Tra i guru dell’industria videoludica, Shigeru Miyamoto è (probabilmente insieme a Hideo Kojima) il più iconico. Fedele dipendente Nintendo da oltre 50 anni e appassionato innovatore del panorama dei videogiochi da oltre 40, Miyamoto ha fatto l’intera gavetta presso la Grande N svolgendo diversi ruoli, sempre con maggiore responsabilità: artist; game designer; producer;game directore anche general manager della compagnia fino al 2015. In praticamente tutti i titoli di coda di un videogioco Nintendo potete vedere il nome di Shigeru Miyamoto, ma tra questi ci sono 6 videogiochi pensati, disegnati o diretti da Shigeru Miyamoto che hanno cambiato la storia dei videogame: ve li racconto in questo articolo.
Metto le mani avanti: alcuni di voi potrebbero aspettarsi opere uniche come Star Fox e Pikmin; ottimi titoli che hanno divertito – e divertono – tanti appassionati, ma i videogiochi di cui vi sto per parlare hanno letteralmente cambiato il modo di concepire l’opera d’arte interattiva e posto le basi per le migliori opere disponibili sul mercato dal 1981 a oggi.
Donkey Kong – 1981
Shigeru Miyamoto entra nel mondo dei videogiochi agli inizi degli anni 80, periodo in cui il gaming era nei bar e nelle sala giochi. Siamo nell’era arcade e un cabinato del maestro giapponese ha cambiato la storia dei videogiochi per sempre: Donkey Kong.
L’opera è un gioco a piattaforme in cui il nostro alter ego – Jumpman, oggi noto a tutti come Super Mario – deve salvare la fidanzata Pauline da un aggressivo gorilla: Donkey Kong. Per farlo, il carpentiere deve salire fino in cima a un edificio in costruzione evitando gli ostacoli lanciati dal gorilla – tra cui gli iconici barili.
In un’intervista, Miyamoto spiegò che Donkey Kong è uno strambo cross-over tra King Kong, di cui è evidente la scena in cima all’Empire State Building, e Braccio di Ferro da cui riprende i personaggi: Jumpman è Popeye; Pauline è Olivia; Donkey Kong è Bruto.
Oggi Donkey Kong è visto come un precursore delle opere interattive, ma a suo tempo fu la salvezza di Nintendo; infatti, nel 1981 l’azienda nipponica era sull’orlo della bancarotta, anche a causa dell’incapacità di inserirsi nel mercato americano dei cabinati. Ci provò con RadarScope: fu un fallimento con appena 1.000 cabinati venduti su 3.000 esportati. L’impresa fu compiuta da Miyamoto, fresco di laurea in design industriale: propose Donkey Kong per il mercato statunitense e fu subito un grande successo.
Donkey Kong vendette 67.000 cabine negli USA, tra queste anche le 2.000 rimaste invedute di RadarScope che furono riconvertite nell’opera del nuovo fenomeno mondiale.
Super Mario Bros – 1985
Il Regno dei Funghi è stato attaccato da Bowser, un’enorme tartaruga con poteri draconici – villain tratto dall’anime Le 13 fatiche di Ercolino – che ha trasformato i Toad, gli abitanti fungo del luogo, in blocchi di mattoni e funghi andati a male, i Goomba. Non soddisfatto, Bowser ha anche rapito la principessa del regno: Peach.
A sentirla oggi, la trama di Super Mario Bros. sembra una caricatura del precedente Donkey Kong, ma la nuova opera di Shigeru Miyamoto – questa volta per la console casalinga di Nintendo – il NES – è un tripudio di nuove idee e game design leggendario.
«Con la creazione di Super Mario Bros., Shigeru Miyamoto non solo ha modificato il futuro del gioco, ma ha addirittura cambiato il concetto di “valore” per tutte le forme di intrattenimento. E, nel frattempo, ha cambiato il mio futuro, portandomi a diventare il game designer che sono oggi. Super Mario Bros. è equivalente al Big Bang del nostro universo di gioco. Se non fosse per questa creazione incredibilmente spettacolare, l’intrattenimento digitale come lo conosciamo oggi non esisterebbe»
Hideo Kojima
In Super Mario Bros. è possibile toccare con mano il concetto di game design di Miyamoto. L’idea di fondo – che rivedremo in tutte le sue opere successive – è tanto semplice quanto complessa da realizzare: creare un videogioco che sia accessibile ai neofiti e avvincente anche per i veterani.
Per il giovane Shigeru, videogame significa interattività; di conseguenza: i blocchi di Super Mario Bros. si possono colpire più volte; lo sfondo non è più nero come nei videogioco dell’epoca, ma è azzurro come il cielo del Regno dei Funghi.
I videogiochi di Miyamoto non hanno tutorial: tutto deve essere comprensibile anche ai novizi sin dal primo livello; così il livello 1-1 di Super Mario Bros. diventa oggi un caso di studio nei corsi universitari di game design. Ogni singolo oggetto o nemico è posizionato in modo tale da far premere al videogiocatore tutti i comandi prima di accedere al livello successivo. Da notare come il livello 1-1 sia ricordato anche per le musiche di Koji Kondo, altra leggenda dei videogiochi che ha composto e compone ancora oggi per Nintendo.
Ovviamente, anche i più bravi devono avere un livello di sfida avvincente: nascono così le aree segrete tra cui i livelli tra le nuvole – fortemente voluti da Takashi Tezuka – e in acqua. Un esempio di level design innovativo? I livello in cielo presentano delle monete nei punti di caduta per far capire al videogiocatore che se cade giù non perde una vita, ma torna al livello “normale”.
Super Mario Bros. per NES vendette 40 milioni di copie di cui 6.8 milioni solamente nel Paese del Sol Levante.
The Legend of Zelda – 1986
La pace del Regno di Hyrule è messa in serio pericolo da Ganon, il re del male, appena fuggito da una prigione di massima sicurezza e alla ricerca della Triforza, reliquia sacra in grado di garantire un potere divino. Per fermalo, Zelda – principessa di Hyrule e custode della Triforza – decide di dividere la reliquia in otto frammenti. L’unico che può riportare l’ordine in un regno messo a ferro e fuoco dalle creature demoniache di Ganon è Link, l’eroe della profezia che ha il compito di recuperare i frammenti della Triforza e sconfiggere Ganon.
L’idea di The Legend of Zelda nasce da un’esplorazione che Shigeru Miyamoto fece da bambino nei dintorni della sua abitazione: un’esplorazione completamente libera e senza alcun tipo di aiuto – nemmeno una mappa. Per questo motivo, The Legend of Zelda non ha volutamente una mappa, i dialoghi sono minimi e lasciano spazio a qualsiasi interpretazione. Un concept che rende l’opera del 1986 un precursore degli open world e che sarà ripreso dai capolavori moderni della nostra epoca come Breath of the Wild, ma anche saghe terze come i Dark Souls (Elden Ring su tutti) e The Elder Scrolls (Skyrim).
«Quando ero un bambino ed esploravo le campagne, mi è capitato di imbattermi in un lago. È stata una vera sorpresa trovarlo lì. Sapete, quando ho iniziato a viaggiare senza portarmi dietro una cartina, cercando di trovare da me il sentiero, ho conosciuto la sensazione che si prova imbattendosi in panorami fantastici. È stato allora che ho realizzato cosa significasse vivere un’avventura»
Shigeru Miyamoto
Molti elementi della saga sono stati aggiunti nei capitoli successivi – come ad esempio la Spada Suprema – ma i personaggi principali sono sempre rimasti fedeli a loro stessi. Link, l’eroe della profezia, prende il suo nome dall’idea iniziale di creare un videogioco diviso tra due mondi, uno fantasy e uno futuristico (poi rimosso). Il nome Zelda invece è un omaggio alla moglie dello scrittore e sceneggiatore americano Francis Scott Fitzgerald: Zelda Sayre Fitzgerald.
The Legend of Zelda fu subito un successo: l’opera vendette 6.51 milioni di copie.
Nonostante Super Marios Bros. 3 sia il terzo capitolo della serie, esso può definirsi il vero sequel del primo capitolo; infatti, Super Mario Bros. 2 arrivò in Giappone come una versione più difficile del primo episodio, fatta per gli appassionati ma senza alcuna novità, nemmeno nel comparto tecnico. Addirittura il secondo capitolo non arrivò in Occidente poiché ritenuto troppo difficile per il pubblico statunitense; infatti, quello che in Europa conosciamo come Super Mario Bros. 2 è in realtà un gioco creato per un evento di Fuji TV dal titolo: Doki Doki Panic, realizzato da un giovane e promettente sviluppatore di Nintendo del tempo, Kensuke Tanabe, oggi stranoto produttore di favolosi videogiochi come Metroid Prime, Luigi’s Mansion 3 e Paper Mario: The Origami King.
Super Mario Bros. 3 invece fu tutto quello che gli appassionati si aspettavano: “Il culmine del genere” come lo definì il magazine Micom BASIC.
Per il terzo capitolo, il progetto torna nelle mani del Team R&D4, gruppo creato nel 1984 per dare la possibilità a Shigeru Miyamoto di creare videogiochi. Basta leggere i nomi dei membri per capire l’importanza che questo gruppo ebbe nell’industria videoludica: Takashi Tezuka, Toshihiko Nakago, Kensuke Tanabe, Kazuaki Morita, Katsuya Eguchi e ovviamente il compositore Koji Kondo. Tutte persone che sono oggi nel gotha dell’azienda nipponica.
Super Marios Bros. 3 è basato sempre sullo stesso concept del primo capitolo: accessibile ai novizi, avvincente – e ricco di novità – per i veterani. In particolare, il terzo capitolo contiene non solo nuove aree e livelli, ma anche tanti innovativi potenziamenti che sono tuttora icone non solo del mondo dei videogiochi, ma anche della cultura pop contemporanea: la Super Foglia; la Tanooki Suit e la Frog Suit.
L’ottimo lavoro svolto da tutto il team, soprattutto in termini di level design, non passò inosservato: Super Mario Bros. 3 vendette 17 milioni di copie, oltre 30 con le release negli anni successivi e fu il gioco più venduto di sempre in quel periodo. In Europa arrivò ben tre anni dopo, nell’agosto 1991 creando un hype pazzesco. Grazie a quest’opera, Shigeru Miyamoto divenne famoso anche tra chi non era appassionato di videogiochi; basti pensare che Steven Spielberg e Paul McCarteney viaggiarono fino in Giappone per incontrarlo.
Super Mario 64 (1996)
Dopo aver rivoluzionato il genere dei platform 2D, Shigeru Miyamoto – con l’arrivo del Nintendo 64 sul mercato – può lavorare al genere che non potè portare su Super Nintendo per limiti dell’hardware: il platform 3D di cui Super Mario 64 risulta essere la prima opera.
Ancora oggi, Super Mario 64 è definito da molti come il videogioco con il miglior level design di tutti i tempi grazie a mondi veramente unici per stile e attività possibili. Tanto potrebbe bastare per essere essere inserito nei libri di storia, ma Super Mario 64 sarà ricordato anche come il precusorse degli open world (insieme all’opera di cui parleremo dopo). L’hub centrale del primo Mario 3D non rende il titolo un mondo aperto per come lo definiamo oggi, cioè un’opera con un’unica mappa completamente esplorabile; però, tutti i singoli mondi, una volta attraversati i quadri del Castello di Peach, sono delle enormi sandbox, visitabili con un altissimo grado di libertà, non solo per gli anni 90, ma anche per il corrente periodo storico.
Per stessa ammissione dei suoi creatori, Super Mario 64 fu usato come fonte di ispirazioni per tanti altri giochi. Tra questi, un altro capolavoro del suo tempo: GoldenEye 007, che prese spunto dal lavoro svolto da Miyamoto per implementare l’elevato numero di missioni disponibili nel titolo di Rare.
La grande innovazione tecnica del periodo – oggi divenuta uno standard – fu il sistema di telecamera mobile, retta dal cameraman Lakitu, che veniva mossa dal videogiocatore grazie al D-Pad del Nintendo 64.
Super Mario 64 vendette 11.9 milioni di copie e fu il videogioco più venduto nella storia del Nintendo 64.
The Legend of Zelda: Ocarina of Time (1998)
Esattamente come negli anni 80, quando Shigeru Miyamoto lavorò contemporaneamente a due videogiochi, Super Mario e The Legend of Zelda, negli anni 90 il maestro nipponico si occupò quasi contemporaneamente sia di Super Mario 64 che di The Legend of Zelda: Ocarina of Time, questa volta sotto le vesti di producer. Nonostante i tempi fossero cambiati e i progetti divenivano via via sempre più grandi e impegnativi, i risultati ottenuti furono i medesimi: anche Ocarina of Time fu un capolavoro che cambiò per sempre l’industria videoludica.
The Legend of Zelda: Ocarina of Time racconta una trama suddivisa in due parti: nella prima parte il protagonista è Link da bambino; nella seconda, Link è adulto. La differenza non è solamente estetica, ma anche nella possibilità di usare oggetti e abilità differenti.
Il concept iniziale della nuova avventura di Link era basato su un hub centrale come in Super Mario 64, ma Miyamoto voleva donare al titolo un maggior senso di libertà rispetto all’opera ambientata nel regno dei Funghi; di conseguenza, Ocarina of Time fu realizzato come un vero e proprio open world moderno in cui fu addirittura necessario aggiungere la giumenta Epona per muoversi più velocemente sulla Piana di Hyrule.
Tuttora Ocarina of Time è ritenuta un’opera fondamentale per la storia videoludica perché ha portato due nuovi standard tuttora usati nei gameplay moderni: l’utilizzo dello stesso pulsante per diverse azioni e il leggendario Z-Lock Target.
Fino all’uscita di Ocarina of Time, i programmatori degli action adventure game permettevano di compiere azioni diverse usando svariate combinazioni di tasti; Shigeru Miyamoto invece voleva che il videogiocatore si concentrasse maggiormente sull’esplorazione. Per questo motivo, pensò di far compiere azioni diverse usando sempre il medesimo pulsante.
