Iniziato al mondo del gaming nel lontano 94, quando il NES ed un pad in mano costituivano il sogno di ogni bambino. Cresciuto tra le terre di Hyrule e le profondità di Zebes, negli anni ho sviluppato una particolare affinità per JRPG e WRPG, pur non disdegnando alcun genere videoludico. Modellista Gunpla in erba nel tempo libero.
Non ne farò mistero, Monster Hunter Stories 2: Wings of Ruin è un jrpg che mi è piaciuto, tanto, come testimonia la mia recensione, siglata da un altisonante 9. Insomma, non un perfect score, certo, ma un voto dannatamente alto, soprattutto se dato da un fan di lunga data del genere JRPG. Il 28 ottobre è stato rilasciato l’ultimo dlc gratuito, comprendente l’iconica coppia del Rathalos Argentato e la Rathian Dorata, che chiude la roadmap annunciata durante il periodo di release del titolo.
Siamo quindi qui a tirare le somme sul JRPG made in Capcom, e per quest’occasione ho avuto modo di confrontarmi con un importante membro della community italiana di Monster Hunter. Sto parlando del carissimo Edivad, di cui linko il canale Youtube, ricco di informazioni, guide e curiosità sul nostro hunting game preferito.
L’idea di scrivere questo articolo è nata proprio da una chiacchierata circa i ” problemi” di Stories 2, concludendo che i margini di miglioramento ci sono tutti, seppur sia un ottimo titolo. Abbiamo quindi deciso di proporre le nostre personali visioni nel modo che ci riesce meglio, io tramite questo articolo, lui tramite un video che vi linko, e di cui consiglio la visione. Ma adesso cominciamo!
Meglio soli che male accompagnati
Un aspetto molto importante di Monster Hunter Stories 2 è sicuramente il comparto online, e più nello specifico la componente cooperativa. Capcom ha difatti presentato la possibilità di cacciare in compagnia come uno dei focus principali del titolo, e ci è riuscita… Fino ad un certo punto.
Chiariamoci, gli elementi co-op di Stories 2 funzionano, abbiamo la possibilità di perlustrare tane o affrontare mostri assieme ad i nostri amici, o semplicemente affidandoci al matchmaking. Dove sta il problema allora? Banalmente non vi è un vero e proprio incentivo nel giocare assieme ad altri utenti, ed anzi, spessissimo risulterà più veloce ed efficiente “farmare” per i fatti propri. Questo è dovuto alla macchinosità generale del sistema co-op; selezione di una stanza in cui entrare, attesa che tutti i partecipanti siano pronti, attesa che il compagno selezioni l’azione da eseguire in combattimento, ed una lentezza generale dei comandi.
Capirete da soli quindi che creare una stanza privata e partire con al seguito un – poco incisivo, è vero – Bot a darci man forte risulterà spessissimo l’opzione più veloce, efficiente e francamente meno snervante. Sarebbe stata gradita la presenza di ricompense aggiuntive per chi superasse assieme ai suoi compagni le impegnative tane co-op, mentre a conti fatti se avete voglia di buildare un Monstie l’opzione decisamente più veloce è girare da soli, in mappe pensate per la cooperazione. Un controsenso, non credete?
Ah, c’è anche il PvP?
Ecco, la modalità PvP è davvero qualcosa in cui Stories 2 poteva brillare, ed è ridotta ad una piccola comparsa; d’altronde Capcom stessa ha praticamente ignorato il PvP durante tutta la fase di marketing, limitandosi a citarla per 30 secondi una tantum nel corso di mesi e mesi. Non stupisce quindi che molti giocatori neanche sapessero dell’esistenza del PvP in Stories 2, e non fatico ad immaginare che tanti altri abbiano portato a termine il titolo senza accorgersi della sua presenza.
Il PvP in realtà funziona, ed anche discretamente bene. Proprio lì, nella sfida contro altri giocatori, Stories 2 mostra del discreto potenziale. Considerandolo un titolo prettamente PvE, è sorprendente vedere come un aspetto tanto trascurato del titolo riesca a dare un senso a tante build e strategie ed a valorizzare Monstie ed abilità altrimenti dimenticati.
Anche qui purtroppo il problema non risiede nel PvP in sè, ma in ciò che gli sta attorno. Manca del tutto un sistema di ranking, e le ricompense sono poche e poco soddisfacenti. Di nuovo, manca totalmente un incentivo nel giocare tale modalità, visto anche l’impegno ed il tempo necessari a buildare una squadra efficace in PvP; questi due fattori ovviamente rendono la modalità competitiva quasi un contentino per i fan del primo titolo, piuttosto che una componente del gioco ben ragionata.
Un gran peccato, poichè davvero tante abilità risultano abbastanza inutili in singleplayer. Basti pensare alle varie AoE, più costose delle skill single target, ma di fatto poco desiderabili dato che il 99% del contenuto PvE è relegato a battaglie contro un solo mostro grande. O ancora, status alterati come il Blocco Abilità, o i debuff alla mira, velocità ed ancora altro. Insomma, risulta quasi inspiegabile che un comparto PvP che funziona ed è vario sia stato trascurato in tale maniera.
Compagni di trekking
Altro aspetto che avrei preferito fosse approfondito è sicuramente quello degli Aiutanti, compagni mossi dall’IA che ci accompagneranno per l’interezza del titolo, sia durante la trama che nel post game. Chiariamoci, gli aiutanti non sono “fatti male”, ma mancano di quella profondità che li avrebbe elevati ad una feature molto ben realizzata, piuttosto che risultare un’aggiunta dimenticabile.
La scelta di impedire che il giocatore controlli le loro azioni è sicuramente comprensibile, ed anzi li fa percepire davvero come dei guerrieri che lottano al fianco del Rider. Decisamente meno comprensibile è invece l’impossibilità totale di personalizzazione degli stessi; non potendo cambiare né il loro equipaggiamento né il monstie quel che ne consegue è che alcuni siano decisamente più forti di altri. Il fatto che i compagni Rider siano poi tutti troppo simili tra loro non aiuta, e sono sicuro che un albero di skill/personalizzazione equip avrebbe enormemente giovato alla scelta del compagno.
