ambientato nel mondo magico di Aveum. Quest’ultimo è formato da cinque regni distinti, con al centro un’enorme voragine magica chiamata Lo Squarcio. Da millenni i cinque regni sono falcidiati da un conflitto per il controllo della magia, denominata Sempiguerra, che ha di fatto ridotto le forze in gioco ai soli regni di Lucium e Rasharn.

Protagonista assoluto di Immortals of Aveum è Jak, giovane abitante della periferia di Seren, nell’enorme città di Lucium. In seguito all’uccisione dei suoi cari a causa di un attacco del regno di Rasharn, ora guidato dal tiranno Sandrakk, Jak scoprirà di essere un Advenuto, ovvero un essere umano in cui si manifestano poteri magici. Questo porterà il nostro protagonista a venire arruolato dalla Gran Magus Kirkan, leader degli Immortali, l’esercito magico protettore di Lucium. Inizia così la missione di Jak per risolvere una volta per tutte i conflitti che devastano Aveum e comprendere fino in fondo i suoi poteri.

La trama di Immortals, pur non brillando per originalità, si presenta interessante e abbastanza coinvolgente. il mondo di Aveum è ben caratterizzato e ricco di dettagli e i personaggi che incontriamo godono quasi sempre di una buona caratterizzazione. Mi limito a citare Zendara, una delle comandanti degli immortali, davvero carismatica e a tratti spassosa con le sue battute.

La trama di Immortals ci terrà compagnia per circa 13 ore, che potranno essere almeno raddoppiate qualora il giocatore decidesse di dedicarsi a tutte le prove secondarie e all’esplorazione di ogni area di Aveum. Non si tratta di una longevità particolarmente elevata, ma l’abbiamo trovata adeguata ad un titolo di questo tipo.

Uno sparatutto avventuroso

Immortals of Aveum: magia blu

L’aspetto di Immortals of Aveum che maggiormente colpisce è costituito proprio dal suo gameplay. Il titolo di Ascendant infatti si presenta come un mix piuttosto ben riuscito tra un FPS ed una classica avventura action. Il gioco si svolge in prima persona ed ha il suo fulcro, oltre che nell’esplorazione, nei numerosi combattimenti che affronteremo. Naturalmente, nel corso di queste battaglie, non abbiamo a disposizione armi da fuoco o da lancio, ma tutta una serie di artefatti magici, coi quali scatenare una serie di devastanti attacchi contro i malcapitati nemici.

Tuttavia, in Immortals rivestono un ruolo molto importante anche l’esplorazione dell’ambiente e gli enigmi. Per progredire nell’avventura, infatti, occorre guardarsi sempre attorno con attenzione, dal momento che spesso e volentieri la chiave per aprire la strada consiste nell’interagire con l’ambiente utilizzando uno degli incantesimi a nostra disposizione. Per esempio, alcuni degli elementi dell’ambientazione possono essere modificati dalla magia verde, mentre alcuni trabocchetti vengono rallentati dalle nostre fide ampolle temporali.

A differenza della miriade di sparatutto presenti sul mercato, Immortals of Aveum è completamente dedicato single player (ad oggi è completamente assente una modalità multiplayer nel gioco), proprio per valorizzare al massimo la sua doppia natura di shooter e avventura.

Tre colori per domarli tutti

Immortals of Aveum: magia verde

Nel mondo di Aveum, la magia si manifesta attraverso tre colori principali. Il rosso, che rappresenta entropia e violenza, il blu, che incarna forza e manipolazione fisica della materia ed infine il verde, legato a crescita morte e transizione. Jak durante la trama, scopre di essere un Triarca Magnus, ovvero un mago in grado di utilizzare la magia di tutti e tre i colori.

Attraverso il bracciale di Jak, il giocatore ha la possibilità di passare da un colore all’altro con la semplice pressione del tasto triangolo. Ognuno dei tre colori si adatta meglio ad una determinata situazione; nello specifico: il rosso è pensato per il combattimento ravvicinato, il blu per la distanza e il verde per il fuoco ripetuto. Sebbene spesso i nemici presentino debolezze specifiche per un colore, il giocatore ha la possibilità di privilegiare l’uno o l’altro in base al suo stile di gioco.

Gli scontri in Immortals sono davvero frenetici e spettacolari e ricordano molto le dinamiche dei cari vecchi sparatutto arena. Il giocatore deve restare sempre in movimento, fare attenzione a dove si trova e contemporaneamente gestire al meglio le sue risorse offensive per riuscire ad aver ragione della miriade di avversari che si trova via via ad affrontare.