Con l’avvento della terza dimensione, Super Mario 64 stabilì un nuovo standard con una telecamera completamente libera. Secondo Miyamoto e il suo team però questa scelta non era adatta per il tipo di combattimenti di Ocarina of Time. Un problema cruciale che trovò la sua soluzione nella visita, da parte del team di Shigeru, del parco di divertimenti dello Studio Toei di Kyoto. Durante la gita, uno dei quattro director – Yoshiaki Koizumi – notò che in uno spettacolo di samurai, il protagonista affrontava un gruppo di ninja, ma sempre con scontri uno contro uno: il samurai si concentrava sempre su un unico avversario. Da questa intuizioni nacque il Z-lock targeting system, cioè il sistema di combattimento che permette di agganciare un nemico alla volta e su cui sono diretti tutti i colpi di Link. Il concept fu rivoluzionario ed è tuttora usato in tantissimi capolavori: non solo opere Nintendo come Breath of the Wild o Metroid Prime, ma anche i Dark Souls e Assassin’s Creed.
The Legend of Zelda: Ocarina of Time vendette 7.6 milioni di copie solo su Nintendo 64. Le vendite salgono a quasi 11 milioni se consideriamo anche le riedizioni nel corso degli anni.
Esistono due tipi di giocatori di carte collezionabili: chi prova le nuove carte appena uscite e chi sfrutta l’occasione per giocare i mazzi consolidati nel meta attuale. A pochi giochi dall’arrivo su Pokémon GCC della nuova espansione Spada e Scudo – Tempesta Argentata, abbiamo dei mazzi migliori di altri che sfruttano l’ultima espansione pubblicata: Origine Perduta. Ve li spieghiamo in questo articolo sui migliori mazzi di Origine Perduta.
Spada e Scudo – Origine Perduta ha cambiato il meta di Pokémon GCC, grazie a Giratina V e Giratina V ASTRO, ma aspettatevi anche tante note conoscenze (e varianti). Tra tutti: Palkia Originale V ASTRO, Mew GenesecteBlissey V.
1. Giratina di Origine Perduta
Il mazzo di Giratina V ASTRO è il deck da battere: i pro player dovranno trovare in Tempesta Argentata la soluzione a una carta che sta sovrastrando il meta.
Il deck di Giratina Origine Perduta si basa sull’aggiungere il prima possibile carte nell’Area Perduta. Per farlo utilizziamo il blocco denominato Comfey Engine; nello specifico, il Retino di Recupero serve per recuperare Comfey, mentre il Portalemiraggio permette di soddisfare i pre-requisiti degli attacchi di Giratina V ASTRO. Impatto Perduto è devastante: 280 danni con tre energie; Astro Requiem sconfigge qualsiasi cosa in campo.
Questo mazzo fonda la sua forza su un archetipo che abbiamo visto diverse volte su Pokémon GCC e che possiamo brutamente riassumere con la frase: “Menare davanti, menare dietro, l’importante è menare”. Palkia Originale V ASTRO garantisce ingenti danni se sono presenti tanti Pokémon in panchina – su entrambi i lati. Greninja Lucente e Inteleon invece hanno ottima sinergia con Palkia e colpiscono i Pokémon nella panchina avversaria.
Lo scopo del deck è aggiungere più Pokémon possibili in panchina al fine dipotenziare l’attacco di Palkia: Sottospazio Amplificato – 60 danni più 20 per ogni Pokémon nelle due panchine. Le altre fonti di attacco sono: Idrodardo di Inteleon con 120 danni più 20 danni a uno dei Pokémon nella panchina del tuo avversario; Greninja Lucente che mira a fare danni dietro con Lame Lunari – 90 danni a due Pokémon in panchina.
Greninja è molto importante anche come supporto: il suo attacco fa scartare delle energie, che possono essere usate per caricare altri Pokémon in panchina in sinergia con Astro Portale di Palkia.
Dieci mesi fa parlavamo di Mew Genesect come probabilmente uno dei migliori mazzi di quel meta. Lo è ancora oggi e – dato il suo design – è praticamente uguale alla sua versione originale.
Terminiamo la nostra carrellata dei migliori mazzi di Origine Perduta con il deck più economico che può dire la sua in questo meta. Blissey V ha due importanti vantaggi: se inizia bene è devastante; praticamente non ci sono mazzi lotta nel meta attuale che possano sfruttare le debolezze di Blissey V e Miltank.
Tutta il mazzo ruota sul mettere Blissey V in condizione di fare danni il prima possibile con Esplosione Gioiosa: “Questo attacco infligge 30 danni in più per ogni Energia assegnata a questo Pokémon. Se hai inflitto dei danni con questo attacco, puoi assegnare a questo Pokémon fino a tre carte Energia dalla tua pila degli scarti”. In altre parole, bisogna lavorare su due fronti per un unico scopo: scartare carte energia e caricarle su Blissey V con il suo attacco.
Tutto il resto del mazzo fornisce supporto per aumentare i punti vita di Blissey e mantenerlo al massimo dei suoi HP con cure come Iperpozione e Asciugamano del Team Yell. Miltank invece garantisce match up relativamente semplici contro Pokémon V grazie all’abilità Corpo Prodigio: “Previeni tutti i danni inflitti a questo Pokémon dagli attacchi dei Pokémon-V del tuo avversario”.
Wakfu è il sogno che tutti gli aspiranti sviluppatori di videogiochi vorrebbero realizzare. Ankama è una società francese nata nel 2001 da tre soci fondatori: ANthony, KAmille, MAnu. Dopo il primo successo, l’MMO Dofus, Ankama si espande in diverse divisioni dando vita anche al mondo di Wakfu. La prima opera della saga è una serie animata, oggi disponibile anche su Netflix, ma il maggior successo arriva con l’omonimo MMORPG con combattimenti a turni. Oggi, Wakfu conta: tre film di animazione (OAV); tre stagioni della serie animata – è in arrivo la quarta; uno spin-off, un gioco di carte deck-buildercon meccaniche roguelike, che abbiamo provato: One More Gate: A Wakfu Legend.
Trama
Uno dei focus principali di Ankama è mantenere una fludità nella trama delle varie opere del mondo di Wakfu, integrandoli in un unico vasto universo – collegato anche a quello di Dufus. One More Gate: A Wakfu Legend sfrutta l’ampia lore e ci mette nei panni di Orobo, un giovane combattente, che ha distrutto un portale passandoci attraverso. Il compito del nostro alter ego è sistemare i portali, sconfiggendo tutti gli avversari che incontrerà nel suo cammino.
Gameplay
One More Gate: A Wakfu Legend è un gioco di carte con elementi roguelike e una progressione che si basa su quello che chiamerei try and level, poiché molte run saranno utili solamente ad accumulare esperienza e denaro al fine di avere un mazzo sufficientemente forte per andare avanti nel gioco.
Living Card Game
Il videogioco di Ankama Studios è un Living Card Game (LCG). Orobo inizia con un mazzo predefinito e può ottenere nuove carte in due modi: attraverso l’aumento di livello (l’esperienza si ottiene dopo ogni run); acquistando carte nel villaggio in cui siamo catapultati dopo ogni tentativo. In aggiunta, le carte possono essere potenziate accumulando una valuta ottenuta sempre durante l’esplorazione.
Le carte si dividono in tre gruppi: attacco, difesa e potenziamento. Ogni carta presenta tre sezioni: valore del costo, valore del danno/difesa/ponteziamento e un testo che spiega i dettagli, cioè se è un attacco singolo piuttosto che multiplo o se contiene delle parole speciali -ad esempio: poison o stampede.
In generale, è possibile costruire i mazzi sulle diverse parole chiave presenti nel videogioco. Purtroppo, le sinergie non sono ancora così efficaci come ci si può aspettare e i maggiori risultati si ottengono mettendo insieme le carte visibilmente più forti. Uno dei compiti degli sviluppatori nel prossimo futuro è sicuramente creare delle carte che rendano effettivamente conveniente costruire dei deck su archetipi basati sulle parole chiave del gioco.
Combattimenti
One More Gate: A Wakfu Legend è un gioco basato sulla tattica, poiché durante i combattimenti, sopra la testa di ogni avversario, possiamo vedere la sua mossa successiva. Questo permette di prepararci in anticipo tanto in difesa quanto in attacco. Ragionare sulla scelta da fare è molto importante, perché gli avversari sono coriacei e fanno parecchio male. Basta sbagliare un turno per compromettere l’intera run.
In combattimento, il costo di ogni carta varia da -1 a +6, che è anche il numero massimo di energia accumulabile; infatti, Orobo comincia lo scontro con tre energie e arriva fino a sei, turno dopo turno. Una volta sbloccate tutte le energie, e se usate tutte nel turno, è possibile giocare una carta perfect, solitamente un potente attacco singolo o ad area.
Il lato negativo della grande resistenza dei nemici è la frustrazione di dover affrontare continuamente gli stessi combattimenti con tanti turni e senza particolari colpi di scena. In particolare, gli avversari sono ancora troppo pochi e con un numero ridotto di azioni: il risultato è un’eccessiva ripetitività e una noia certa che potrà essere risolta solo portando nuovi contenuti.
Roguelike
Orobo affronta le sue missioni muovendosi su una mappa con percorsi multipli, come già visto in giochi basati sulle carte come Inscryption – che abbiamo anche recensito – oppure Hand of Fate. Nonostante le diverse possibilità di scelta, i percorsi sono alquanto statici, poiché le avventure si dividono in tre macro-blocchi scanditi da check-point in cui poter recuperare una parte dei propri punti vita. In ogni macro-blocco, i nemici e le aree che forniscono premi o bonus sono sempre gli stessi. Andando avanti è anche possibile affrontare delle quest secondarie, che garantiscono delle rune permanenti alla singola run; nello specifico, ci sono già un buon numero di rune, alcune delle quali possono cambiare il corso di ogni tentativo.
Conclusione
One More Gate: A Wakfu Legend è un videogioco in pieno sviluppo, che potrà essere un ottimo passatempo se arricchitto con tanti e diversi contenuti. Attualmente, l’opera pena di noiosità, poiché i combattimenti con così poche scelte durano troppo a lungo, risultando ripetitivi.
Preciso che ho provato One More Gate: A Wakfu Legend su personal computer, ma il gioco da il meglio di sé in condizioni più agili; infatti, su PC il titolo è eccessivamente statico, mentre avere la possibilità di giocarlo su Nintendo Switch sul divano o in mobilità ha sicuramente tutto un altro gusto. Personalmente, consiglierei agli sviluppatori di portare il titolo su mobile dove riceverebbe feedback sicuramente positivi.
Aldilà della piattaforma, gli sviluppatori hanno mostrato alcuni guizzi, basati soprattutto sulla caratterizzazione dei personaggi – mi riferisco alle quest secondarie e i primi boss – che mi fanno ben sperare. In definitiva, il sistema di gioco ha una sua logica, che mi fa venir voglia di riprenderlo in mano tra qualche mese per vederne i progressi.
Se c’è un prodotto recente che più di ogni altro ha saputo riportare l’attenzione dei videogiocatori verso il genere dei picchiaduro, questo è senza dubbio Super Smash Bros Ultimate: il titolo Nintendo, forte di un roster praticamente sconfinato, di un gameplay a prima vista semplice, accessibile e competitivo, e di un numero spropositato di modalità di gioco, è riuscito ad imporsi in modo deciso sul mercato, ottenendo un enorme successo di pubblico e critica.
In questo articolo andremo ad analizzare il competitivo di Super Smash Bros Ultimate spiegando: quali sono i concetti chiave e le principali tecniche da padroneggiare per imparare a farsi strada all’interno della natura più “professionale” di questo gioco; chi sono i numerosi personaggi del roster, in modo da fornire una piccola guida per chi volesse iniziarsi all’arte dei combattimenti smash.
Un party game particolare…
Un esempio di quanto smash possa essere caotico.
Come già spiegato nel nostro articolo sui migliori picchiaduro del 2022, Ultimate come i suoi predecessori mostra una duplice natura. Da un lato, infatti, il gioco si presenta come una sorta di party game, dall’altro alla base di tutto ci sono “mazzate”, con battaglie di gruppo all’interno delle quali intervengono molteplici fattori, spesso randomici.
Tra questi, i principali sono l’apparizione casuale degli oggetti (alcuni, come il martello di Mario, in grado di eliminare un avversario in pochissimi colpi) e le caratteristiche peculiari dei vari stage, che presentano trappole, ribaltamenti di prospettiva e veri e propri sconvolgimenti del campo di battaglia (ponti che crollano, colate di lava ecc…).
È chiaro come, con simili variabili in gioco, l’abilità del giocatore rischi di venire spesso condizionata dalla sfortuna, il tutto a favore di uno stile di gioco caotico e “folle” che permetta anche ai meno abili ed esperti di avere sempre almeno una chance di vittoria.
Super Smash Bros: anima di un picchiaduro competitivo
Tuttavia, Smash Bros nasconde anche un’anima da vero e proprio picchiaduro, in grado di soddisfare anche gli amanti delle sfide più complicate. Sebbene questa caratteristica non sia stata inserita in Ultimate, il capitolo precedente uscito per WII U e Nintendo 3ds permetteva, all’interno del comparto online, di scegliere tra modalità casual o competitiva.
Quest’ultima scelta proponeva incontri con lo stesso set di regole tipico dei tornei ufficiali, ovvero scontri 1vs1 o 2vs2 con un limite di vite (di solito 3), assenza quasi totale di oggetti, utilizzo di stage dalle dimensioni ristrette e senza alcun ostacolo al loro interno.
Provato in questa maniera, Super Smash Bros Ultimate cambia completamente pelle e diviene molto più simile ad un vero gioco competitivo.