Quando il troppo stroppia
Abbiamo analizzato vari aspetti del gioco, che potevano sì essere migliorati, ma rimangono comunque aspetti piuttosto secondari. Ora veniamo al vero grande difetto di Monster Hunter Stories 2, che anche il sottoscritto aveva “scambiato” per un pregio in sede di recensione. Sto parlando della personalizzazione dei Monstie; o per meglio dire, dell’eccessiva personalizzazione.
L’idea di poter far apprendere qualsiasi gene al proprio monstie potrebbe sembrare davvero allettante, ed in effetti lo è, quantomeno durante una prima giocata. Il problema sorge nel momento in cui Capcom decide di gestire le statistiche di tutti i monstie in maniera abbastanza ingenua. Il risultato è che nelle fasi avanzate di gioco tantissimi monstie risultano praticamente identici da un mero punto di vista statistico. Basti pensare che la differenza tra un Ignis Glavenus ed un Rex Rathalos – entrambi monstie endgame di tipo fuoco – risiede in 20 miseri Punti Ferita – a fronte di un pool di centinaia – ed un 1% di percentuale colpo critico. Per il resto sono letteralmente identici.
Uniamo quindi le statistiche fin troppo simili di tanti monstie al fatto di poter far loro apprendere qualsiasi abilità. Il risultato è che i sopracitati Ignis e Rex hanno le stesse statistiche e sfrutteranno le stesse build, eliminando di fatto qualsivoglia unicità. Questo è solo un piccolo esempio, ma vi assicuro che ne potrei citare tanti, troppi altri.
In definitiva, a volte il troppo stroppia; una qualche limitazione alla personalizzazione avrebbe reso ogni cattura unica, dotata di personalità, mentre al momento la scelta di tantissimi monstie è totalmente irrilevante. Questo porta anche ad un appiattimento delle build, che risultano praticamente tutte uguali per i monstie di tipo fuoco, elettro etc.
I buoni propositi
In conclusione, in quanto fan della serie, cosa spero di trovare in un Monster Hunter Stories 3? Sicuramente un comparto online maggiormente rifinito, meno macchinoso e “lento”, con un qualche incentivo per chi partecipa alle cacce co-op. Un comparto PvP non rilegato ad aspetto meno che secondario; il PvP di Stories 2 funziona, e spero che Capcom punti forte su questo aspetto in un eventuale sequel.
Un’esplorazione delle mappe più curata, soprattutto per quanto concerne le Tane Mostro, che già dopo le prime ore risultano troppo ripetitive e poco ispirate. Maggiore libertà di manovra per quanto concerne gli Aiutanti, ottima aggiunta di Stories 2, ma molto acerba al momento.
Ma quello che serve soprattutto alla saga è una totale rivisitazione del sistema parametrico e dell’eccessiva personalizzazione lasciata all’utente. Qualche limitazione – sapientemente piazzata, ovvio – alla personalizzazione dei monstie donerebbe loro una vera e propria personalità. Ed una distribuzione dei geni più coerente rispetto a quel che vediamo in Stories 2 male non farebbe.
C’è qualcosa che sicuramente accomuna tutti noi videogiocatori, ovvero quello strano senso di eccitazione che ci pervade ogni qualvolta incontriamo il fatidico boss di turno. Che si stia parlando di un action, un jrpg o di un bullet hell poco importa, spesso sono proprio i boss a portare la sfida ai massimi livelli. E superare tale sfida è sempre soddisfacente, qualsiasi sia la difficoltà effettiva del boss da noi affrontato.
A volte però queste sfide si rivelano tanto, troppo ardue, e la frustrazione sale a livelli inimmaginabili; è come se gli sviluppatori di tale titolo avessero sbirciato nei nostri incubi peggiori, e da lì ne fosse uscito fuori quel muro invalicabile che affrontiamo ormai da ore. Ovvero il maledetto boss. Ecco, oggi voglio stilare la mia personalissima classifica delle bossfight più toste, sleali o frustranti in cui mi sono imbattuto lungo la mia carriera da gamer.
Ballos – Cave Story
Per chi non lo conoscesse, Cave Story è un adventure/platform creato da una sola persona, Daisuke Amaya, nell’arco di 5 anni. La primissima release è inoltre freeware, e la potete tranquillamente scaricare da Questo Sito dedicato al titolo. Ne esiste anche una versione “plus” rilasciata sia su Steam che sull’Eshop. Correte tutti ad effettuare il download, poichè Cave Story è un capolavoro senza tempo, e se avete intenzione di giocarlo saltate direttamente al prossimo paragrafo, al fine di evitare spoiler.
Quel pallone gonfiato che vedete è Ballos, ovvero il “true final boss” di Cave Story, affrontabile qualora vengano effettuate determinate azioni lungo tutto l’arco del gioco. Bene, per avere l’onore di affrontare Ballos saremo costretti a superare una lunga area piena di nemici, con le armi riportate al livello 1, condita da sezioni di platforming in cui un movimento sbagliato equivale alla morte.
Dopo tante morti lungo la via – che giungeranno, ve lo assicuro – ci ritroveremo dinnanzi al boss. Ballos si compone di non una, non due, non tre… ma ben QUATTRO lunghe fasi, una più difficile dell’altra, il tutto condito da una montagna di HP. La parte migliore? All’immancabile gameover bisognerà ripercorrere l’intera sezione, dal principio. In una sola parola? SNERVANTE.
Matador – Shin Megami Tensei III Nocturne
La saga di Shin Megami Tensei è nota al pubblico per un grado di sfida mediamente alto, ed è quindi naturale aspettarsi delle bossfight impegnative. Ma quando la bossfight più impegnativa del gioco è anche la “prima” bossfight seria evidentemente qualcosa è andato storto.