Il tutto risulta davvero piacevole e divertente e gli scontri raramente diventano troppo punitivi e frustranti. Unica nota un po’ stonata sono le boss battle, un po’ troppo sempliciotte e ripetitive.

Incantesimi per tutte le occasioni

Oltre agli incantesimi di attacco, Jak dispone anche di varie abilità magiche di supporto. Queste abilità sono davvero molte e hanno un’ottima varietà di effetti. Abbiamo anzitutto a disposizione quattro artefatti magici, il primo dei quali è una frusta magica, utile sia per attirare i nemici che per arpionare alcuni specifici punti dello scenario. Abbiamo poi uno scudo di energia, capace di proteggerci da un numero limitato di attacchi nemici, una sorta di lente magica, utile per paralizzare alcuni nemici e soprattutto risolvere alcuni enigmi a base di raggi luminosi ed infine le pietre verdi, capaci di rallentare nemici e trappole.

Jak apprenderà inoltre una serie di abilità automatiche, tra cui la possibilità di levitare per brevi tratti, di appendersi ai flussi magici che attraversano Aveum e di generare un potentissimo raggio in grado di convogliare l’energia di tutti e tre i colori. Le varie abilità possono essere potenziate tramite una sorta di diagramma, che andrà a riempirsi attraverso una serie di pietre magiche. Queste pietre vengono raccolte da Jak dopo ogni battaglia.

In Immortals non esistono punti esperienza e level up. Il potenziamento di Jak avviene unicamente attraverso il suo equipaggiamento. Oltre ai tre bracciali, che possono essere creati e potenziati attraverso una serie di fucine, il nostro protagonista potrà essere equipaggiato anche con diversi anelli e potenziamenti magici. Ognuno di questi oggetti andrà a migliorare un diverso parametro di Jak.

Quindi, pur senza mostrare la profondità e ricchezza di uno strategico o di un gioco di ruolo, Immortals of Aveum presenta anche alcuni elementi tipici di un gestionale, che rendono l’esperienza più varia ed interessante.

Una festa per gli occhi

L’aspetto di Immortals of Aveum che maggiormente colpisce è senza dubbio il comparto grafico. L’Unreal Engine 5 fa davvero un ottimo lavoro e regala al giocatore ambientazioni davvero meravigliose, ben caratterizzate e ricche di particolari.

Anche i personaggi ed i nemici risultano ottimamente realizzati e dotati di un set di animazioni davvero fluide e credibili. Il gioco mostra il meglio di se durante i filmati di intermezzo, che su PS5 sfoggiano una risoluzione davvero altissima, anche se abbiamo notato un evidente calo di frame in alcune sequenze più brevi. Piuttosto anonima invece la colonna sonora, che presenta una serie di tracce non troppo ispirate ed anche un tantino ripetitive.

Conclusione

Immortals of Aveum si è rivelato davvero una gradevole sorpresa. Intendiamoci, non si tratta certamente di un capolavoro, ma il comparto grafico di primo piano, l’immediatezza dei controlli e la particolare natura del suo gameplay rendono lo sparatutto di Ascendant Studios un’esperienza davvero divertente e coinvolgente.

Unico vero difetto di Immortals è la sua longevità un po’ limitata, che tuttavia non va a intaccareil divertimento offerto da questa particolare avventura.

Consigliato sia agli amanti degli FPS che a tutti coloro che cercano un avventura immediata e non troppo lunga.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S/X, PC
  • Data uscita: 22/08/2023
  • Prezzo: 79,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su PlayStation 5 grazie a un codice fornito dal publisher.

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Editoriali

Starfield e Mass Effect: confronto tra videogiochi di ruolo spaziali

È arrivato il momento: dal 6 settembre finalmente ci siamo avventurati nel nuovo universo Bethesda, quello di Starfield che tanto aspettavamo. Man mano andando avanti nel gioco, scopriremo se l’hype altissimo che si è creato attorno al gioco avrà avuto senso. In questo articolo, però vogliamo rispondere a un’altra domanda: Starfield è il gioco di ruolo ambientato nello spazio definitivo? Per farlo, abbiamo messo a confronto Starfield con una trilogia epica simile per ambientazione: Mass Effect.