Cominciare dalle basi
ecco il training stage, la palestra per ogni vero pro di Smash.
I movimenti base
Come in qualsiasi altro gioco di questo genere, il punto di partenza sarà padroneggiare i movimenti base: spostamenti, corsa, schivate e soprattutto i salti andranno provati e riprovati fino allo sfinimento. L’obiettivo primario di Smash, infatti, pur fra moltissime varianti, resta quello di non cadere dallo stage. È dunque evidente come avere un buon controllo sul proprio personaggio eviti cadute e altri errori banali che andrebbero letteralmente a regalare la vittoria all’avversario. Inoltre comandi come la parata e le schivate, poco usate negli scontri amichevoli, dovranno essere approfonditi in maniera importante, poiché risultano basilari per fronteggiare qualunque avversario dotato di una certa esperienza.
Naturalmente, ogni personaggio possiede un peso, delle dimensioni e una rapidità di movimento unici (o quasi), di conseguenza sarà fondamentale imparare anzitutto i movimenti di quei personaggi che si è deciso di provare e sulla quale puntare.
Mosse, mosse e ancora mosse
Una volta padroneggiati i comandi di base, occorrerà fare la stessa cosa col set di mosse dei personaggi. Sebbene infatti in Smash i pulsanti di attacco siano solamente due (uno per gli attacchi e l’altro per le mosse speciali) essi andranno a combinarsi con le varie direzioni dello stick analogico dando vita ad un parco mosse che, pur non essendo elevato come in altri picchiaduro (ad esempio Tekken) resta comunque piuttosto ampio. Oltre ad imparare tutti questi attacchi e riuscire a valorizzarli nel modo giusto, il giocatore dovrà anche imparare a concatenarli. Nonostante infatti in Smash non siano presenti delle vere e proprie combo, ogni personaggio dispone di alcune sequenze di attacco che, se messe in sequenza in una determinata maniera, non consentono all’avversario di interromperle (le cosiddette true combo). Inseriamo qui un breve video esplicativo.
Tuttavia, occorre non commettere l’errore di focalizzarsi troppo su queste sequenze: il giocatore potrebbe essere tentato di cercare forzatamente queste sequenze perdendo di vista l’andamento dello scontro e, cosa più importante, la naturalezza dei suoi spostamenti.
Conoscere il proprio avversario
Una volta padroneggiate tutte le tecniche del nostro personaggio resterà l’ultimo scoglio da superare, forse il più duro: l’apprendimento dell’intero parco mosse del titolo, in modo da essere in grado di conoscere punti di forza e debolezze del nostro avversario e saper impostare velocemente una strategia per contrastarlo.
Questa è naturalmente la parte più complessa di ogni picchiaduro, ancor più in un titolo come Super Smash Bros Ultimate con il suo numeroso roster ma è anche la chiave per riuscire ad essere competitivo ed elevare il proprio gioco per ottenere un livello di gioco davvero superiore.
Select your character!
Parlando di roster, troviamo personaggi di ogni genere, provenienti dai titoli più disparati, e non solo Nintendo. Individuare in Super Smash Bros Ultimate almeno un paio di character preferiti sarà un passo davvero fondamentale per il percorso del giocatore all’interno del titolo. Per aiutare i lettori a orientarsi, presentiamo ora una lista delle principali categorie in cui questi personaggi sono divisi, in modo da facilitare ad ognuno la scelta del proprio main.
Personaggi bilanciati
Sono validi sia nel combattimento ravvicinato che a distanza. Posseggono inoltre un buon bilanciamento tra velocità e forza d’attacco. Sono particolarmente indicati per i giocatori alle prime armi, poiché, pur non eccedendo in nulla, non hanno particolari debolezze. In questa categoria includiamo Mario, Yoshi, Ken, l’allenatore Pokémon, Samus Tuta zero, Sephiroth, Dr. Mario, Palutena, Little Mac Sora, Shulk e il Fighter Mii.
Personaggi oppressivi
Si tratta di lottatori estremamente veloci, capaci di combinazioni ed attacchi rapidissimi che li rendono pericolosi nel combattimento ravvicinato. Sono inoltri formidabili nelle combo e nel mettere sotto continua pressione l’avversario. Compensano di solito con una bassa resistenza ai colpi e ai lanci. Includiamo in questa categoria Fox, Falco, Wolf, Sheik, Pikachu, Daisy, Peach, Pichu, Jocker Diddy Kong.
Personaggi “mordi e fuggi”
Sono anche in questo caso personaggi rapidi, dotati di un attacco molto potente, sia a corto sia a medio raggio, ma di una bassa difesa. La chiave dunque sarà portare rapidi attacchi ed essere altrettanto veloci a portarsi in una zona sicura. Possiamo includere King Dedede, l’allenatore Wii Fit, Peach, Wario, Sonic, il ragazzo Inkling, Bayonetta, Sonic, Pit e Jigglypuff.
Grappler
Come intuibile, si tratta di personaggi estremamente forti, in grado di sfruttare le prese per lanciare facilmente gli avversari a lunga distanza e causare ingenti danni. Questi punti di forza sono compensati con velocità ridotte e, talvolta, con dimensioni notevoli che li rendono facili bersagli. Includiamo in questa categoria Bowser, Ganondorf, Donkey Kong, Incineroar, Ridley, Nes, Luigi e gli Ice Climbers.
Personaggi a medio raggio
Molto simili ai bilanciati. La differenza sta nel fatto che in questo caso danno il loro meglio combattendo a media distanza, grazie alla lunga gittata dei loro attacchi base e alla forza delle loro mosse speciali. Il rovescio della medaglia è un set di autocombo e true combo più limitato e meno efficace a corto raggio. Di questo gruppo fanno parte Cloud, Lucario, Banjo e Kazooie, Lucas, capitan Falcon e Mr. Game and Watch.
Combattenti a terra
Questi lottatori danno il loro meglio nel combattimento a terra. Dispongono infatti di un set di attacchi estremamente potenti e veloci, in grado di mettere in crisi gli avversari che si vengano a trovare nel loro raggio d’azione. Non hanno combo particolarmente efficaci, ma compensano con l’enorme forza dei loro attacchi. Naturalmente, il loro punto debole è il combattimento aereo, in cui sono più vulnerabili a causa della poca mobilità. Fanno parte di questa categoria Terry, Roy, Ryu, Metaknight, l’eroe di Dragon Quest, Ike, Kirby, Little Mac e Steve.
Gli zoner
Controllo è la parola d’ordine di questi personaggi. Sono infatti dotati di un raggio d’azione molto vasto e di diverse mosse speciali a lunga distanza. Con questi lottatori la strategia consiste nel riuscire a tenersi sempre in una zona vantaggiosa tempestando di colpi l’avversario, in modo da riuscire a trovarsi sempre in una posizione di forza e impedendo all’avversario di esercitare pressione. Esempi perfetti sono Marth, Zelda, Samus, Olimar, Megaman, il Mii Gunner Mewtwo e Rob.
Le testuggini
Molto simili agli zoner ma con una strategia ancora più improntata sui proiettili e gli attacchi a distanza. La forza difensiva e il peso elevato di questi personaggi li rende difficili da spingere e danneggiare, dando loro ancora maggiori chance di causare danni ingenti grazie agli attacchi a distanza per poi infliggere il colpo di grazia. La maggiore debolezza di questi personaggi è la loro bassa mobilità, che li rende molto vulnerabili nel combattimento ravvicinato. Inseriamo in questo gruppo Link, Link bambino, Link cartone, Corrin, Byleth, abitante, lo Swordman Mii e il duo Duck Hunt.
Gli intrappolatori
Si tratta di personaggi piuttosto avanzati e non semplici da padroneggiare. Il loro punto di forza sta infatti nell’essere in grado di cogliere completamente alla sprovvista gli avversari creando vere e proprie trappole. Riescono a fare ciò attraverso le loro mosse speciali, che consistono in contrattacchi potentissimi o in tecniche particolari, come teletrasporti, proiettili manovrabili, esplosivi innescabili a comando e altre insidie simili. La vera sfida è comprendere le potenzialità di ognuno di questi attacchi speciali e riuscire ad usarli per incastrare l’avversario, bloccando le sue offensive e contrattaccando quando meno se lo aspetta. Fanno parte di questo gruppo Snake, Rosalinda, King K. Rool, Daraen, Bowser Jr., Simon e Richter Belmont, Pianta Piranha e Fuffy.
Cult of the Lamb è divertente nella sua semplicità. L’idea di trovare un punto di contatto tra un roguelike in stile The Binding of Isaac e un gestionale alla Harvest Moon è vincente, ma durante le ore passate a giocare, ci si aspetta un climax di crescente difficoltà che non arriva mai. I giocatori meno esigenti troveranno il titolo soddisfacente, mentre i fan dei roguelike non saranno mai messi veramente alla prova.
8.5
Il calendario annuale dei videogiochi ha dei dogmi ben precisi: se un gioco esce durante la settimana di ferragosto, non sarà memorabile. Questa dottrina, unita alla voglia di spiaggia, ha posticipato la mia recensione di Cult of the Lamb. Un peccato mortale.
Cult of the Lamb è il terzo titolo, non mobile, di Massive Monster. La software house australiana, che ha accumulato esperienza con i platform, ha unito le forze con l’ormai celebre publisher Devolver Digital per portare sul mercato un irriverente roguelike con accentuate meccaniche gestionali dalla grafica dolce e dai toni cupi.
Rinascere profeta
Il protagonista dell’opera è un agnello, letteralmente, sacrificale. Cult of the Lamb inizia con il nostro eroe pronto per essere sacrificato sai quattro vescovi simil-lovecraftiani. In realtà, il sacrificio è reale e la vita del povero agnello, apparentemente, termina; almeno fino a quando non ha un incontro onirico con The One Who Waits: una divinità imprigionata alla ricerca di un profeta che possa dare il via alla sua nuova ascesa. Ovviamente per farlo sarà necessario demolire l’attuale religione a favore della nostra.
Ogni credo che si rispetti ha un cospicuo numero di fedeli. L’agnello, cioè il videogiocatore, li recupera all’interno dei dungeon più pericolosi, uno per ognuno dei quattro vescovi. Solitamente si tratta di povere creature pronte per il sacrificio, che prima l’agnello salva e poi li converte alla nostra religione, facendogli spesso fare una fine anche peggiore.
Gestionale
La gestione del credo prevede mantenere un villaggio pieno di fedeli basato su tre indicatori: fame, malattie e fede. La fame si attenua cucinando cibo per i nostri credenti, mentre le malattie si curano facendo riposare i malati e mantenendo pulito il villaggio. Infine, la fede può essere tenuta alta esercitando rituali. Come dicevamo però, il nuovo profeta non è necessariamente migliore dei suoi predecessori e l’agnello può sacrificare i suoi discepoli per un bene maggiore, molto spesso molto conveniente per il proseguo del gioco.
Durante la fase gestionale, ho passato per la maggior parte del tempo all’interno del villaggio dove l’agnello può, o incaricare i suoi adepti, di raccogliere risorse (legno e pietre) o pregare per aumentare la devozione. Sotto le vesti dell’agnello possiamo anche creare nuove strutture ed eseguire una serie di riti all’interno del Tempio; in particolare, le liturgie sono tre: sermon, per aumentare i bonus quando entriamo all’interno di un dungeon; crown, per instaurare nuove dottrine che aumentano la nostra forza in combattimento e aggiungono nuovi rituali; rituals, liturgie di vario genere, tra cui i sacrifici, per migliorare lo status del villaggio e dei suoi abitanti.
L’esplorazione
Una volta usciti dal villaggio è possibile raggiungere due luoghi: i dungeon e altre zone della mappa in cui alcuni NPC incontrati durante le missioni ci permettono di completare una serie di quest secondarie.
Nella parte bellicosa di Cult of the Lamb, il numero quattro si ripete più volte. Quattro sono i vescovi, quattro sono le tipologie dei dungeon e quattro sono le volte che bisogna ripetere le zone di guerra prima di affrontare il boss finale dell’area.
Una volta dentro i dungeon – come già visto in tantissimi roguelike come Darkest Dungeon – una mappa permette all’agnello di scegliere il percorso sino alla battaglia finale. Ogni luogo d’interesse può avere diversi incontri, più o meno positivi, tra cui gli, ovviamente, gli scontri.
I combattimenti
I combattimenti sono abbastanza basilari. Qunado l’agnello entra in una stanza, deve essere l’ultimo, e unico, a uscirne. Per farlo, può attaccare con la sua arma o con una maledizione (una magia): le armi si differenziano per velocità e danni causati; le maledizioni sono scelte casualmente all’inizio di ogni dungeon da un pool ampliabile con perk ottenuti con i sermoni. Infine, si può schivare e saremo invulnerabili in quel momento.
I nemici, così come i dungeon, sono pochi, ma ogni avversario ha i suoi pattern da imparare pressoché a memoria. I boss, e mini-boss, hanno degli schemi d’attacco più complicati rispetto ai normali nemici, ma a livello normale – difficoltà consigliata dal gioco – ho terminato il gioco morendo soltanto una volta durante l’ultimo boss del videogioco.
Conclusione
La recensione di Cult of the Lamb non può non considerare la dissacrante satira rivolta alle religioni. Non ci sono giri di parole: la vita dell’agnello è stata risparmiata e gli sono stati donati enormi poteri. Non c’è alcun bonus se si trattano bene i propri discepoli; anzi, più si è senza scrupoli, più si progredisce velocemente. L’agnello è in realtà solo un travestimento per il lupo. Nonostante l’intera trama contenga tante, troppe, similitudini con Death’s Door – un’altra opera indie di Devolver Digital che abbiamo anche recensito – Cult of the Lamb ha molto carattere e una veste grafica 2.5D originale.