Il simpatico torero scheletrico che vedete qui sopra è Matador, e probabilmente ne avrete già sentito parlare. È forse il boss più difficile del gioco? Assolutamente no. Matador è letteralmente lo spartiacque tra chi abbandonerà il gioco e chi riuscirà a superare quel che sembra uno scontro impossibile, quantomeno durante i primi tentativi. Uno spartiacque fatto male, ci tengo a precisare.
Per cominciare Matador aumenterà sempre la propria evasione al massimo, schivando ogni vostro colpo e rendendosi di fatto invulnerabile. Poi inizierà a lanciare continuamente Magie AoE sul vostro party, provocando danni devastanti, e ad un certo punto caricherà la sua personalissima tecnica, Andalusia, che 99 volte su 100 è un biglietto diretto per la schermata di gameover.
Ora, non avete un modo per debuffare la sua schivata? Siete fregati. Non avete alcun demone in grado di assorbire le sue magie? Siete fregati. Non avete una cura AoE da spammare ad ogni turno? Siete fregati. Non avete modo di evitare o annullare Andalusia? Siete fregati. Il problema di Matador è che richiede una pianificazione capillare del vostro party, ma è di fatto il primo vero boss del gioco, ed il gioco non fa letteralmente nulla per prepararvi allo scontro.
A tutto questo aggiungete il fatto che ad ogni tentativo fallito vi toccherà ripartire dal save point, abbastanza lontano dall’arena, e che nel mezzo non mancheranno i tanti incontri casuali. E dovrete pure sorbirvi la cut scene – rigorosamente non skippabile – ogni singola, dannata volta. A voi le conclusioni.
The Edge/The Star – Furi
Lo ammetto, non sapevo chi scegliere, poiché questi due boss incarnano perfettamente le due anime di Furi. Il primo è The Edge, un samurai che ci sfiderà a duello. La seconda è The Star, una IA pronta a tutto pur di fermarci, ma andiamo con ordine.
The Edge è sicuramente la bossfight che più mi ha fatto penare in quel capolavoro che è Furi. Un duello all’ultimo fendente che si compone di 4 fasi. Le prime due sono impegnative, ma con dei buoni riflessi si superano agevolmente. Alla terza iniziano i dolori però. Le combo del nemico si fanno più lunghe, i danni ricevuti più alti, ma soprattutto The Edge ha tempismi sempre diversi; a volte i colpi arrivano subito, a volte li carica per mezzo secondo, e capirete pure voi che in una combo da 6-7 colpi questo è un bel problema. Poi arriva l’ultima fase, che è come la terza, ma dieci volte peggio.
The Star invece è uno scontro interamente improntato sulla componente bullet hell del titolo. Qui le fasi sono 5, ed il boss inonda continuamente lo schermo di proiettili, laser, onde di energia, globi a ricerca e tanto altro. Il tutto si conclude con la quinta fase che è letteralmente “sopravvivi fin quando il boss non smette di lanciarti l’inferno addosso”, e di roba ne lancia tantissima, fidatevi. Ovviamente alla morte toccherà ripartire dalla prima fase, manco ve lo sto a dire.
Due esperienze ugualmente frustranti, ognuna a modo suo!
Dragone di Adra – Pillars of Eternity
Pillars of Eternity giocato a difficoltà “Via dei Dannati” è un’esperienza bella tosta, lo ammetto, ma non avevo riscontrato particolari difficoltà fin quando non è arrivata lei. Parlo del Dragone di Adra, di gran lunga il nemico più temibile che il party di eroi dovrà affrontare, quantomeno nel gioco base.
Tra gli innumerevoli pregi di PoE ve ne è uno davvero particolare. In Skyrim o tantissimi altri rpg i draghi sono a tutti gli effetti dei “mostri, ma più forti”. In PoE no, i draghi sono Draghi, esseri millenari in grado di spazzare via plotoni interi col battito di un’ala. Ed il Dragone di Adra è proprio questo, un essere immensamente più forte del nostro party. Danni spaventosi, resistenze altissime, attachi AoE frontali, laterali, persino posteriori. Ed ovviamente la nostra amica non è sola, ma accompagnata da una folta schiera di mostri minori, ugualmente letali.
Il Dragone di Adra ha tutto quel che serve per rendere un boss sbilanciato. Colpirla è difficile, infliggerle danno lo è anche di più. Quelle rare volte in cui un nostro colpo va a segno la sua armatura entra in gioco, e diciamo che scalfirla a suon di 1-4 danni a fronte dei suoi 400hp non è proprio il massimo. A complicare il tutto ci sono le sue AoE, in grado di oneshottare o quasi l’intero party, ed i suoi seguaci, che spesso risultano persino più problematici del dragone stesso.
In realtà il gioco offre anche la possibilità di stringere un’alleanza con questo essere maligno, ma quale videogiocatore segue la filosofia “se non puoi batterli, unisciti a loro”? Ore ed ore di tentativi, e tanta tanta frustrazione.
Galbalan – Ys: The Oath in Felghana
Al rilascio del recentissimo Metroid Dread è seguita una controversia circa la difficoltà del boss finale proposto, ritenuta davvero troppo alta. Bene, sicuramente chi si lamentava di quel boss non ha mai toccato un titolo della saga Ys; avrei potuto tranquillamente riempire questa lista con boss presenti dai vari Ys, ma oggi ne ho scelto uno in particolare.
Galbalan è il final boss di Oath in Felghana, e per tanti risulterebbe sicuramente una delle fight più difficili mai affrontate. Ovviamente qui si parla della fight a difficoltà Nightmare o superiore, poichè il boss sfoggia il suo intero repertorio solo in queste modalità. Bene, fatta questa premessa, perché considerlarlo una sfida tanto ardua?