Caratteristiche di Starfield

Dopo le prime ore di gioco su Starfield, le differenze tra l’opera di Bethesda e Mass Effect sono state sin da subito evidenti, sia a livello di gameplay che di narrazione. Starfield, ovviamente, si basa su un motore grafico avanzato ma anche su una fisica accurata che rendono l’ambiente spaziale credibile ma soprattutto dinamico.

Il giocatore può viaggiare ed atterrare su circa un migliaio di pianeti (queste le cifre comunicate più o meno ufficialmente), esplorarli liberamente a piedi o con veicoli ed interagire con la flora e fauna locale, a volte ostile, a volte no, tramite lo scanner oltre che con gli abitanti in loco.

Per poter viaggiare nello spazio è necessario che l’utente modifichi a proprio vantaggio le caratteristiche della nave per dare più energia agli scudi piuttosto che al salto gravitazionale in caso di scontro e viceversa ad esempio. Una volta attraccato poi, in un porto interspaziale, sarà possibile acquistare modifiche per la propria nave potenziandola o comprarne una completamente nuova.

La storia non ha una trama lineare ma lascia al giocatore la possibilità di creare il proprio personaggio e la propria storia secondo le sue inclinazioni morali ed etiche.

Allo stato attuale ad esempio, mi trovo ad essere un pilota dell’Avanguardia della UC, Unione Coloniale, pronto a difendere i perimetri delle città protette dalla UC con la mia nave che purtroppo ancora è una “Suzuka baracca” di Aldo, Giovanni e giacomiana memoria. Non è ancora all’altezza di poter affrontare scontri a fuoco complessi. Ma tranquillamente sarei potuto essere un pirata spaziale che invece la UC la combatte per intenderci. Il tutto fermo restando la trama principale che, al momento, resta difficile seguire viste le numerose missioni secondarie che pullulano l’universo di Starfield.

Caratteristiche di Mass Effect

Le opere di BioWare (Recensione Mass Effect Legendary Edition) compongono una celebre saga spaziale iniziata nel 2007 e conclusasi nel 2017 con Mass Effect Andromeda. La storia ha come protagonista il comandante Shepard, a capo di un cast di personaggi memorabili e con una trama avvincente e ramificata.

La serie di Mass Effect si può collocare tra i “GDR anomali”. Sin partendo dal primo capitolo, Bioware ha si mantenuto le caratteristiche narrative tipiche di un GDR ma nel contempo ha reso gli scontri a fuoco più simili ad un Gear of War per intenderci. Anche la visuale è la stessa, parliamo della terza persona. Inoltre il nostro protagonista potrà, come in ogni classico GDR che si rispetti, scegliere la propria squadra prima di ogni missione.

Con il secondo capitolo, nonostante Bioware avesse da poco rilasciato Dragon Age: Origin, uno tra i GDR più classicamente intesi, continua nell’opera di rinnovamento del genere con un gameplay più orientato al combattimento ed al dialogo.

Nel terzo capitolo, Mass Effect 3, il gioco è ancora più spiccatamente una commistione di generi, dallo sparatutto in terza persona, al gioco di ruolo di tipo occidentale passando per l’avventura grafica con enigmi da risolvere. e questa caratteristica lascia intuire l’enorme lavoro svolto dagli sviluppatori teso a rendere la saga un’epopea, di carattere epico.

Infine: Mass Effect Andromeda, spin off del 2017 della serie, ambientata 600 anni dopo gli eventi narrati nella trilogia, Bioware si lascia scappare di mano durante la ricerca di riconquistare il proprio pubblico che aveva storto il naso per i finali un pò arrangiati del secondo e del terzo capitolo; infatti, gli sviluppatori si lasciano andare ad una massificazione del genere rendendolo più che altro uno sparatutto, oltre al fatto, ben più grave, che in Andromeda non sono presenti la maggior parte delle risposte alle conseguenze delle azioni del comandante Shepard compiute nella trilogia.

Personalmente, dell’intera saga mi è piaciuta particolarmente la forte componente emotiva e relazionale che permette di interagire coi propri compagni di squadra oltre che instaurare rapporti di amicizia ed amore, prendendo, spesso, delle decisioni morali difficili.

Prendiamo ad esempio la Missione suicida del secondo capitolo, dove le scelte del giocatore influenzano addirittura con quali personaggio continuare l’avventura e quali sacrificare; insomma un gioco di ruolo coi fiocchi nella maggior parte dei casi che però rimane troppo legato alla trama principale secondo me, nonostante alcune scelte modifichino pesantemente e permanentemente la narrazione, come già accennato.