Cult of the Lamb non è un gioco perfetto, poiché troppo semplificato nelle meccaniche, tanto quelle gestionali quanto nei combattimenti. Però è dannatamente assuefacente. Il roguelike di Massive Monster mi ha fatto continuamente pensare: “Ancora una stanza” oppure: “Ancora un sermone”, cioè qualcosa di assolutamente non necessario perché il quick resume di Xbox Series X permette di riprendere da qualsiasi punto ogni volta che si vuole.
Ancora una volta, Devolver Digital è riuscita ad attirare la mia attenzione. Questa volta non è un must-have, ma un videogioco che riesce a mettere insieme tutte le meccaniche più amate dei titoli recenti in un videogioco immediato, divertente e dissacrante.
Dettagli e Modus Operandi
Genere: Azione, Roguelike, Gestionale
Lingua: Inglese
Multiplayer: No
Prezzo: 29,99€
Piattaforme: PC, Playstation 4, PlayStation 5, Xbox One, Xbox Series S|X, Nintendo Switch
Se andaste su un’enciclopedia dei videogiochi trovereste, sotto la voce “Guybrush Threepwood”, la seguente dicitura : “Guybrush Threepwood, aspirante pirata. Personaggio dal passato oscuro, indefinito. Di lui si conosce che sa trattenere il respiro per 10 minuti, che ama girovagare nei boschi in cerca di tesori, che sa duellare di spada, di insulti e, a volte, anche di banjo (un cordofono di origine sudafricana).Segni particolari biondo, stato civile celibe (almeno nel momento della sua apparizione sull’isola di Melee).”
Se voleste poi allargare i vostri orizzonti e cercare il binomio “Monkey Island”, scoprireste che la saga di Monkey Island, serie di avventure grafiche edite dalla Lucasarts (per capirci, Indiana Jones e Star Wars in ambito cinematografico), è quanto di più abbia saputo stimolare e solleticare l’immaginario collettivo del popolo videoludico, almeno quello dei primi anni 90, sul tema dei pirati e del mondo ad esso correlato.
La storia si sviluppa intorno al personaggio di Guybrush Threepwood, aspirante pirata, che sbarca, da non si sa dove, sull’isola di Melee per diventare un pirata affermato; ben presto si scoprirà che le sue attitudini sono alquanto lontane da quelle necessarie a diventare pirata e che in un modo o nell’altro riuscirà, anche con trovate geniali ed ilari, a risolvere i problemi che gli si porranno davanti. Quali problemi? Uno su tutti, il pirata fantasma LeChuck al quale Guybrush, nel primo episodio (The Secret of Monkey Island), soffierà la ragazza e promessa sposa Elaine Marley; diciamoci la verità, Elaine non è che ardeva dal desiderio di sposare LeChuck!
Per salvare Elaine, rapita dall’ormai disperato fantasma innamorato, Guybrush dovrà fare addirittura rotta per Monkey Island e scendere nei suoi inferi per inseguire il malvagio pirata e la sua ciurma fantasma. Inutile dire come, alla fine del primo episodio, LeChuck verrà sconfitto – o meglio, dissolto – in un turbinio di fuochi d’artificio!
Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge
Nel secondo episodio, “Monkey Island 2: Lechuck’s revenge”, le cose si fanno più mature: ritroviamo un Guybrush cresciuto, più spavaldo e più espert…ok non esageriamo! L’avventura si dipana su ben tre isole, insomma anche il team di sviluppo, dopo l’azzardo del primo episodio, ha ben in mente cosa vuole dal gioco e si vede! Gli enigmi sono ben strutturati e la storia…anche! La vendetta di LeChuck quindi…un errore (veniale) del nostro Guybrush infatti, farà riportare in vita il corpo putrido e marcio del suo nemico.
Mentre il nostro eroe sarà intento a ricomporre una mappa che lo porterà alla scoperta di un tesoro favoloso, il nefasto zombie opererà dietro le quinte per attuare la sua vendetta. Vendetta che si compirà, alla fine del titolo, intrappolando Guybrush nella “Fiera dei dannati”, con la consapevolezza che LeChuck sia in realtà suo fratello, morto anni prima.
The Curse of Monkey Island
Ora, al dettaglio della fratellanza, per altro non trascurabile della saga, non si è più accennato nei successivi capitoli. La scelta sta forse da individuare nel fatto che a partire dal terzo capitolo, il team di produzione è cambiato, improntando il tutto su un’altra linea e facendo sembrare, in pratica, The Curse of Monkey Island, terzo capitolo della serie, un prodotto quasi stand alone. Questo episodio, seppur divergendo dalla storia come l’aveva immaginata il creatore di Monkey Island, Ron Gilbert, lascia un’impronta decisa nel panorama videoludico, poiché è tra i primi titoli ad avere il parlato, una grafica godibilissima e una trama comunque intrisa di ironia, anche se non ai livelli dei primi due capitoli.
Si scade a volte, purtroppo, in cliché già visti nei primi due episodi. La storia racconta di come Guybrush abbia chiesto ad Elaine di sposarlo, e di come, per farlo, abbia utilizzato un anello maledetto (tipico del nostro antieroe) trasformandola in una statua d’oro (poi trafugata da una ciurma di scimmie). Dopo mille peripezie, Guybrush salvare la donna del suo cuore e sconfigge nuovamente un LeChuck, che, per l’occasione, sfoggia un look del tutto nuovo con una barba bella e fiammeggiante.
Escape from Monkey Island
Arriviamo dunque al quarto capitolo, quell’Escape from Monkey Island che ha deluso più di un fan; se il terzo Monkey, per quanto con dei cliché e per quanto non segua la storia pensata da Gilbert, come detto, gode di una grafica godibilissima, di un buon doppiaggio e di una trama accettabile, l’ultimo capitolo rasenta, a mio modesto parere, il punto più basso della serie.
Per carità, un Monkey Island è sempre un Monkey Island e per questo doveva essere giocato. Ma il motore 3D che molto era piaciuto su Grim Fandango, con Guybrush perde un po’ i colpi, unito ad una gestione discutibile del personaggio da tastiera e non più da mouse. Beh ma è sempre Monkey Island… la trama riuscirà a colmare le lacune… e invece no! Anche la trama fa acqua da tutte le parti, regalandoci una storia che di piratesco ha ben poco, dovendo affrontare, il nostro eroe, stuoli di avvocati e burocrati. Guybrush ed Elaine tornano dal meritato e focoso viaggio di nozze.
Su Melee scoprono che sono stati dichiarati morti e nuove elezioni sono in corso per sostituire il governatore, ruolo che fino a poco prima era ricoperto da Elaine. L’antagonista politico si rivelerà essere Charles L. Charles (LeChuck sotto mentite spoglie) che cercherà di incastrare i due giovani. Ma Guybrush, dopo aver scoperto il famigerato “insulto supremo”, al seguito di un rocambolesco ritorno sull’isola di Monkey Island e dopo un finale, secondo il sottoscritto, poco degno di un capitolo della saga, riuscirà a ristabilire l’ordine naturale delle cose sconfiggendo LeChuck per l’ennesima volta. La saga si conclude qui… o forse no!
Il ritorno di Guybrush…
Segnatevi questa data: 19 settembre 2022. Monkey Island ritorna con un nuovo, imperdibile, attesissimo capitolo: Return to Monkey Island. Il team di sviluppo? Ron Gilbert, ideatore, insieme a Dave Grossman dei primi due episodi e infatti Return to Monkey Island inizierà proprio dove Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge si è concluso. Le domande che attanagliano la trama di Monkey Island sono ancora tante: LeChuck e Guybrush sono davvero fratelli?Verrà mai scoperto il reale segreto di Monkey Island?Sarà mai previsto un altro pollo con la carrucola? Speriamo che a queste ma anche ad altre entusiasmanti domande riusciremo ad avere risposta con l’uscita dell’acclamato seguito.
Ah, i picchiaduro! Certamente oggi quello dei beat-them-up non è il genere videoludico più popolare né quello maggiormente al centro dell’attenzione di pubblico e critica. Tuttavia, se con un bel tuffo nel passato ci spostassimo negli ormai lontani anni novanta, troveremmo una situazione ben diversa. In quegli anni, infatti,i picchiaduro, in particolare quelli 1vs1, erano i dominatori incontrastati nel settore, sia per quanto riguarda le console casalinghe sia all’interno delle mai troppo compiante sale giochi. In esse infatti ogni giorno plotoni interi di ragazzi (e non solo) erano pronti a darsi battaglia in sfide all’ultimo sangue ai vari Street Fighter, Mortal Kombat, Fatal Fury e compagnia cantante. Un esempio emblematico di questa situazione era il Neo-Geo, la famosa console SNK, il cui parco titoli era formato praticamente per il 70% da picchiaduro.
Un esempio di sala arcade anni 90, culla del genere dei picchiaduro
Un genere per pochi
Oggi, come già detto poc’anzi, la situazione è molto cambiata. L’enorme diffusione dei giochi mobile e la predilezione dei videogiocatori per altri generi ha relegato i picchiaduro a genere riservato solo agli appassionati. Una delle ragioni di questa situazione è sicuramente da ricercarsi nell’intrinseca difficoltà del genere. Certo, chiunque può prendere in mano un pad e tentare di farsi valere pigiando i tasti alla bell’e meglio. Tuttavia, imparare a giocare in modo corretto ed efficace a un qualsiasi gioco di questo genere richiede tempo, pazienza e allenamento. E non tutti i giocatori sono disposti a sottoporsi a queste condizioni.
Tuttavia proprio la complessità e la profondità di questo genere gli ha permesso di assumere un ruolo di primo piano all’interno del mondo degli esports.
EVO 2022, il più grande torneo di picchiaduro al mondo
Sono numerosissimi infatti i tornei e le manifestazioni, interamente dedicati ai picchiaduro, primo tra tutti il famosoEVO, torneo di livello mondiale che ogni anno ospita i migliori giocatori da tutto il mondo pronti a darsi battaglia coi più famosi picchiaduro sulla piazza.
Ma quali sono oggi i migliori titoli legati al genere Beat them up? È proprio quello che scopriremo all’interno di questo articolo, con una panoramica dei titoli più importanti e famosi del momento. Cercheremo di mostrare cosa caratterizza maggiormente ognuno di questi giochi, in modo da renderci conto di quanto vasto e frastagliato sia il mondo dei giochi di combattimento 1vs1.
Miglior Picchiaduro 3D: Tekken 7
Visto l’ondata di popolarità portata al titolo Bandai Namco dalle recente serie di animazione apparsa su Netflix (Tekken Bloodlines) inizieremo il nostro viaggio proprio dall’ultimo esponente della gloriosa saga di Tekken, ovvero Tekken 7.
Tekken 7, per molti versi è tuttora il dominatore dei picchiaduro 3D
La Saga dei Mishima
Nata nell’ormai lontano 1994 in sala giochi, la serie di Tekken è senz’altro una delle più famose e iconiche all’interno del panorama dei picchiaduro ed è quasi certamente il picchiaduro in grafica 3D più famoso al mondo.
Punti di forza di questa saga sono da sempre la trama, la forte caratterizzazione dei personaggi e il fortissimo equilibrio del suo gameplay. Tutte caratteristiche che ritroviamo espresse al massimo del loro potenziale in Tekken 7.
Il gioco presenta una solida modalità storia, che permette sia di vivere le vicende principali della trama del gioco sia di approfondire le singole storie dei personaggi. La trama della serie Tekken ruota intorno alle faide interne della terribile famiglia Mishima, dominatrice della Mishima Zaibatsu, la più grande multinazionale del mondo. Un ruolo chiave è anche svolto dal Devil Gene, misterioso gene in grado di donare a chi ne è in possesso tremendi poteri demoniaci. La modalità storia di Tekken 7 narra di un punto di svolta epocale all’interno di queste vicende.
Un party molto affollato
Tekken 7 presenta anche un roster solidissimo, con ben 54 lottatori (contando naturalmente anche i DLC), quasi tutti con uno stile di lotta unico. Per l’occasione, Bandai Namco ha aperto le porte anche ad alcune guest star, come Akuma di Street Fighter o Noctis di Final Fantasy XV. Anche sul versante tecnico, è stato fatto un lavoro davvero egregio, con grafica e animazioni che ancora oggi, a 7 anni dall’uscita, non sfigurano minimamente. Anche il comparto sonoro si presenta assolutamente all’altezza, con una serie di tracce rock e techno molto azzeccate e d’atmosfera. Ma concentriamoci ora sul gameplay, aspetto che più ci interessa.
Akuma di Street Figther è stato aggiunto su Tekken 7
Parola d’ordine: profondità
Come abbiamo già precisato, Tekken 7è un picchiaduro 3D a tutti gli effetti. Ciò significa che ai lottatori è possibile spostarsi non solo lungo il loro asse orizzontale, ma anche in profondità, sia tramite spostamenti e schivate laterali, sia attraverso una serie di mosse che porteranno automaticamente il lottatore a muoversi attraverso lo spazio di gioco e attaccare lateralmente, rendendo vani eventuali contrattacchi.
I pulsanti di attacco sono solamente 4, due pugni e due calci, mentre la parata avviene automaticamente premendo indietro. Ogni lottatore dispone di un numero di mosse molto elevato, che dovranno essere memorizzate (almeno in parte) per permettere di ottenere risultati soddisfacenti. Vi è poi una super mossa, attivabile solo quando l’energia rimasta raggiunge un livello molto basso, in grado di ribaltare totalmente l’esito di uno scontro (nonché di generare effetti speciali davvero spettacolari).
Gameplay
La curva di apprendimento del gioco non si presenta eccessivamente ardua e anche un giocatore novizio potrà riuscire a destreggiarsi in maniera efficace. Tuttavia, quando si passa al lato competitivo, le cose cambiano radicalmente. Come spiegato più sopra, i combattenti hanno la possibilità di muoversi in uno spazio tridimensionale. Ebbene, la gestione di questo spazio rappresenta proprio la chiave per comprendere la reale profondità del gioco.