In una sola parola… Tutto. Danni elevatissimi, attacchi decisamente veloci, una marea di HP, poche finestre di vulnerabilità ed una fight che sembra infinita. In particolare la seconda fase farà venire il mal di testa a tantissimi giocatori, con laser in movimento sul pavimento, esplosioni e le sue braccia che tentato di picchiare Adol. E poi c’è lei, la combo infame per eccellenza, lanciafiamme+globi energetici; nonostante abbia concluso il titolo più volte ed affrontato Galbalan in decine e decine di occasioni un dubbio permane. Come cavolo si evita quell’attacco? La risposta a questo quesito mi è ancora ignota.
Il tutto si conclude con la terza fase, una sorta di partita a ping pong col boss dove al primo errore 9 volte su 10 sopraggiunge il gameover. Se mai riuscirete a battere Galbalan vi accorgerete che il boss finale di Dread è una passeggiata di salute al confronto.
Dark Fact – Ys I & II Chronicles+
Ed ora chiudiamo la lista col botto. La leggenda narra che a partire dal 2013, i maggiori produttori di dizionari di tutto il mondo abbiano modificato la dicitura del termine “Frustrazione”, che grazie ad Ys I Chronicles+ assume un significato tutto nuovo. La definizione è infatti stata sostituita dal ben più eloquente ritratto di un individuo, tale Dark Fact.
Slealtà, sbilanciamento, RNG, frustrazione; Dark Fact è un concentrato di tutto ciò. Partiamo dal presupposto che stiamo parlando della versione Steam del titolo, in cui la fight è decisamente più tosta. Cosa rende Dark Fact così frustrante quindi? Per iniziare il boss può essere danneggiato solamente equipaggiando la spada d’argento(non l’arma più forte, che naturalmente utilizzereste in qualsiasi altro gioco), e questo lo suggerisce un NPC secondario, diverse ore prima, in un dialogo che sembra tutto fuorché importante e che probabilmente neanche ricorderete sul finale del titolo. Ma andiamo alla fight vera e propria.
È velocissimo, ed anche se segue un pattern di movimento fisso – da qui il nomignolo “dvd player screen saver”, gli anziani capiranno – è comunque difficile stargli dietro. Le palle di fuoco che scaglia a ripetizione sono letteralmente impossibili da evitare, tant’è che la miglior strategia è ignorare completamente i suoi attacchi. Ha tanti hp, ma soprattutto ogni volta che viene colpito “distrugge” una porzione dell’arena, creando dei buchi che metà delle volte intrappoleranno il giocatore condannandolo al gameover.
Il combattimento è pesantemente influenzato dal caso, ed anche seguendo una strategia ben precisa spesso e volentieri si finirà per morire, perché Dark Fact ha deciso che per quel tentativo deve finire male, punto. Posso dire con certezza che, dopo aver perso due giorni e centinaia di tentativi su uno scontro che dura al massimo 40 secondi, questa sia la bossfight che più si avvicina ad una tortura cinese. La parte migliore poi? Che stiate giocando a difficoltà facile o nightmare poco cambia, il combattimento è praticamente identico.
Nota bonus, qui sopra potete trovate la magnifica OST della fight in questione. Peccato che questa traccia sia apprezzabile solamente su Youtube, poiché è letteralmente impossibile sopravvivere più di 30-40 secondi durante la fight vera e propria.
L’uscita di Metroid Dread, fissata per l’ 8 ottobre, è ormai vicinissima. Per i fan della saga – come il sottoscritto – l’attesa è stata lunga, lunghissima; precisamente 17 anni fa terminai la mia prima partita a Metroid Fusion – gentilmente prestatomi da un compagno di classe delle medie – lasciando una Samus Aran ormai braccata dalla Federazione dopo i fattacci avvenuti sulla stazione BSL.
Se vi state chiedendo di cosa diavolo parlo i casi sono due:
Siete dei giovani gamers, e Metroid Fusion è vostro coetaneo o quasi.
L’età avanza, ed i ricordi delle maratone sul GBA si fanno via via più sbiaditi.
A tutto ciò uniamo il fatto che negli ultimi 11 anni la saga è letteralmente sparita dai radar, eccezion fatta per l’ottima parentesi Samus Returns. Con questo articolo voglio fornire una panoramica sulla storia di Metroid, dal 1986 ad oggi, così da rispolverare la vostra cara Power Suit. O farvi scoprire la saga che ha rivoluzionato il genere Adventure 2d.
La cacciatrice di taglie
Prima di tutto introduciamo la protagonista indiscussa della nostra storia. Samus Aran nasce sulla colonia mineraria terrestre K2-L, di cui poi rimarrà l’unica sopravvissuta in seguito ad un attacco da parte dei Pirati Spaziali, capitanati da Ridley. Viene poi tratta in salvo dai Chozo, razza aliena di pennuti antropomorfi, e trasportata sul loro pianeta natale, Zebes.
Viste le condizioni di Zebes avverse alla vita umana i Chozo decidono di donare alla ragazzina una porzione del proprio DNA, al fine di renderla più forte, agile, resistente ed astuta di qualsiasi comune essere umano. È da questo momento che inizia il duro addestramento di Samus Aran, destinata a ricoprire un ruolo chiave nella prossima difesa della galassia.
Tutto quel che ho scritto non lo troverete nei videogiochi in realtà; è Kenji Ishikawa a raccontarci l’infanzia di Samus, tra le pagine del manga ufficiale di Metroid. Quel che ho accennato non è che un piccolo assaggio della storia completa, che partendo da qui condurrà Samus fino agli eventi narrati nel primissimo Metroid. La lettura per tutti gli appassionati è praticamente d’obbligo!
La missione Zero
Corre l’anno 1986 quando Nintendo pubblica Metroid, capostipite della saga. Titolo sicuramente atipico per gli standard del tempo, Metroid si proprone come un Adventure Platform 2d non lineare. Questa sua caratteristica lo renderà uno dei due titoli che hanno definito il celebre genere Metroidvania, tornato in auge negli ultimi tempi.