Punti di contatto

Le analogie tra i due titoli sono perlopiù legate al genere e al tema. Sia Starfield che Mass Effect sono dei GDR spaziali che offrono al giocatore la possibilità di vivere fantastiche avventure in ricchi e variegati mondi sconosciuti, incontrando personaggi incredibili e tenendo incollati a schermo i videogiocatori per ore.

In comune poi hanno una forte componente sci-fi che si riflette nell’aspetto tecnologico e nelle varie razze aliene incontrate.

Sia il titolo Bethesda che quello Bioware hanno una forte componente artistica che si esprime nella colonna sonora e nel design dei personaggi e delle ambientazioni. Pensate che per l’uscita di Starfield, Bethesda ha addirittura collaborato con la band statunitense Imagine Dragons che ha composto una canzone dedicata al gioco.

Infine, entrambi concentrano le proprie forse sulla sfida, sulla scoperta e sul combattimento.

Conclusioni

Starfield non è Mass Effect e viceversa. I puristi dei GDR probabilmente si troveranno più a proprio agio con Starfield dovendo scegliere una moltitudine di aspetti durante il gioco, persino il tipo di lavoro del personaggio ma soprattutto in che modo vivere la propria vita e in che modo essere percepiti dagli altri. Fondamentalmente quello che mi è piaciuto del gioco, almeno per quanto ho giocato finora, è proprio questa libertà data al giocatore di scegliere chi essere, che comportamenti adottare, creare la propria storia in definitiva.

In Mass Effect, il personaggio è già un eroe, riconosciuto da molti come tale, che per quanto possa effettuare determinate scelte morali o immorali, impopolari o no, la trama segue comunque una direzione lineare modificandosi in base alle scelte del giocatore ma non creandola da zero. Benchè, come accennato nel corso dell’articolo, la storia dell’intera saga, sia una delle più belle del panorama videoludico mai scritte.

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Editoriali

I Virtual Tabletop trasformano il gioco di ruolo in videogame?

O è carne, o è pesce. Poi ci sono io (e sicuramente anche qualcun altro lì fuori) a cui le combinazioni piacciono, e anche tanto. L’importante è che siano fatte bene. Il problema è che, quando hai questi gusti, potresti rischiare di ritrovarti a mangiare da solo. È quello che sta accadendo nell’ultimo periodo al mondo dei giochi di ruolo. In particolare, parliamo dei giochi di ruolo cartacei, fatti di manuali, set di dadi, battlemaps, miniature e soprattutto una smisurata dose di fantasia.

Questo settore da sempre strizza l’occhio al comparto videoludico: basti guardare a Baldur’s Gate, titolo che si impone come il migliore adattamento di Dungeons & Dragons per PC e console fin dal primo titolo della saga. Poi c’è il tanto osannato quanto criticato Cyberpunk 2077, figlio di Cyberpunk 2020 e Cyberpunk Red. E la lista potrebbe andare avanti per ore.

Parlando di titoli come questi, la differenza tra il mondo del gdr cartaceo e quello videoludico è ancora estremamente netta e percepibile. Sono, come detto, degli adattamenti. Poi ci sono dei nuovi sistemi (che in realtà tanto nuovi non sono) che vogliono veramente unire le due realtà: parliamo delle Virtual Tabletop.

Virtual Tabletop

Chi è nel giro ha sicuramente provato o almeno sentito parlare di Roll 20 e Foundry VTT, per citare due delle piattaforme più famose. Per chi non le conoscesse, si tratta di app per PC che permettono al Game Master di creare scene, schede di giocatori, npc e mostri. Il master inoltre può inserire musiche; filmati; mappe di ambientazioni o battlemaps per i combattimenti. E questa è solo la base, perché si possono aggiungere add-on per rendere i combattimenti animati, oppure fare in modo che un personaggio, muovendosi con il proprio token in un determinato punto della scena, attivi una trappola i cui danni e malus vengono automaticamente registrati sulla sua scheda. Il tutto condito da una serie di effetti visivi e sonori che permettono al giocatore di capire immediatamente cosa è appena accaduto.

Ed  è proprio qui che le due realtà si mescolano diventando una cosa sola. Infatti, se si ha la possibilità di sostituire la dettagliata descrizione fornita da un game master, cuore del mondo “gdristico”, con effetti palesemente appartenenti al comparto videoludico, dov’è che finisce il gioco di ruolo dal vivo e inizia il videogame?