La chiave per giocare a Tekken ad alti livelli è infatti imparare a muoversi correttamente intorno all’avversario, con vari movimenti che lascino sempre al nostro lottatore la possibilità di colpire e allo stesso tempo fungere da “esca”, in modo da mandare a vuoto un attacco avversario e innescare facilmente il proprio contrattacco. Un altro aspetto fondamentale è il cosiddetto calcolo dei frames, ovvero la durata delle mosse. Comprendere questa meccanica rende il giocatore in grado di diventare padrone degli scambi e in grado di mantenersi costantemente in vantaggio.
Kazuya Mishima
Combo aeree
L’ultimo fondamentale elemento sono le combo aeree, croce e delizia di ogni giocatore di Tekken e che spesso rappresentano la chiave per la vittoria. In Tekken, infatti, una volta che si viene lanciati in aria, si resta completamente indifesi. Questo, naturalmente, permette all’avversario di inanellare una serie di mosse una dietro l’altra che talvolta riescono persino a prosciugare la barra della vita senza che il malcapitato che le subisce abbia alcuna opzione di difesa (sebbene in Tekken 7 sia stata inserita una meccanica che va a diminuire costantemente la percentuale di danno subita da queste situazioni). È chiaro quindi come, per un giocatore esperto, risulti fondamentale imparare a memoria queste combo e le situazioni in cui iniziare a inserirle.
Questo è, in sostanza, il gameplay di Tekken 7, un gioco fondato su tempismo, controllo e abilità nelle combo. Tutti questi elementi, combinati insieme, danno spesso vita a scontri assolutamente spettacolari. Una nota di merito va agli effetti di rallenty che vanno a enfatizzare i momenti dello scontro in cui due lottatori attaccano quasi in contemporanea, rendendo incerto fino all’ultimo millisecondo chi sarà a colpire per primo.
Picchiaduro 3D: menzione d’onore
Altri picchiaduro 3D in qualche modo simili a Tekken sono per esempio la serie Soul Calibur, arrivata al sesto episodio. Vi è poi, Dead Or Alive di Tecmo. Per chi invece cercasse un titolo in 3D ancora più profondo e complesso, la scelta non può che cadere sulla saga Virtua Fighter di SEGA.
Miglior Picchiaduro in “finto” 3D: Mortal Kombat 11
E veniamo ora a parlare di Mortal Kombat, serie che, nonostante affondi le sue origini nell’ormai lontano 1992, svolge tuttora un ruolo di primo piano nel panorama videoludico. Dimostrazione di ciò è anche la pellicola del 2021 dedicata al franchise (sebbene la qualità di quest’ultima sia più che discutibile).
La saga di Mortal Kombat è certamente una delle più iconiche della storia dei videogiochi
Violenza e ninja
Giunta ormai addirittura alla sua undicesima incarnazione (Mk11 è uscito nel 2019, ricevendo tutta una serie di aggiunte e aggiornamenti in questi anni, fino alla versione Ultimate) la saga di Mortal Kombat è riuscita fin da subito a conquistare i cuori dei videogiocatori grazie alla sua grafica fotorealistica e a quello che è da sempre il suo tratto più caratteristico: l’enorme dose di violenza.
In ogni titolo della serie, infatti, i combattimenti sono letteralmente infarciti di violenza e spruzzi di sangue. Alla fine dello scontro, sarà anche possibile infliggere il colpo di grazia al proprio avversario tramite le famose fatality. Esse talvolta raggiungono un tale livello di brutalità e sadismo da non sfigurare persino in un film dell’orrore.
Il torneo del destino
Come per Tekken, anche in Mortal Kombat il fattore trama ha sempre avuto un ruolo molto importante all’interno della saga. Il primo Mortal Kombat fu il primo picchiaduro in cui i vari background dei personaggi venivano mostrati durante la demo dell’arcade.
L’episodio reboot della serie, pubblicato nel 2011 semplicemente col titolo Mortal Kombat, fu il primo picchiaduro a presentare una vera e propria modalità storia cinematografica. In essa il giocatore avrebbe vestito i panni di tutti i vari lottatori a seconda delle esigenze della trama.
La storia di Mortal Kombat ruota intorno all’eterna lotta tra il bene e il male, qui incarnata in un grande torneo, chiamato proprio Mortal Kombat. In esso le forze della Terra e quelle del Regno Esterno si sfidano ciclicamente per la sopravvivenza e il predominio. In questa vicenda si intrecciano le storie dei vari protagonisti, alcuni talmente famosi da essere divenuti vere e proprie icone pop, come i due ninja Scorpion e Sub-Zero.
Piatto ricco mi ci ficco
Ma passiamo ora in modo più specifico a Mortal Kombat 11. Se c’è una parola che più di ogni altra riesce a descrivere questo titolo essa è senz’altro “completezza”.
Mortal Kombat 11 infatti presenta un’offerta in grado di soddisfare qualsiasi tipo di giocatore, con un numero enorme di modalità.
Oltre alle ormai rodate storia e arcade, spicca la modalità Torri, che permette al giocatore di mettersi alla prova contro una serie di avversari assortiti in modo sempre diverso. In questi scontri avremo una nutrita serie di bonus, malus e condizioni particolari (oscurità, ribaltamento dei comandi, interferenze di personaggi esterni ecc.). Molte di queste torri si aggiornano costantemente, in modo che i giocatori possano sempre trovare una sfida nuova e fresca con cui confrontarsi.
The Joker su Mortal Kombat 11
L’online si presenta ricchissimo di modalità differenti, con sfide causal e lotte competitive con tanto di ranking. Ritorna anche la modalità re della collina (in cui ogni sfidante continua a lottare finchè non viene battuto e chi lo sconfigge prende il suo posto).
La modalità training è forse la più ricca e completa mai vista in un picchiaduro. Essa permette di conoscere e approfondire sia la conoscenza base dei personaggi, sia l’apprendimento di meccaniche avanzate utili per i match competitivi.
Per i collezionisti, infine, la modalità kripta offre tonnellate di skin, bozzetti e oggetti bonus.
Anche il roster dei personaggi è davvero impressionante e presenta anche tutta una serie di star del mondo cinematografico, come Joker, Rambo, Robocop e Terminator.
La potenza è nulla senza controllo
E arriviamo finalmente al gameplay, l’aspetto che maggiormente ci interessa. Ho definito Mortal Kombat un gioco in finto 3d dal momento che, pur presentandosi con una veste grafica di ultimissima generazione, i lottatori possono muoversi unicamente lungo l’asse orizzontale, come nei tradizionali picchiaduro 2D.
Questa scelta porta da una parte a ricreare molte delle meccaniche e delle sensazioni dei classici capitoli 2D della saga; dall’altra sposta l’attenzione dal controllo dello spazio al controllo del personaggio stesso.
Anche in MK, come in Tekken, il numero di comandi è estremamente semplice. Avremo due tipi di pugni, due calci più la parata, le prese e alcune interazioni con l’ambiente. Ogni personaggio avrà poi il suo set di mosse speciali e combo base, che potranno essere apprese e padroneggiate nella modalità allenamento.
Imparare le regole base del gioco risulterà piuttosto semplice, anche grazie all’eccellente fluidità dei movimenti e al ritmo incalzante dei combattimenti. Ma, ancora una volta, riuscire a giocare in modo realmente competitivo richiederà molte ore di studio, esercizio e osservazione.
L’evoluzione delle Fatality su Mortal Kombat 11
Una sanguinosa partita a scacchi
Come accennato, infatti, la chiave del successo in Mortal Kombat risulterà nell’avere il maggior controllo possibile sul propriopersonaggio. Ciò vale sia in fase di attacco sia, soprattutto, quando ci troveremo in difesa.
Anche in questo caso, infatti, ogni singolo movimento del nostro personaggio è caratterizzato da una particolare durata (i famosi frames). Risulterà fondamentale conoscere perfettamente sia il proprio set completo di mosse sia quello di ogni singolo personaggio, in modo da sapere quali siano le potenziali risposte vincenti a ogni singola situazione.
Occorrerà inoltre imparare a non abusare dei salti, i quali, sebbene molto comodi per avvicinarsi rapidamente al nemico, lasciano spesso completamente scoperti e vulnerabili.
Gli sviluppatori hanno inoltre fatto la scelta di ridurre, in generale, l’ammontare di danni causato dagli attacchi e soprattutto dalle combo. In questo modo si evitano situazioni in cui un giocatore debba pagare un singolo errore con la perdita dell’intero round. Questa scelta rende il gameplay ancor più tattico e ragionato e trasforma le sfide in vere e proprie partite a scacchi in cui la vittoria arriderà a chi saprà maggiormente controllare l’andamento dello scontro e le varie dinamiche che si creeranno in esso.
Picchiaduro in finto 3D menzione d’onore
Per chi cercasse altri giochi con caratteristiche simile ad MK11 non si può non consigliare la serie Injustice. Essa propone un gameplay molto simile a Mortal Kombat inserito in una versione distopica dell’universo DC.
Miglior Picchiaduro 2.5D: Street Fighter V
Ed eccoci arrivati al re dei picchiaduro! Nessuno più di Street Fighter, infatti, può fregiarsi con maggior merito di questo titolo.
Fu proprio l’avvento di Street Fighter 2 nelle sale giochi, nell’ormai lontano 1991, a generare quell’onda di interesse e passione che rese il genere dei picchiaduro il più giocato e apprezzato sulla piazza.
Ogni cosa all’interno di Street Fighter è ormai divenuta iconica. I suoi leggendari personaggi (nomi come Ryu, Ken, Chun-Li o Guile sono conosciuti a praticamente chiunque abbia mai preso in mano un pad), i suoi notissimi brani musicali e, naturalmente, i nomi delle tecniche dei protagonisti, ormai entrate di diritto nel mito (Hadouken!).
La saga di street fighter è stata a lungo sinonimo di picchiaduro
L’ultimo erede della dinastia
L’eredità di Street Fighter viene ancora oggi portata avanti degnamente da Capcom con l’ultimo capitolo uscito, Street Figher V. Per questo gioco Capcom ha adottato una strategia simile a quella utilizzata a suo tempo con Street Fighter 2. Sono state infatti rilasciatenel tempo tutta una serie di versioni rivedute e corrette del titolo. Esse sono uscite principalmente tramite aggiornamenti, ma anche con release vere e proprie delle versioni “potenziate”.
L’ultima di queste versioni è stata Street Fighter V Champion Edition. Questo gioco che ha proposto un roster di personaggi davvero nutrito (ben 40 lottatori) comprendente tutti i vari DLC rilasciati nel tempo. Inoltre ha unito tutte le modalità già viste in SFV e in SFV Arcade Edition (le principali sono Storia, Arcade, Sopravvivenza e naturalmente Online).
In modo simile a Mortal Kombat, Street Fighter presenta una formula in “finto 3D”, con sfondi e personaggi realizzati in 3D che però potranno spostarsi solamente lungo l’asse orizzontale. A differenza del titolo di NetherRealm, però, Street Fighter V sfoggia una grafica dai toni molto più colorati e cartooneschi, che meglio si adattano alle atmosfere e ai protagonisti del titolo Capcom.
Rispetto ai titoli presi in esame finora, la trama in SFV ha un ruolo decisamente secondario, sebbene i personaggi risultino tutti estremamente interessanti. Il tutto si riduce ai malvagi piani dell’organizzazione Shadaloo, guidata dal perfido M. Bison, per la conquista del mondo e alle azioni dei protagonisti per fermarla.
Ken, storico personaggio di Street Fighter
Solo per veri campioni
Il cuore di Street Fighter V infatti sta nello scontro vero e proprio e, in particolare, nello scontro pvp. A differenza di Tekken o Mortal Kombat, infatti, Street Fighter è un gioco quasi unicamente rivolto ai giocatori esperti. Senza se e senza ma.
Ogni lottatore ha a disposizione tre attacchi con i pugni (debole, medio e forte) e altrettanti con i calci. A questi si andranno ad aggiungere le varie mosse speciali di ogni personaggio (circa quattro o cinque). Ci saranno poi le V-skills, attacchi o abilità uniche a cui il personaggio potrà ricorrere tramite la pressione contemporanea del pugno e del calcio medio.
Fa il suo ritorno anche la barra ex, indicatore che va riempiendosi via via che lo scontro prosegue a seconda dei colpi messi a segno. Questa barra sarà divisa in tre tacche. Ognuna di esse, una volta riempita, consentirà di eseguire una versione “potenziata” di ognuna delle nostre mosse speciali. Quando la barra sarà totalmente piena il giocatore potrà ricorrere alla critical art, supermossa dalla potenza devastante.
Street Fighter V propone inoltre una seconda barra, denominata V. A essa sarà legato il V-trigger, una particolare abilità a cui il giocatore potrà ricorrere solo dopo aver incassato una certa quantità di colpi.
Senza margine di errore
Per poter avere anche solo la minima possibilità di progredire in SFV, il giocatore dovrà conoscere ognuno di questi attacchi alla perfezione. Il sistema di controllo di Street Fighter è di una precisione millimetrica ed è pronto a punire ogni singolo errore in maniera anche spietata.
Inoltre Street Fighter V, salvo rari casi, non propone vere e proprie combo standard da imparare. Infatti ogni singolo attacco può essere concatenato all’altro. Starà quindi al giocatore comprendere le combinazioni più efficaci con la pratica e l’osservazione dei suoi avversari.
Tutti i concetti che abbiamo affrontato in precedenza, (framing degli attacchi, gestione dello spazio e controllo del personaggio) ora vengono portati agli estremi. Il giocatore dovrà imparare a essere costantemente in guardia, sia che si trovi in una posizione di stallo (neutral), in attacco o sulla difensiva.