Anche se ne riconosco l’importanza storica devo esser sincero, Metroid risulta invecchiato piuttosto male, quindi andrò a parlare del suo remake, Metroid: Zero Mission; oltre a risultare un’ottima riproposizione dell’originale, Zero Mission include una sezione di gioco inedita.
L’incontro
Samus Aran è ormai divenuta una famosissima cacciatrice di taglie, fidata collaboratrice della Federazione Galattica. L’obiettivo di questa missione è tornare su Zebes – pianeta natale degli ormai estinti Chozo – dove i Pirati Spaziali stanno cercando di controllare i temibili Metroid.
I Metroid, che danno il nome alla saga, saranno un elemento chiave dei vari titoli della saga, in un modo o nell’altro. Forme di vita aliene simili a meduse fluttuanti, questi esseri risultano terribilmente aggressivi, e sono in grado di risucchiare l’energia vitale degli altri esseri viventi. Risultano inoltre incredibilmente resistenti, tanto che l’ unico modo di abbatterli è sfruttare la loro debolezza al ghiaccio; ecco spiegato perchè sia i Pirati che la Federazione sono tanto interessati a questa forma di vita.
Qui Samus esplora le profondità del pianeta Zebes, trasformate in una grande base sotterranea dai Pirati Spaziali. Abbattuti i due luogotenenti, Ridley e Kraid, la cacciatrice affronta Mother Brain, antica IA traditrice di fattura Chozo che ora capeggia la fazione dei Pirati. Dopo esser stata sconfitta Mother Brain attiva il meccanismo di autodistruzione della base; Samus è costretta a scappare, ma durante la fuga la sua navetta viene abbattuta da un fascio laser dei Pirati Spaziali, precipitando nuovamente su Zebes.
Sola e disarmata, Samus si infiltra quindi sulla nave madre dei pirati, e dopo aver recuperato la sua Power Suit procede alla distruzione del vascello. Così si conclude Zero Mission, i Pirati Spaziali sembrano ormai fuori gioco… O forse no?
Gli errori dei Chozo
Il secondo capitolo della saga è Metroid II: Return of Samus, sviluppato per Game Boy nel 1991. Anche di questo capitolo è stato ricavato un ottimo remake – Metroid: Samus Returns – che reinterpreta il titolo Nintendo in salsa moderna, conservandone comunque l’essenza.
La Federazione Galattica è preoccupata, soprattutto dopo la brutta storia su Zebes. Ha quindi in mente un altro lavoro, e sa già chi dovrà compierlo. Samus viene quindi inviata sul pianeta SR388, terra originaria dei Metroid. La missione è semplice quanto ardua: distruzione totale dei Metroid. Gli esseri sono davvero troppo pericolosi, e vanno quindi eliminati, stando a ciò che dice la Federazione.
La Regina
Samus affronta quindi i tanti Metroid presenti su SR388, ognuno contraddistinto da uno stadio evoluto ben specifico. Scopre poi che in realtà SR388 non è il pianeta natale delle meduse fluttuanti, ma che esse sono state create dai Chozo. I Metroid sono infatti stati rilasciati su SR388 col fine di annientare il vero essere nativo del luogo, il misterioso Parassita X. Dopo aver assolto il loro compito le creature si sono però ribellate ai Chozo, che con un gesto estremo le hanno sigillate nelle profondità del pianeta.
Samus riesce quindi a distruggere tutti i Metroid presenti su SR388, compresa la temibile Regina, e sancisce così la fine della temuta razza aliena. A quel punto l’enorme vulcano presente in superficie sta per eruttare, e distruggerà qualsiasi cosa, quindi Samus deve raggiungere la navicella ed entrare subito in orbita; lungo la via per la superficie si imbatte però in un uovo in procinto di schiudersi. L’esserino che ne esce, un piccolo Metroid, riconosce in Samus la propria madre per via dell’imprinting, e la assiste durante la fuga, liberandole il passaggio.
Nei pressi della navetta Samus si scontra poi con l’onnipresente Ridley, intenzionato a rubare il cucciolo di Metroid; la guerriera ha infine la meglio e riesce a fuggire da SR388, portando con sé l’unico esemplare di Metroid dell’intera galassia.
Capolavoro senza tempo
Giungiamo quindi all’episodio più emblematico dell’intera saga, ovvero Super Metroid, rilasciato per Super Famicom nel 1994. Tutto quel che veniva accennato in Metroid e Metroid II: Return of Samus viene ora elevato all’ennesima potenza; level design che fa ancora scuola, una delle migliori OST di sempre, direzione artistica sublime, gameplay solidissimo ed atmosfera a pacchi. Super Metroid è ancora oggi preso come IL termine di paragone del genere metroidvania, e questo non è affatto un caso. Uno di quei rari titoli senza tempo, che sembra non vogliano proprio invecchiare. Se non lo avete ancora giocato correte, perchè Super Metroid è letteralmente un pezzo di storia videoludica.
Il furto
Di ritorno da SR388, Samus consegna il cucciolo Metroid presso la stazione di ricerca Ceres, appartenente alla Federazione. Subito dopo esser ripartita riceve però un segnale S.O.S. dalla medesima stazione, ed al suo ritorno scopre che è stata invasa dai Pirati Spaziali. Qui avviene l’ennesimo scontro con l’arcinemesi, Ridley, che riesce a rubare la capsula contenete il Metroid e scappa, dirigendosi proprio su Zebes.
La vecchia base dei Pirati è stata infatti ricostruita sotto ordine di Mother Brain, l’IA Chozo che tutti credevano scomparsa in seguito alla Missione Zero. Il nuovo piano è quello di clonare il piccolo Metroid al fine di allestire un esercito di bioarmi. È quindi ora per la cacciatrice di tornare là dove tutto ha avuto inizio, sul pianeta Zebes, ed esplorarne nuovamente le profondità.