Virtual Tabletop: Foundry

Ora bisogna essere sinceri: forse è una domanda che si pongono solo in pochi, ma, come accade per ogni cosa, è giusto farsela. Gli artisti si chiedono se le intelligenze artificiali potranno mai un giorno cancellare la loro professione (spoiler: no). Chi ama i gdr e i videogiochi è giusto che si interroghi su qual è la strada che stanno prendendo i due settori. Soprattutto dopo la pandemia, periodo in cui chi era abituato a ritrovarsi al tavolo con gli amici per una sessione di D&D e affini ha dovuto cercare delle alternative valide.

Il boom delle VTT (Virtual Tabletop) è arrivato proprio in quel momento, ma esse esistevano già prima e hanno continuato ad affermarsi con prepotenza anche dopo, al punto che è difficile trovare oggi un ruolista che non abbia mai partecipato ad almeno una sessione davanti ad uno schermo, connesso con gli amici su Discord mentre il monitor era piantato su Roll 20, Foundry e chi più ne ha, più ne metta.

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Le evoluzioni digitali dei giochi da tavolo

Tornando al discorso iniziale: rendere un gdr dal vivo sempre più simile ad un videogioco è un male? Assolutamente no, per diversi motivi. Il primo è che c’è sempre il sacrosanto diritto alla scelta: nessuno impone l’utilizzo di questi strumenti. E ciò è tutt’altro che scontato, visto che le regole del gioco le fanno i produttori, spesso contestati per le scelte editoriali. Si può giocare al tavolo, al pc, o addirittura in entrambe le modalità alternandole.

Secondo: le piattaforme sono aperte, libere e vengono disegnate dai giocatori affinché si adattino meglio al loro stile di gioco. Se a qualcuno dà fastidio snaturare il gdr puro può comunque farsi un paio di ore di sessione la sera sulle VTT, magari con amici lontani, utilizzando lo scheletro delle piattaforme senza riempirle di addon che le renderebbero sempre più un videogioco anziché un gioco di ruolo dal vivo.

È l’algoritmo dei nostri tempi: le possibilità aumentano e gli strumenti sono sempre più multimediali, ma fortunatamente possiamo utilizzarli un po’ come ci pare. E meno male.

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Editoriali

Bethesda: i migliori videogiochi di Todd Howard

Così come i libri, i film, le serie TV e tutte le altre forme d’arte, anche il mondo dei videogiochi è fatto da artisti: professionisti che con il proprio ingegno creano opere che saranno ricordate nella storia. Uno di questi, classe 1970, è Todd Andrew Howard, attualmente executive producer di Bethesda Game Studios.

Howard da quasi trent’anni crea videogiochi che hanno formato generazioni di gamer e cambiato il concetto stesso di videogame. Fino ad oggi, la sua carriera è stata monolotica: ha mosso i primi passi nel 1994 proprio presso Bethesda Softworks scalando tutta la catena di comando fino a diventare, nel 2001, il capo dello studio interno della compagnia.

Ritengo che valga la pena raccontare la sua vita lavorativa e penso che raccontare le sue opere migliori sia il modo migliore per farlo.

The Terminator: Future Shock

Videogiochi di Todd Howard: The Terminatore Future Shock

Howard inizia la sua avventura in Bethesda Softworks come videogame producer – figura che si occupa di visionare il lavoro svolto da tutti gli sviluppatori – con The Terminator: Future Shock, first-person shooter uscito nel 1995 su PC.

Future Shock è ricordato come uno dei primi veri giochi con un mondo realmente a tre dimensioni e nemici poligonali. Nello specifico, la prima opera di Howard accompagnava a un’ottima grafica anche un comparto sonoro incalzante e un mondo di gioco di elevata qualità, ma òa più grande rivoluzione fu nel gameplay: The Terminator Future Shock è uno primissimi FPS in cui ci si spostava con la tastiera e ci si guardava intorno con il mouse.

Le migliori riviste del settore lo hanno recensito con voti decisamente alti (Gamespot: 84; PC Gamer UK: 92%).

The Elder Scrolls II: Daggerfall

Videogiochi di Todd Howard: Daggerfall

Nell’eterna lotta per il titolo di miglior Elder Scroll tra Morrowind e Skyrim, c’è ancora qualche veterano che aggiunge questo outsider, che per Todd Howard sarà l’ultima esperienza come producer.