Frame e data frame sono fondamentali nei picchiaduro
Un picchiaduro da competizione
Quindi è chiaro che, per raggiungere risultati positivi, occorreranno ore di gioco e numerosissimi incontri di pratica. Tuttavia, la soddisfazione che si prova al raggiungimento dei primi risultati è davvero incredibile, molto simile alla conquista dei primi successi nelle attività sportive.
Non a caso, Street Fighter V è ancora oggi il dominatore indiscusso dei vari circuiti legati al mondo degli esport. Questo grazie soprattutto ai numerosi Capcom Pro tours, eventi competitivi organizzati da Capcom stessa e al ruolo di main eventer assoluto che Street Fighter V ha rivestito negli ultimi anni all’interno dell’EVO.
Miglior picchiaduro a squadre: Dragon Ball Fighterz
Alzi la mano chi, tra coloro che leggono, non ha mai visto Dragon Ball o addirittura non ha mai sentito parlare di questa serie. Il capolavoro di Akira Toriyama, nato sulle pagine di Shonen Jump nel 1984, è indiscutibilmente il manga/anime più famoso e seguito al mondo.
Si può ben dire che le avventure di Goku e dei suoi amici alla ricerca delle sfere del drago, tra situazioni demenziali, avventure ai confini dell’universo e combattimenti all’ultimo sangue, abbiano ormai guadagnato un posto importante nell’immaginario collettivo della nostra società.
Ancor più dall’inizio della serie Super, che, a partire dal 2016, ha ripreso e portato avanti la trama del manga, ferma ormai dalla metà degli anni ’90, rendendo il brand di Dragon Ball ancora più “vivo” e attuale.
Dopo anni di sofferenza ecco il picchiaduro di riferimento per i fan di Dragon Ball
Una tradizione di cui non andare fieri
Naturalmente, nel corso di tutta la sua storia, la saga di Dragon Ball ha visto il proliferare di un numero davvero incalcolabile di videogiochi a essa dedicati.
Fin dai tempi del NES, a quelli della PS4, sono davvero molti i titoli usciti dedicati a Dragon Ball, con una prevalenza per gli rpg e, naturalmente, per i picchiaduro.
La maggior parte di questi titoli, sfortunatamente, erano assolutamente mediocri e dimenticabili, spesso ben al di sotto delle aspettative dei fan (mi limito qui a ricordare l’osceno Dragon Ball Final Bout per la prima playstation, uno dei picchiaduro 3D peggiori di sempre).
Le cose cominciarono a migliorare con serie come Budokai, Budokai Tenkaichi e i più recenti Xenoverse, che, pur senza risultare capolavori, seppero alzare in modo importante la qualità dei titoli legati al mondo di Dragon Ball.
Giungiamo così al 2018, anno in cui Arc System Works, casa produttrice già famosa per la serie Guilty Gear, realizza Dragon Ball Fighterz, titolo poi edito da Bandai Namco.
Combattiamo!
Il gioco si presenta come un picchiaduro 2D a squadre, nel quale ogni giocatore dovrà selezionare un gruppo di tre combattenti per fronteggiare altrettanti guerrieri nemici, finché tutti i lottatori di una delle due squadre non saranno annientati.
Il titolo non presenta particolari artifici di trama o elaborati collegamenti con l’anime a cui si ispira. Certo, esiste una modalità storia ma sembra quasi un riempitivo, giusto per spiegare in qualche modo la presenza di personaggi che nella continuity della saga dovrebbero essere defunti.
Anche per quanto riguarda il numero di modalità, il gioco non propone nulla di particolarmente innovativo, oltre agli ormai noti arcade, allenamento, modalità online e storia (sebbene uno dei successivi aggiornamenti abbia introdotto anche la modalità camp, composta da una serie di sfide più varie e particolari).
Basterà tuttavia impugnare il joypad e iniziare ad addentrarsi negli scontri per rendersi conto di come il cuore di FighterZ sia nel suo eccezionale gameplay e nell’incredibile spettacolarità dei suoi combattimenti.
Gli assist in Dragon Ball FighterZ
Anime Interattivo
Per quel che riguarda la grafica, il lavoro compiuto da Arc Syetm è semplicemente magistrale. I modelli dei protagonisti sono identici a quelli della serie originale e sono animati con una fluidità e un’eleganza dei movimenti degna delle più recenti produzioni cinematografiche (addirittura, ogni singolo movimento di ogni lottatore è stato ricalcato da tavole originali del maga o da schizzi dell’anime!).
Per quanto concerne il gameplay, invece, esso si presenta subito come piuttosto complesso. Le sfide avverranno 1vs1, con gli altri due personaggi che faranno da supporto e potranno essere chiamati all’azione in ogni momento per sostituire il personaggio attivo o semplicemente per eseguire un attacco di supporto.
Affinare le proprie armi
I personaggi potranno muoversi solo lungo l’asse orizzontale e avranno la possibilità di eseguire due tipi diversi di salto (più lungo o più corto) e anche un doppio salto a mezz’aria. Il giocatore avrà poi a disposizione tre tipologie di attacco (rapido medio e potente), la possibilità di sparare un proiettile di aura e di eseguire una presa, qui chiamata dragon rush, in grado di generare automaticamente una combo.
Ogni combattente avrà anche a disposizione uno scatto (sia a terra che in aria) e persino un super scatto, che ci proietterà automaticamente contro il nemico, innescando possibili combo. Nelle prime fasi di gioco sarà molto semplice abusare di questa tecnica, ma ci renderemo presto conto di quanto essa vada invece usata con attenzione, dal momento che lascia totalmente scoperti a possibili contrattacchi.
Ogni personaggio avrà poi naturalmente a disposizione le proprie mosse speciali e due attacchi dell’aura (denominati attacco speciale e attacco finale), eseguibili tramite l’apposita barra (che può essere caricata automaticamente premendo due tasti insieme) che andranno a consumare rispettivamente uno e tre indicatori del suddetto indicatore. Questi attacchi sono naturalmente molto spettacolari e distruttivi e propongono animazioni di fattura davvero pregevole, andando a ricalcare tutte le mosse segrete più devastanti sfoggiate dai personaggi nel corso dell’anime. La barra dell’aura può arrivare fino a sette indicatori e sarà addirittura possibile eseguire in serie i colpi dell’aura di tutti e tre i nostri lottatori, con risultati a dir poco apocalittici (anche per i fondali!).
Dragon Ball FighterZ è probabilmente il miglior gioco di sempre dedicato all’anime
Il signore delle combo
Rispetto ai picchiaduro affrontati finora, con FighterZ la parola d’ordine è una soltanto: combo!
Il sistema di gioco creato da Arc System infatti si basa fondamentalmente nel riuscire a creare un’apertura nelle difese nemiche per poi andare a inanellare il maggior numero di colpi possibile (si può facilmente superare il centinaio di colpi consecutivi!) per riuscire a decimare i personaggi nemici con una singola offensiva.
Naturalmente, un simile stile di gioco richiede molta pazienza e applicazione. Oltre a dover imparare A MENADITO le combo più potenti dei nostri combattenti (il tutorial in questo purtroppo è abbastanza carente) ed essere in grado di eseguirle sempre alla perfezione, senza errori (il gioco propone anche un sistema di autocombo per venire incontro ai novizi, ma ci si renderà presto conto di quanto esse risultino poco efficaci in una sfida contro un giocatore esperto), sarà altrettanto importante imparare a gestire le primissime fasi del combattimento (il cosiddetto neutral) per evitare passi falsi e mosse avventate e riuscire a cogliere il momento esatto per dare il via alla nostra offensiva e mettere a segno devastanti combinazioni di colpi, super, attacchi di supporto e tutto quanto ci sarà nel nostro arsenale.
Certo, uno stile incentrato in modo così ossessivo sulle combo potrà sembrare poco divertente, ma assicuriamo che si sposa perfettamente sia con l’atmosfera del gioco che coi ritmi indiavolati delle battaglie.
Lavoro di Squadra
Infine, ricordiamo come anche la scelta delle squadre necessiti di molta strategia. I personaggi infatti non andranno scelti solo in base alla nostra capacità di destreggiarci con essi, ma anche in base al ruolo che intendiamo affidare loro.
Il personaggio iniziale sarà colui che avrà il compito di iniziare a mettere a segno le prime combo e, soprattutto, di accumulare gli indicatori d’aura. Il personaggio mezzano disporrà di solito di un attacco di supporto molto forte o comunque insidioso e dovrà essere pronto a sostituire il primo in ogni momento della battaglia. L’ultimo, infine, dovrà capitalizzare il lavoro della squadra, sfruttando gli indicatori messi da parte per scatenare tremendi attacchi in grado di andare a eliminare i membri della squadra avversaria.
Dunque è chiaro come FighterZ rappresenti un incredibile mix tra la frenesia e la velocità delle sue battaglie e la strategia e la tattica per quanto riguarderà la scelta della squadra e la pratica con essa.
Picchiaduro a squadre menzione d’onore
Titoli che richiamano in qualche modo FighterZ sono la serieGuilty Geardi Arc System e la saga crossover Marvel vs Capcom, il cui ultimo episodio, Infinite, ha dato però una sterzata in favore dei giocatori più casual.
La nuova frontiera dei picchiaduro: Super smash Bros Ultimate
E concludiamo il nostro viaggio con quello che è diventato, a tutti gli effetti, il nuovo dominatore del mercato dei picchiaduro. Con quasi 30 milioni di copie vendute, infatti, Super Smash Bros Ultimate è a tutti gli effetti il picchiaduro più venduto di sempre, dopo essere riuscito nell’impresa di superare persino le vendite di un mostro sacro come Street Fighter 2.
Ultimate rappresenta il quarto capitolo dell’ormai leggendaria saga super smash bros, nata nel 1999 su Nintendo 64 ed è apparso su nintendo Switch nel dicembre del 2018.
Benvenuti al party Nintendo delle mazzate!
Botte per tutti i gusti
Se per descrivere Mortal Kombat 11ero ricorso al termine completezza, per Ultimate il termine più consono sarebbe abbondanza. In questo gioco infatti si ha enorme abbondanza di ogni cosa: a partire dai personaggi giocabili (arrivati, grazie ai DLC, all’incredibile cifra di 89), proseguendo per il numero degli stage (espandibile quasi all’infinito grazie all’editor), delle modalità (c’è davvero di tutto: classica, sopravvivenza, avventura, gara di home run, sfide personalizzabili…) e dei bonus e sfide sbloccabili.
Sembra davvero di trovarsi non di fronte a una torta, ma di un’intera pasticceria, al punto che riesce quasi difficile orientarsi all’interno delle possibilità offerte.
Un picchiaduro insolito
Per quanto riguarda il gameplay, il gioco ripropone quasi inalterata la formula vincente dei suoi predecessori.
A differenza dei picchiaduro tradizionali, in Smash Bros l’obiettivo non sarà quello di mandare a zero la barra dell’energia dell’avversario (anche se è possibile giocare anche in questa modalità), bensì riuscire a scagliare il proprio avversario fuori dallo schermo. Per fare ciò però sarà molto importante riuscire a danneggiarlo a sufficienza coi nostri attacchi, finché la percentuale di danno subita dal suo personaggio non sarà sufficientemente alta da permetterne l’eliminazione.
I comandi del gioco sono in apparenza molto semplici: un pulsante per l’attacco, uno per le mosse speciali, uno per il salto, uno per la parata e uno per la presa.
Da questa premessa, il gioco crea un numero incredibile di varianti, con sfide da un minimo di 2 fino a 8 combattenti, incontri a coppie, incontri di sopravvivenza contro stormi di avversari, sfide contro nemici giganti e chi più ne ha più ne metta.
La varietà è tale che, anche in single player, il gioco risulta sempre estremamente fresco e divertente.
Un originale party game
Come ogni picchiaduro che si rispetti, però, Ultimate mostra il meglio di sé nelle sfide multigiocatore.
In questo particolare caso, tuttavia, occorre fare una distinzione. Come accennato in precedenza, smash permette di competere a un massimo di otto contendenti.
Inoltre il gioco presenta stage estremamente complessi e diversificati tra loro, con piattaforme, ostacoli, fasi a scorrimento, rotazioni improvvise dell’asse di gioco e moltissime altre stranezze. Come se non bastasse, durante la sfida appariranno casualmente nello stage una serie di armi e potenziamenti, spesso in grado di capovolgere l’andamento dello scontro.
Ciò vale soprattutto per le capsule degli alleati e la famosa sfera smash, che se spezzata permetterà di ricorrere ai famosi attacchi smash, devastanti tecniche in grado di regalare facilmente una o più eliminazioni.
Super Smash Bros. Ultimate è anche un party game
Con l’anima di un vero picchiaduro
È chiaro come tutti questi fattori aumentino di molto la randomicità delle battaglie, con una serie di dinamiche che male si sposano con la natura competitiva di un picchiaduro, ricordando più da vicino i party games.
Le sfide saranno rigorosamente 1vs1 (o 2vs2 nel caso di gioco a squadre) a vite (di solito 3) in stage di dimensioni ridotte e assolutamente privi di qualunque tipo di ostacolo o azzardo, e senza alcun tipo di arma o bonus, eccezion fatta, a volte, per la sfera smash.
Giocato in questa maniera, Smash sembra un titolo totalmente diverso e rivela tutta la sua complessità e profondità.
La chiave per il successo
Ogni personaggio, infatti, è dotato di un set di mosse e attacchi speciali estremamente vasto, dal momento che entrambi i pulsanti di attacco andranno a combinarsi con la levetta direzionale per generare un numero elevatissimo di tecniche diverse.
Inutile sottolineare che, per riuscire a giocare in modo efficace, il giocatore sarà chiamato ad avere una conoscenza e un controllo praticamente totali del suo personaggio e delle sue caratteristiche. Con un roster sconfinato come quello di Ultimate, sarà davvero arduo memorizzare le caratteristiche e i movimenti di ogni lottatore e raggiungere un buon livello richiederà davvero moltissima pratica e dedizione.