Mother Brain
Qui Samus affronta nuovamente i luogotenenti dei Pirati Spaziali, e dopo averli sconfitti si dirige nella parte più profonda del pianeta, Tourian, dove Mother Brain la sta aspettando. La IA però non si fa trovare impreparata; essa si è infatti dotata di un grosso esoscheletro apparentemente impenetrabile dai colpi di Samus.
Quando tutto sembra perduto ecco che fa la sua comparsa il “cucciolo” di Metroid, cresciuto a dismisura nel frattempo. L’essere attacca Mother Brain, stordendola, e ne trasferisce l’energia a Samus, ora capace di danneggiare il nemico. La IA però, ripresasi dall’attacco, colpisce il Metroid, uccidendolo, ma viene in seguito sconfitta da Samus che dovrà scappare in superficie per l’ennesima volta, poichè il pianeta sta per esplodere, definitivamente.
Si conclude così Super Metroid, i Pirati Spaziali annientati, Mother Brain sconfitta, ed i Metroid ormai estinti…
Other M, un titolo controverso
Metroid: Other M, rilasciato nel 2010 per Wii, è di fatto l’ultimo titolo della saga principale ad esser stato sviluppato, se non contiamo il remake Samus Returns. Un titolo abbastanza controverso, che si discosta quasi completamente dai suoi predecessori in quanto a gameplay; altro importante cambiamento è l’importanza della narrativa nell’economia di gioco, elemento relegato quasi a pretesto nei precedenti titoli, che ora diviene parte fondamentale dell’esperienza Other M.
Dopo le vicende raccontate in Super Metroid sembra che la galassia sia un posto sicuro, ma le apparenze ingannano. Samus riceve l’ennesima richiesta di soccorso da uno strano relitto, tale Bottle Ship. Poco dopo l’attracco la cacciatrice incontra il 7° Plotone della Federazione, capeggiato da una sua vecchia conoscenza, l’ufficiale in comando Adam Malkovich. Samus è stata una sottoposta di Adam durante il suo periodo nelle forze della Federazione, che ha poi lasciato per divenire una cacciatrice di taglie. Gli umani, esplorando la Bottle Ship, scoprono che quella nave sta conducendo delle pericolose ricerche – tecnicamente proibite – sulle bioarmi.
La creazione di MB
Una fazione della Federazione Galattica ha infatti ricreato delle forme di vita molto simili ai Pirati Spaziali, al fine di disporre di un piccolo esercito personale; ciò è stato reso possibile grazie a del DNA presente sulla Power Suit di Samus a seguito della missione su Zebes. Per controllarli è stato inoltre necessario creare MB, una interfaccia IA basata sull’ormai defunta Motherbrain ed innestata in un corpo di androide. MB si è ovviamente ribellata ai suoi creatori, impartendo all’intero arsenale di bioarmi un semplice compito, sterminare tutti i ricercatori, eccezion fatta per la sua creatrice, Madeline Bergman.
Come se non bastasse il gruppo fa una scoperta ancora più sinistra: nel Settore Zero della nave-laboratorio gli scienziati hanno ricreato dei Metroid, sempre grazie al DNA presente su Samus. Non Metroid qualsiasi, ma Metroid perfezionati, privati della debolezza alle basse temperature. Ciò li rende di fatto degli esseri praticamente imbattibili.
Tragici eventi
Adam Malkovich, ufficiale in carica, decide così di sacrificarsi, facendo irruzione nel Settore Zero al fine di disconnetterlo dalla Bottle Ship ed in seguito farlo detonare, distruggendo definitivamente i Metroid. Nel frattempo Samus si scontra con la sua arcinemesi, Ridley, o per essere precisi un clone di Ridley. La cacciatrice ha ovviamente la meglio, ed un Ridley ferito fugge, per poi finire preda di una Regina Metroid.
Ebbene si, Samus si scontra per la seconda volta con una Regina Metroid, sconfiggendola, e riesce a salvare la Dottoressa Madeline Bergman, direttore ricerca del complesso. La Bottle Ship si avvicina quindi al quartier generale della Federazione, e Samus si confronta finalmente con MB, l’IA responsabile di tutto ciò che è avvenuto. Giunge infine un plotone di marines dal vicino QG della Federazione, capitanati dal Colonnello, che fermano lo scontro tra Samus ed MB, uccidendo di fatto quest’ultima. La situazione è quindi sotto controllo, e Samus, Madeline ed Anthony – un soldato del 7° Plotone – vengono condotti al QG della Federazione.
Nell’ultima sezione di gioco Samus torna sulla Bottle Ship per recuperare un “oggetto insostituibile”; dopo essere arrivata al Ponte di Comando viene assalita da Phantoon, boss già presente in Super Metroid e che qui fa il suo ritorno. Manco a dirlo, lo sconfigge, e recupera il casco del defunto Adam Malkovich, fuggendo poi dalla Bottle Ship, la cui autodetonazione è stata attivata da remoto.
Si conclude così Other M, che come avrete visto presenta una trama ben più articolata dei precedenti capitoli.
Il parassita
Giungiamo quindi a Metroid Fusion, titolo per Gameboy Advance rilasciato nel 2004, che di fatto chiude la storia di Metroid, quantomeno fino alla prossima uscita di Dread. Fusion segue la medesima struttura dei suoi predecessori, quindi grande mappa esplorabile, scelta del percorso da fare e quant’altro. Il titolo riesce inoltre a proporre una riuscitissima atmosfera horror in alcune sezioni, come vedremo più avanti.
L’infezione
Samus viene inviata nuovamente sul pianeta SR388, al fine di condurre una scrupolosa indagine per confermare l’avvenuta estinzione dei Metroid. Qui viene però infettata da un organismo autoctono, il Parassita X, che si innesta nella sua Power Suit. Di ritorno da SR388 Samus accusa un malore; è il Parassita X che sta attaccando il sistema nervoso della cacciatrice. La sua navetta così si schianta su una fascia di asteroidi, rendendo necessario un recupero d’emergenza.