Daggerfall ebbe un enorme successo sin dal 1996, anno di rilascio, sia in termini di vendite che di critica. Oggi è facile pensare la serie di Elder Scrolls come la massima espressione di libertà in un gioco di ruolo, ma fu proprio il secondo capitolo della serie che permise di ottenere questa etichetta grazie alla possibilità di viaggiare tra due province composte da 15.000 tra città, villagi e dungeon (libertà mai superata).

The Elder Scrolls II: Daggerfall vendette per anni: dalla sua uscita fino al 2000, Bethesda ha dichiarato che Daggerfall abbia venduto oltre 700.000 copie.

The Elder Scrolls IV: Oblivion

Videogiochi di Todd Howard: Oblivion

Tra Morrowind e Skyrim vi è una gemma del 2006 che è stata (parzialmente) dimenticata nonostante abbia una delle caratteristiche più rare in assoluto: un’intelligenza arficiale fantastica.

Oblivion ebbe voti altissimi da parte della critica, ma paga lo scotto di essere stato poco memorabile. La community videoludica ha sempre dato più peso alle troppe similarità con Morrowind e troppa poca importanza a Radiant AI, l’intelligenza artificiale usata successivamente anche su Skyrim e Fallout 3.

Personalmente ritengo Oblivion un’opera fondamentale: avvincente, ricco e pieno di libertà, ma anche punto di partenza per opere ancora più ambiziose come Fallout 3 e Skyrim.

The Elder Scrolls III: Morrowind

Nel 2002, Todd Howard diventa project leader del nuovo capitolo di Elder Scrolls, uno dei più amati di sempre soprattutto se si pensa che per molti aspetti vi fu un passo indietro rispetto al suo predecessore.

Morrowind è sempre stato definito come un gioco imperfetto: Daggerfall ha maggiori aree da visitare; il sistema di combattimento è peggiore di altri videogame dell’epoca (per esempio: Star Wars Jedi Knight II: Jedi Outcast). Nonostante questo però nessun videogioco dell’epoca è stato in grado di fornire un’atmosfera così intensa, unita a una libertà così elevata da rendere quasi superflua la quest principale.

In Morrowind puoi fare qualunque cosa e quindi anche vivere in un mondo fantastico senza fare assolutamente nulla, nemmeno portare avanti la trama principale se lo desideri.

Fallout 3

Nel 2008, dieci anni dopo il secondo capitolo e quattro anni dopo che Bethesda ottenesse i diritti della serie, Fallout 3 vede la luce e Todd Howard diventa per la prima volta game director di un’opera videoludica.

Il terzo capitolo di Fallout è totalmente diverso dai suoi predecessori, ma ha saputo evolvere la saga verso la giusta direzione trasformando un gioco di ruolo isometrico in un open world in cui funziona bene sia la parte FPS che quella da Action RPG.

The Elder Scrolls V: Skyrim

Uno dei motivi per cui Starfield è così atteso prende il nome di Skyrim. Del resto, ci sono videogiochi che definiscono un anno e videogame che definisco decadi. The Elder Scrolls V: Skyrim ha rivoluzionato il concetto di open world e di senso di libertà all’interno di un gioco di ruolo.

Personalmente trovo i bug molto snervanti perché rovinano il senso di immersione, ma ho comunque passato centinaia di ore su quella che ritengo l’opera magna di Todd Howard e Bethesda Game Studios. Ci sarebbe molto altro da dire? Sì, ma stiamo parlando di un’opera così importante che non saprei da dove iniziare.

E Starfield?

Videogiochi di Todd Howard: Starfield

Non ho ricevuto una copia anticipata del gioco per poter collocare Starfield all’interno di questa classifica, ma sono molto fiducioso che questo articolo possa essere presto aggiornato anche con l’open world sci-fi di Bethesda. Fino ad ora, Starfield ha avuto il pregio di far dimenticare quel trailer del 2018 di The Elder Scrolls VI, ma sono certo che le sue ambizioni siano di gran lunga maggiori.

L’ambientazione spaziale è sempre stata ben rappresentata nei videogiochi, soprattutto dal genere horror (Alien Isolation, Dead Space, Soma, Scorn tra i più recenti) ma anche tra i cult (Star Wars ha tantissimi giochi validi). Qualcuno si è spinto anche nel campo dei giochi di ruolo (The Outer World) ma nessuno ha mai avuto l’ambizione di creare qualcosa di veramente enorme come l’universo: Starfield potrebbe essere tutto questo e mi auguro che possa anche essere la consacrazione definitiva di Todd Howard come geniale autore di videogiochi.