Scalata verso il successo
Il primo passo sarà imparare in modo perfetto i movimenti, in particolare i salti, onde evitare errori grossolani ed eliminazioni banali.
Occorrerà poi individuare la tipologia di personaggio più adatta al nostro stile di gioco (personaggi bilanciati, veloci, massicci, specializzati negli attacchi a distanza, ecc.).
Inoltre, bisogna scegliere quello che tra tutti si adatta maggiormente alle nostre caratteristiche e studiarne ogni attacco e movimento fin nei minimi dettagli.
L’ultimo passo, il più complesso, sarà imparare a conoscere anche tutti gli altri personaggi di Smash, in modo da comprenderne punti di forza e debolezze e avere un gameplan con cui affrontare ognuno di loro.
Ancora una volta, è chiaro che tutti questi passi richiederanno moltissimo tempo e molta, molta pratica, ma in fondo è proprio questo il bello dei picchiaduro: impegnarsi e fare costantemente pratica per riuscire a migliorarsi e diventare sempre più performanti, senza scorciatoie, trucchi o potenziamenti, ma solo con le nostre abilità e la nostra voglia di vincere.
Il 21 aprile 1989 esce in Giappone una nuova console portatile: il Nintendo Game Boy. L’hardware non è il più potente in circolazione e lo schermo LCD è in bianco e nero, o meglio in verde e nero. Nell’odierna folle corsa alle prestazioni, molti direbbero che il Game Boy meriterebbe di fallire, esattamente come gli stessi già dicono di Nintendo Switch. Questa parte della community evidentemente non ha imparato la lezione del Game Boy, la console portatile più iconica della storia videoludica.
La console war tascabile
Nella storia dei videogiochi, il 1989 e il 1990 sono ricordati come l’anno delle console portatili. Nintendo, SEGA e Atarisi contendono il primato sul mercato, rispettivamente, con Game Boy, Game Gear e Lynx.
SEGA e Atari si concentrano sul fornire un prodotto potente e che possa garantire alte performance. Nintendo, invece prende una direzione diversa: Hiroshi Yamauchi, presidente dell’epoca e nipote di Fusajiro, fondatore di Nintendo, chiede che la nuova console debba essere accessibile a tutti: il suo costo non deve superare i 100 dollari.
Il progetto è affidato al team R&D1 diretto da Gunpei Yokoi, autorevole figura della compagnia grazie ai successi ottenuti con i Game & Watch e oggi ricordato come leggenda del mondo videoludico: ha inventato i controller con croce direzionale. Con Yokoi, Nintendo prende la scelta più naturale: la futura console portatile dovrà essere la naturale evoluzione dei Game & Watch.
Gunpei Yokoi
Game & Watch
Nel 1980, Nintendo vende i primi Game & Watch, videogame portatili composti da uno schermo LCD e un microprocessore. Gunpei Yokoi ebbe l’intuizione dei Game & Watch guardando un annoiato business man giocare con la sua calcolatrice elettronica durante un viaggio in treno.
Cosa hanno in comune una calcolatrice elettronica e una console portatile? Uno schermo LCD. I Game & Watch permettono di giocare a un singolo titolo, solitamente molto semplice nel suo game design. In particolare, per abbassare i costi e necessità computazionali, i Game & Watch hanno uno sfondo di gioco statico disegnato sullo schermo LCD. L’idea di portare la tecnologia LCD nel mondo dei videogiochi è un vero successo: i Game & Watch vendono oltre 43 milioni di unità, più di Nintendo 64 e quasi il doppio rispetto alla prima Xbox e GameCube.
Game & Watch
L’evoluzione di un successo
Nel 1990, il Nintendo Research & Development No. 1 Department deve evolvere il concetto di Game & Watch lavorando su due punti: creare un’unica console che possa far giocare a più videogiochi e mantenere un basso prezzo di vendita.
Un progetto complicato, ma possibile grazie alle novità tecnologiche che rendono quell’anno il periodo perfetto per portare sul mercato nuove console portatili: il bassissimo costo dei display LCD, di cui il Giappone diviene il maggior fornitore grazie ad aziende come SHARP, che garantirà gli schermi alla nuova creatura di Nintendo.
Il Game Boy e il suo schermo LCD
Successo immediato
Dopo un travagliato sviluppo, non privo di veleni interni all’azienda, il Game Boy vede la luce con un obiettivo ben preciso: dare la possibilità ai videogiocatori di godersi i titoli del NES in portabilità; di conseguenza, il naturale candidato a primo gioco della storia del Game Boy sembra essere Super Mario. In realtà, i videogiochi disponibili all’uscita, in Giappone, sono quattro: Super Mario Land, Tetris, Alleyway e Yakuman. In Europa, invece i titoli disponibili al day one furono gli stessi a meno di Yakuman, che mai uscì dai confini nipponici.
Sorprendentemente, negli Stati Uniti il Game Boy esce con un titolo pre-installato: Tetris. La scelta è presa direttamente dal presidente di Nintendo America, Minoru Arakawa, che vede nel puzzle game per PC il titolo con maggior appeal per il pubblico statunitense. La sua intuizione è corretta: durante tutta la storia, il Game Boy venderà di più soprattutto in Nord America.
Purtroppo, Nintendo non ha mai fornito dati per ogni singola versione del Game Boy prodotta, ma possiamo comunque confermare che è stato un successo sin dal primo giorno. In tutta la sua storia, il Nintendo Game Boy (e Game Boy Color) ha venduto oltre 118 milioni di unità. Numeri straordinari che risultano ancora più sorprendenti se pensiamo che il Game Boy è la terza console più venduta di sempre (battuta solamente da PlayStation 2 e Nintendo DS), mentre i suoi rivali diretti, SEGA Game Gear e Atari Lynx, hanno venduto rispettivamente 10,5 e 3 milioni di unità.
Vendite del Game Boy per regione di vendita (in milioni)
Analisi di un successo tascabile
Come anticipato all’inizio di questo articolo sulla storia del Game Boy, la console portatile Nintendo era la peggiore in termini di prestazioni e qualità del suo schermo; di conseguenza, come ha fatto Nintendo a vincere la grande guerra del portable?
Il grande vantaggio di Game Gear e Atari Lynx rispetto al Game Boy era lo schermo LCD. I competitor Nintendo vantavano uno schermo LCD a colori, mentre la console Nintendo aveva un display in bianco e nero senza retroilluminazione. Questo malus garanti però al Game Boy tre plus che fecero la differenza: numero e durata delle batterie; dimensioni; prezzo di vendita.
Il Game Boy necessitava di 4 batterie per una durata di gioco di più di 10 ore; Game Gear e Lynx richiedeva 6 batterie e aveva una durata di meno di 5 ore.
Inoltre, il Game Boy entrava in una tasca dei jeans, poiché la dimensione della sua prima versione era 148 x 90 x 32 mm. Non si può dire lo stesso del Game Gear (209 x 111 x 37 mm) e soprattutto di Atari Lynx (273 × 108 × 38 mm). Questa feature ha reso il Game Boy una console tascabile, invece che portatile.
Game Boy, Game Gear e Atari Lynx: dimensioni a confronto
Lunga vita al Re
L’immediato successo della console garantì al Game Boy una vita lunga 14 anni con svariate versioni più o meno migliorate.
La prima è il Game Boy Play It Loud! (1995), che ottiene uno speaker, ma soprattutto aggiunge varie colorazioni alla scocca. La vera rivoluzione è il Game Boy Pocket (1996): le dimensioni sono ridotte, lo schermo migliorato, ma ancora in bianco e nero e soprattutto richiede solamente due batterie mini stilo. Inoltre, un’interessante versione denominata GameBoy Light (1997) viene resa disponibile nel solo Giappone: lo schermo è ora retroilluminato. Infine, la perfezione è raggiunta con il Game Boy Color (1998): lo schermo LCD è a colori e viene presentato in Occidente insieme al Re dei giochi tascabili: Pokémon Rosso/Blu.
Game Boy Color
I giochi più venduti su Game Boy
La grande forza di Nintendo sono sempre stati i titoli proprietari; in particolare, il Game Boy ha potuto attingere alla vasta libreria della storia Nintendo e in particolare di NES. Questo ha permesso alla tascabile di Nintendo di avere una libreria di oltre 1000 videogiochi.
La classifica dei giochi più venduti vede in testa sei nomi; in ordine di successo: Pokémon, Tetris, Super Mario, Donkey Kong, Kirby e The Legend of Zelda.
Videogiochi Game Boy
Pokémon su Game Boy
Tutto ebbe inizio il 27 febbraio 1996 con Pokémon Rosso e Verde. Il 15 ottobre dello stesso anno arriva, in Sol Levante, anche Pokémon Blu. Solo il 5 ottobre 1999 sarà il turno anche di noi europei.
Gli aneddoti sui Pokémon sono tantissimi così come il suo incredibile successo, che ha indubbiamente influenzato anche le vendite del Game Boy Color; del resto, Pokémon Blu, Giallo, Rosso e Verde hanno venduto oltre 46 milioni di copie in tutto il mondo.
Tra i grandi successi di mercato, vale la pena citare anche Pokémon Oro, Argento, Cristallo che hanno collezionato oltre 24 milioni di copie vendute, Pokémon Pinball con più di cinque e il mio spin-off preferito, Pokémon Trading Card Game con più di tre milioni di unità vendute.
Le versioni nipponiche di Pokémon Rosso e Verde
Il franchise, che su Game Boy ha totalizzato il numero record di 84.54 milioni di copie vendute tra tutti i titoli, deve molto del suo successo proprio alla console, piuttosto che il viceversa; infatti, quando uscirono Pokémon Rosso e Verde, il Game Boy era già entrato nella storia come la console più venduta di sempre e si era già affermata da quasi un decennio come un successo planetario. D’altro canto, il termine Pokémon è un’abbreviazione di Pocket Monsters, cioè mostri che sono potuti essere tascabili proprio grazie alla sua console nativa.
Tetris: dove tutto ha avuto inizio
Probabilmente il Game Boy sarebbe stata la miglior console tascabile del suo tempo e una delle migliori di tutti i tempi anche senza l’intuizione di Minoru Arakawa, ma non possiamo negare che Tetris abbia velocizzato il processo. Dopo Pokémon, Tetris è il videogioco con il maggior numero di copie vendute: 35 milioni! Numero mai raggiunto nemmeno dalla seconda generazione di Pokémon né dall’intera saga di Super Mario su Game Boy.
I successivi Tetris 2 e Tetris DX non hanno avuto i numeri assurdi del primo capitolo, ma insieme superano comunque le tre milioni di copie vendute.
Bundle Game Boy con Tetris
Super Mario su Game Boy
Super Mario significa Nintendo e viceversa. Non stupisce dunque che l’idraulico italiano sia presente in questa speciale classifica. Inoltre, considerando che Super Mario non è mai stata soltanto una saga di platform, non deve nemmeno stupire che i giochi con milioni di vendite siano tanti e di diversa natura.
I titoli di Super Mario hanno collezionato nella storia di Game Boy vendite per 34.39 milioni di unità. Il più venduto è Super Mario Land, mentre il secondo è Super Mario Land 2: 6 Golden Coins con, rispettivamente, 18 e 11 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Tutti gli altri titoli che superano il milione di copie si assestano, ognuno, intorno alle 5 milioni di unità vendute: Dr. Mario; Wario Land: Super Mario Land 3 e Super Mario Bros. Deluxe. Fanalino di coda con poco meno di 2 milioni: Mario Tennis.
Super Mario Land
Donkey Kong di Rare
La storia di Donkey Kong è alquanto bizzarra e richiederebbe svariati articoli. La serie dello scimmione nipponico ha dato il via alle grandi IP di Nintendo, ma ha subito anche bruschi stop. Il Game Boy ha avuto il pregio di rilanciare la serie, anche grazie all’incredibile lavoro svolto da Rare tra il 1994 e il 1997.
Donkey Kong ha totalizzato vendite per 12.55 milioni di unità grazie a giochi di qualità eccelsa. Il più venduto con quasi 4 milioni di unità vendute è: Donkey Kong Land; segue il porting della versione arcade, denominato semplicemente Donkey Kong con 3 milioni. Inoltre, hanno superato il milione di copie vendute anche Donkey Kong Land 2 (2 milioni), la remastered del titolo per Super Nintendo: Donkey Kong Country (2 milioni) e Donkey Kong Land 3 (1 milione).
Donkey Kong Land nipponico
Kirby su Game Boy
Noi europei non abbiamo mai veramente capito la serie della palletta rosa. Del resto, gli oscuri nemici di Kirby sono tra le cose più inquietanti che io abbia mai visto. I giapponesi, invece lo adorano e i dati lo dimostrano: Kirby ha venduto complessivamente, su Game Boy, 10.91 milioni di copie superando anche l’iconica saga di The Legend of Zelda.
Kirby’s Dream Land ha ottenuto il record di 5 milioni di copie vendute, mentre il sequel si è fermato a poco più di 2 milioni di unità. Completano l’opera gli spin-off Kirby’s Pinball Land con 2 milioni e Kirby Tilt ‘n’ Tumble (mai arrivato in Europa) con un milione di unità vendute.
Kirby’s Dream Land
The Legend of Zelda su Game Boy
La saga di Link non ha ricevuto molte trasposizioni per Game Boy. Il motivo lo si può trovare nei due capolavori degli anni ’90 per Nintendo 64: Ocarina of Time e Majora’s Mask. Questi due titoli hanno oberato di lavoro i team di sviluppo, diminuendo la potenza di fuoco creativa per la versione tascabile. Nello specifico, The Legend of Zelda: Link’s Awakening è divenuto un videogioco con una propria trama solamente quando Takashi Tezuka prese la direzione del titolo; infatti, l’idea originale era di portare su Game Boy il capolavoro di SNES: A Link to the Past.