Viene dunque trasportata al Quartier Generale della Federazione; l’infezione ad opera del Parassita si estende velocemente, ed è necessario asportare chirurgicamente la Power Suit, ormai compromessa dal parassita. Risulta inoltre impossibile rimuovere l’organismo dal sistema nervoso di Samus, così la Federazione ha un’idea: utilizzare un vaccino ricavato dall’ultima manciata di cellule del cucciolo Metroid.
Il piano funziona, il parassita viene inibito dal vaccino a base di Metroid, e Samus acquista la totale immunità a quello strano essere, riuscendo addirittura ad assorbirlo senza conseguenze. Samus Aran diviene quindi un ibrido tra essere umano e Metroid, acquisendo sì la naturale immunità al Parassita X, ma anche la debolezza alle basse temperature tipica dei Metroid.
Inoltre perde tutti i suoi “potenziamenti”, essendo la Power Suit irrimediabilmente compromessa dall’infezione; quest’ultima viene inviata sulla stazione di ricerca BSL, al fine di venire studiata più a fondo. Ciò che rimane della famosa tuta è la Fusion Suit, un’unione tra l’originale Power Suit ed il Parassita X.
L’invasione
Poco dopo viene però avvertita un’esplosione proveniente dalla BSL, ed ovviamente Samus viene inviata ad investigare, “accompagnata” dal computer di bordo della nuova navetta, Adam. Arrivata lì scopre che la stazione è stata invasa dal Parassita X, e che gli scienziati sono tutti morti. Il parassita è inoltre in grado di riprodursi continuamente, essendo asessuato, e presto colonizzerà l’intera BSL.
Da questo momento Samus affronta varie forme del Parassita X, che vanno da bestie di ogni tipo ad un vero e proprio clone di Ridley, fino ad arrivare al più mortale degli avversari: SA-X, o Samus Aran-X, una replica della cacciatrice, resa ancor più pericolosa dalle abilità del Parassita.
Samus quindi esplora la BSL, evitando ove possibile lo scontro con SA-X, nemico decisamente fuori dalla sua portata; è così che scopre un laboratorio segreto in cui – indovinate un pò – la Federazione sta ricreando i Metroid, ancora una volta, l’ennesima volta. SA-X la segue ed attiva la sequenza di autodistruzione di quel laboratorio, essendo i Metroid i predatori naturali dell’organismo. Sia Samus che l’entità riescono comunque a sfuggire all’esplosione, che si spera abbia messo la parola fine alla faccenda Metroid.
Il computer di bordo, ribatezzato Adam dalla stessa Samus, avverte quest’ultima che da quel momento ci penserà la Federazione a metter le cose a posto, ed esorta l’eroina a lasciare la BSL al più presto. Adam lascia anche intendere che la Federazione sia particolarmente interessata alle capacità belliche del Parassita X.
La ribellione
A questo punto Samus prende una decisione, deve liberarsi dell’intero BSL, X non deve divenire una bioarma per nessun motivo. E soprattutto il plotone della Federazione in arrivo NON deve incontrare il parassita, che soggiogherebbe facilmente i militare, acquisendone così le conoscenze circa la navigazione interstellare. A quel punto niente potrebbe fermarlo dall’espandersi per tutto l’universo.
È così che Samus decide di andare contro il volere della Federazione Galattica. Il piano prevede di impostare una nuova rotta per la BSL; così facendo la stazione entrerà in collisione con SR388, precipitando sul pianeta ed annientando entrambi. Nessun Parassita X riuscirà a sopravvivere all’evento. Sfortunatamente Samus viene intercettata da SA-X, ed il duello è inevitabile. Fortunatamente la nostra eroina ne esce vittoriosa, e riesce così ad impostare le nuove coordinate di navigazione. A questo punto si avvia verso la navetta per fuggire.
Un ultimo ostacolo si frappone tra la cacciatrice e la sua salvezza; un Metroid Omega, precedentemente fuggito dal laboratorio segreto, la attende nella zona hangar. Samus lotta, ma il nemico è troppo potente, e lei non ha più accesso all’arma letale per qualsiasi Metroid, l’ Ice Beam. Quando tutto sembra perduto compare però SA-X, che istintivamente attacca e danneggia il Metroid, per poi venir colpito e regredire all’originaria forma di nucleo cellulare. Samus quindi assorbe il Parassita, riacquisendo tutto i suoi poteri e la sua Power Suit, e procede così all’eliminazione del Metroid Omega. Così riesce finalmente a fuggire mentre la BSL precipita su SR388, segnando la fine del Parassita X.
Si conclude così la storia di Samus Aran, ricercata dalla Federazione Galattica poichè ha disobbedito agli ordini. L’attesa durerà però ancora per poco, poichè lo ricordo nuovamente, l’8 ottobre potremo finalmente scoprire cosa ne è stato della cacciatrice di taglie più abile della galassia.
Si ok… Ma Prime?
I fan di vecchia data se lo staranno sicuramente chiedendo: che fine ha fatto Metroid Prime nel recap? La verità è che considero Prime una saga separata dai classici titoli 2D. Le vicende dell’intero arco che va da Zero Mission a Fusion è già delineato, e Prime è un “di più”. La trilogia spin-off tratta del periodo intercorso tra Zero Mission e Metroid II: Return of Samus, ed aggiunge un universo a sè stante praticamente. Ritengo che però meriti un articolo tutto suo, quindi ne sentirete parlare in futuro, e spero abbiate voglia di ascoltarmi ancora una volta.
Siamo arrivati alla fine, e spero che questo recap vi sia stato utile. La storia di Metroid è molto più complessa di quel che i titoli lascerebbero intendere ad uno sguardo distratto, ed il tempo per rigiocarsi l’intera saga spesso non c’è. Ora scusatemi, ma vado a lucidare il mio Arm Cannon, e vi consiglio di far lo stesso, perchè tra qualche giorno vi servirà di sicuro!