The Legend of Zelda: Oracle of Seasons
The Legend of Zelda: Link’s Awakening è ancora oggi un gioco molto apprezzato dagli utenti e dalla critica. Ha venduto 3.8 milioni di copie a cui bisogna aggiungere le ulteriori due milioni di unità vendute dalla sua versione a colori, The Legend of Zelda: Link’s Awakening DX del 1998.
Paradossalmente, i meno brillanti The Legend of Zelda: Oracle of Seasons e Oracle of Ages sono i videogiochi della saga di Link che hanno venduto più di tutti su Game Boy (Color): 3.9 milioni di copie.
Nell’immaginario collettivo quella dei pirati è la categoria che, probabilmente, più suscita emozioni. Si pensi al coraggio, all’efferatezza, ai tradimenti, alle imprese eroiche… se poi ci mescoliamo anche la magia vodoo, antiche tradizioni e tesori meravigliosi, il cocktail è perfetto. I pirati sono i cattivi ai quali tutto è concesso ed è per questo che sono, forse, tra i personaggi più amati.
Innumerevoli sono le trasposizioni cinematografiche del mondo piratesco: alla famosissima saga di Capitan Jack Sparrow e dei suoi Pirati dei Caraibi, che tutti conosciamo ed amiamo, mi piace affiancare Master and Commander, film del 2003 diretto da Peter Weir con protagonista Russell Crowe, che narra le vicende del Capitano Jack Aubrey alle prese con l’inseguimento di una nave corsara. Il film, lontano dalla trama ai confini con la realtà di Sparrow, riporta tutto su un piano più realistico, sulla vita dei marinai di fine XVII secolo, su tattiche di guerra navale e sul coraggio dei suoi protagonisti. E il mondo videoludico? Di certo non poteva restare a guardare!
Videogiochi corsari
La storia dei videogiochi è stata spesso costellata da titoli, di diversi generi, che hanno trattato i pirati. Il più grande di tutti? Monkey Island e i suoi ben quattro episodi – la cui trama è stata snocciolata in questo articolo – che ci guidano lungo la storia di un giovane pirata, inesperto, alla ricerca della sua avventura della vita. Il genere è quello di avventura grafica. Altri titoli che non possono mancare nella collezione di un appassionato che si rispetti è Sid Meier’s Pirates!, un adventure/gestionale e il più recente Sea of Thieves, un titolo in prima persona, che porta il giocatore in giro per i sette mari, alla ricerca di tesori, maledizioni pirata e leggende.
La Saga di Monkey Island
La più famosa serie di videogiochi sui pirati, nonché, la mia preferita, narra le gesta dell’aspirante pirata Guybrush Threepwood. Parliamo di Monkey Island, avventura grafica targata Lucasarts, soprattutto riferendosi ai primi due titoli: The Secret of Monkey Island e Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge. Nati entrambi dall’estro di Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman.
I successivi due capitoli della serie, invece anche se prodotti sempre dalla Lucas hanno genitori diversi: The Curse of Monkey Island, che riprende idealmente le fila dalla fine del secondo capitolo e The Escape from Monkey Island, titolo che, ahimè, nonostante una buona storia di fondo, snatura un po’ il concetto di avventura grafica classica implementando un 3D che spesso storce il naso alla fluidità del gameplay creando problemi nella gestione della visuale.
Differenze tra gli episodi
C’è da chiarire un punto: i primi due capitoli, datati 1990 e 1992 sono frutto di quella mente geniale di Ron Gilbert e del suo team. e si vede. Le storie trasudano comicità ed ironia in ogni momento, spronando il giocatore ad andare avanti anche solo per il gusto di sapere quale altra battuta ironica o pungente lo aspetta.
I successivi due capitoli, per quanto la Lucasarts abbia tentato di renderli appetibili come i predecessori, risultano sì godibili, ma non hanno la stessa verve dei titoli di Gilbert: Nello specifico, il terzo capitolo, The Curse of Monkey Island, abbandona la “pixel art” dei primi due, prediligendo una grafica “cartoonata” gradevole, implementando contestualmente effetti vocali nella serie. Ebbene sì, conosceremo la voce del nostro amato Guybrush! Il sistema vocale è oggi la normalità per un videogioco, ma nel 1997, anno di uscita di The Curse of Monkey Island, la feature non era così scontata.
La storia del nostro Guybrush
La trama è la classica storia di ogni bucaniere che si rispetti: Guybrush Threepwood, aspirante pirata, sbarca sull’isola di Melee per cercare fortuna, troverà invece l’amore della sua vita, Elaine Marley, governatore di Melee e ossessione della nemesi di Guybrush, il pirata fantasma Le Chuck che farà di tutto per sposare la donna. Guybrush però, tra battaglie di fini battute sarcastiche (avete presente il detto la lingua taglia più della spada? Ecco!), magie vodoo, teste di scimmia giganti, cannibali vegetariani e naufraghi strampalati, riuscirà nell’intento di rovinargli decisamente la festa distruggendo, alla fine del primo episodio, la sua essenza spirituale.
Nel secondo capitolo le cose si fanno decisamente più complicate: in Le Chuck’s Revengeil nostro eroe dovrà trovare il meraviglioso tesoro di Big Whoop, approdando su ben tre isole diverse, mentre il cadavere marcio, putrefatto e maleodorante di Le Chuck, riportato in vita dalla magia Vodoo, gli darà la caccia.
Per i puristi della saga la storia si ferma qui, i secondi due episodi (a cui volendo, potremmo aggiungere il quinto, prodotto da Telltale Games sotto licenza) non sono frutto della mente di Gilbert e quindi non degni di nota.
Return to Monkey Island : il suo segreto verrà finalmente rivelato?
Con queste premesse appare chiaro come l’hype, l’attesa per il tanto agognato sequel, firmato Ron Gilbert, di Monkey Island sia ormai a livelli altissimi. Per chi si fosse perso la notizia (ma dove vivete?!), il primo aprile scorso, in linea con un mega fantascientifico “pesce di aprile”, viene annunciato Return to Monkey Island. La comunità è in fibrillazione, ci si chiede se sia vero, ma fortunatamente man mano che il tempo passa le notizie diventano più certe, cominciano a girare i primi screenshots e addirittura l’anno di rilascio, 2022! Il gioco sarà disponibile inizialmente per PC e Switch, poi probabilmente anche per le altre piattaforme.
Il rilascio del titolo non ha solo un valore tecnico, non è solo un’altra avventura grafica che potrà essere bella per alcuni e brutta per altri. Return to Monkey Island sarà un tuffo nel passato per tutti coloro che hanno superato gli “anta”, per coloro che hanno trascorso la loro giovinezza dietro a dei pixel che lasciavano immaginare grandi imprese, duelli di spade e donzelle da salvare e poco importa se la grafica non è in linea con gli standard di oggi, cosa che ha deluso più d’uno.
Non importa se entrerà nella lista dei migliori videogiochi sui pirati o se la trama non soddisferà tutti. L’uscita di un nuovo Monkey Island è sempre un evento che lascia speranze di emozioni nuove, ma anche di emozioni che possano rinverdire i fasti di quelle passate; un titolo, quello di Gilbert, che è un’opera d’arte, senza tempo, a pieno titolo nel gotha della storia di videogiochi. Non ci resta che attendere il 19 settembre, data realistica del rilascio (a meno di clamorosi rinvii) davanti ad un rinfrescante boccale di grog!
Sea of Thieves
Sea of Thieves è un open world in cui si vivrà un’esperienza piratesca totale, dai combattimenti alla navigazione, dalla pesca alla caccia, con un’infinità di obiettivi secondari da sbloccare, scheletri da sconfiggere, tesori da trovare. Salpa con la tua ciurma: Sea of Thieves è uno dei migliori videogiochi sui pirati e l’unico di questa lista che supporta il gioco multiplayer consentendo di incontrare altre ciurme di pirati e decidere se allearsi con esse o combatterle. Una libertà praticamente infinita è data all’avventuriero che deciderà di solcare questi mari.
Sid Meier’s Pirates!
Sid Meier’s Pirates!, targato Microprose, anno di uscita 1987, è uno adventure/gestionale in cui si simulerà la vita di un pirata. Beh… non proprio di un pirata, ma di un corsaro al servizio di re di vari nazioni (la scelta della nazione da servire indica il livello di difficoltà del gioco). Però, la fedeltà ad una nazione non deve per forza rimanere tale. Nel corso del gioco si potrà cambiare bandiera, come si potranno catturare altri banditi e consegnarli alla legge per ottenere le ricompense, salvare donzelle rapite, conquistare città e forti. Non c’è una storia a fare da conduttore, ma la storia la creerà il giocatore mano mano che effettuerà le proprie scelte.
Nonostante l’anno d’uscita, Sid Meier’s Pirates! è uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre, tanto che nel 2004 è stato proposto un remake del titolo ad opera di Firaxis (che attualmente ne detiene i diritti) in cui è stato introdotto un motore 3D che ha migliorato il comparto grafica complessivo, è stato migliorato il sistema di combattimento e introdotto la fase del ballo, dove il protagonista prima di conquistare l’agognata donzella deve sfoggiare abilità danzanti.
Card Shark è un’avventura rivoluzionaria. Gli autori hanno unito un genere criticato come l’avventura a una meccanica ancor più controversa come i quick time event, creando un titolo geniale nella sua semplicità; infatti, l’avventura di Nerial e Troshinsky diventa interattiva grazie ai QTE, che non possono smorzare l’immersione del titolo, poiché i quick time event sono utilizzati come vero e proprio gameplay. Una trama lineare, ma intrigante unita a un dipinto rococò in movimento danno vita a un videogioco sorprendentemente poetico.
8.5
È possibile rendere una delle meccaniche più controverse dei videogiochi poetiche, quasi romantiche? Nella nostra recensione di Card Shark abbiamo risposto positivamente a questa domanda, poiché il titolo di Devolver Digital ha reso i Quick Time Event il miglior modo per esprimere la tagliante aria che si respirava nella Francia pre-rivoluzionaria.
Card Shark non è un gioco di carte collezionabili né un deckbuilding. L’opera di Nerial, noto per Reigns, e Nicolai Troshinsky, illustratore e appassionato di trucchi con le carte da gioco, rientra nel genere delle avventure; un’opera interattiva però in cui sono richieste capacità mnemoniche, intelligenza e velocità di esecuzione sui QTE.
Trame rivoluzionarie
Card Shark ci mette nei panni di un giovane uomo affetto da mutismo, cresciuto da una locandiera della piccola cittadina di Pau. La sua modesta vita nella Francia del 18° secolo si trasforma in un dramma quando incontra il Conte di Saint-Germain; il nobiluomo chiede al giovane di barare con lui durante una partita di carte, ma le conseguenze sono gravissime.
I due vengono catturati, causando anche la morte della locandiera da parte di un ufficiale dell’esercito. Accusato d’omicidio, il nostro alter ego è costretto a seguire il Conte in un viaggio in cui impareremo l’arte dell’inganno e gli intrighi di corte.
Il videogioco di Devolver Digital racconta tramite i due bari i tumulti di quel periodo storico; infatti, ben presto scopriremo che il Conte di Saint-Germain sta investigando sulle Dodici Bottiglie di Latte, una cospirazione reale che ci conduce direttamente fino ai segreti di Re Luigi XV.
Trucchi d’altri tempi
Il gameplay di Card Shark è il bluff perfetto. Quante volte ci è capitato di ascoltare critiche sui giochi d’avventura perché definiti poco interattivi? Allo stesso tempo: quante volte abbiamo sentito invettive contro i quick time event perché, a detta dei critici, smorzano l’immersione videoludica? In Card Shark, Nerial e Troshinsky hanno reso i QTE il vero e proprio gameplay e tramite quest’ultimo hanno garantito interattività a un’avventura che vuole prima di tutto narrare un’importante pagina della storia europea.
In Card Shark ci muoviamo nella Francia del 1700 (e non solo) tramite una mappa che suddivide le missioni di gioco. Una volta scelta la location, il Conte ci insegnerà, durante il viaggio, un nuovo trucco, che dovremmo mettere in pratica nello stage successivo. Inizialmente, i QTE saranno semplici e veloci come spiare una carta e indicarne il suo valore al Conte di Saint-Germain muovendo la levetta analogica; però, come avrete già intuito, le cose si complicheranno sempre di più andando avanti.
Card Shark offre 28 trucchi, via via sempre più complicati e che ben presto richiederanno anche una buona memoria. Tutti gli inganni partono sempre dalle stesse basi, ma alcuni intrecci sono decisamente complicati. In alcuni casi, la sconfitta porterà in carcere; in altri, incontreremo la morte in persona.
Alcuni stage hanno un margine d’errore praticamente nullo e lo sbaglio potrà avvenire anche a metà della combo; purtroppo, il trucco dovrà essere portato comunque a termine, anche se consci che la prova non sarà superata. Se a questo aggiungiamo che dovremmo rileggere tutti i dialoghi, in quei punti, la frustrazione rallenterà eccessivamente il gioco. Fortunatamente, il videogioco diventerà capitolo dopo capitolo sempre più denso di avvenimenti, intervallando QTE con le carte a quick time event anche con un spada in mano.
Arte illuminista
Non tutte le avventure d’alta qualità hanno un comparto tecnico memorabile, ma non è il caso di Card Shark. I disegni di Troshinsky sono dei quadri in movimento, deliziosi dall’inizio alla fine. Ripudiato progressivamente il barocco, gli inizi del XVIII secolo sono caratterizzati dal rococò, lo stesso stile utilizzato da Troshinsky per la sua opera. I colori delicati e forme curve ci immergono perfettamente nell’epoca raccontata dal videogioco.
Lo stesso fanno le musiche grazie alla sapiente bravura del compositore Andrea Boccadoro, che danno movimento e interattività a un quadro politico minuzioso, che ci permette di incontrare gloriose figure del passato come Voltaire e Cagliostro.
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