Spesso sentiamo parlare di boardgames tratti da film, videogiochi o libri; meno spesso invece si sente il contrario, ovvero un media derivato da un boardgame, salvo rare eccezioni nel mondo videoludico. Ed a pensarci bene è anche normale che la più proficua sia proprio la prima categoria; prendere un personaggio vivo, un’ambientazione vissuta, con una storia già raccontata, per poi trasformarli in una carta da gioco o un tabellone, modellandone le meccaniche a loro immagine e somiglianza, una trasposizione quasi naturale. Assai più difficile invece fare il contrario, prendere una carta da gioco e da quelle pochissime righe di testo creare un carattere, un modo di porsi, di muoversi, di vivere.
L’opera di cui parleremo oggi, La Collera di N’Kai, appartiene proprio a questa seconda – ed assai più rara – categoria, ed ammetto di aver provato sincera curiosità quando il volume è finalmente giunto in redazione, essendo questa la mia prima lettura di un’opera tratta da un gioco da tavolo. Arkham Horror – questo il nome – è un boardagame cooperativo pubblicato nel lontano 1987; l’universo di gioco a tinte horror/sovrannaturali è pesantemente ispirato alle opere del maestro H.P. Lovecraft, ovvero il papà di tanti esserini, tra cui il più conosciuto è il simpatico Cthulhu.
Il titolo, assieme al già trattatoKeyforge – Racconti del Crogiolo, è il primo frutto dello sforzo congiunto tra Asmodee Italia ed Aconyte Books, che in futuro dovrebbero tradurre e pubblicare tante altre opere tratte da famosi boardgames.
Alla penna troviamo Josh Reynolds, un “veterano” di questo genere di trasposizioni. Vi basti sapere tra i suoi lavori si annoverano opere su licenze del calibro di Warhammer, Warhammer 40.000, ma anche WatchDogs ed addirittura Zombicide, altro famosissimo boardgame. Insomma, un setting da urlo – o da brivido, scegliete voi – ed una penna di tutto rispetto. Sarà riuscito Reynolds a trasformare l’enigmatico universo Arkham Horror in libro?
Una cittadina tranquilla
Arkham, Massachusetts, i primi anni del secolo scorso. Il mondo si è da poco ripreso da un terribile evento, ma gli strascichi della Grande Guerra si sentono tutti; vige il proibizionismo, bande di gangsters impazzano per le strade, i veterani tornano – o quantomeno tentano di farlo – alla normale vita da cittadino statunitense. È un’epoca strana questa, dove un’enorme ripresa economica si scontra con una società sempre più disillusa, quasi decadente. Un’epoca grigia, e forse anche la migliore per far da sfondo alle vicende che La Collera di N’Kai vuole raccontare al lettore.
Così inizia l’avventura di Alessandra Zorzi, Contessa originaria di Venezia, ma cresciuta in giro per l’Europa e non solo. Ladra per professione e per lignaggio, Alessandra presta i suoi servigi ad una peculiare cerchia di clienti, facoltosi personaggi disposti a tutto pur di mettere le proprie mani su strani oggetti, a volte bizzarri, molto più spesso grotteschi e raccapriccianti; tomi riguardanti l’occulto, ma anche reliquie di varia natura, come le tsantsa, meglio conosciute come teste rimpicciolite.
Il suo prossimo bersaglio si trova proprio nella città di Arkham, ed è il pezzo forte del Museo dell’università Miskatonic. Una mummia ritrovata in Oklahoma, un lavoro alquanto bizzarro anche per Alessandra Zorzi, abituata a quel genere di cose, per di più commissionato da un mecenate che preferisce rimanere nell’ombra. Così, quando durante la Mostra del reperto un gruppo di sgherri irrompe in museo – armi in pugno – battendola sul tempo e prelevando la strana mummia, la contessa capisce che quello non sarà l’ordinario lavoretto che si era immaginata. L’unica certezza è che quella mummia va ritrovata, ed il suo cliente soddisfatto, poiché lei ha una certa reputazione da mantenere, ed il cliente cui si è legata non ammette alcun errore. Da qui partono le indagini della ladra, indagini che si dipaneranno per la quasi totalità dell’opera, e le faranno conoscere i tanti volti di quel luogo dimenticato da Dio, ma non da altre presenza più antiche ed opprimenti.
Il primo degli elementi chiave del racconto è la cittadina di Arkham. Quella che sembrerebbe essere una tranquilla cittadina statunitense come tante altre nasconde invece vizi, segreti e cose inspiegabili, cose incomprensibili. Uno dei grandi pregi di La Collera di N’Kai è sicuramente la rappresentazione della cittadina, all’apparenza ordinaria, banale, ma che sin da subito risulta inquietante, viva, sbagliata. Reynolds riesce a trasporre su libro l’essenza di Arkham Horror ogni qualvolta descrive Arkham, rappresentandola quasi come un’entità che si prende gioco dei protagonisti dell’opera più che un centro urbano. L’indagine di Alessandra porta il lettore a scoprire gli anfratti più bui e nascosti della cittadina; clubs frequentati da malavitosi di ogni specie, grandi ville appartenenti ad enigmatici mecenati, labirinti sotterranei utilizzati dai contrabbandieri ed ancora tanto altro.
Lo stesso non si può dire dei tanti, forse troppi, personaggi che fanno capolino lungo le circa 310 pagine cui si compone l’opera. Se la protagonista e la sua spalla, Pepper, risultano ben delineate, lo stesso non può essere detto di praticamente ogni altro individuo incontrato lungo tutta la vicenda; già dopo i primi capitoli si ha la sensazione che tutti i personaggi abbiano una personalità decisamente troppo simile, e che si esprimano grossomodo alla stessa maniera, salvo una o due eccezioni. Sfortunatamente il tutto è accentuato dal fatto che nessuno di loro gode dell’esposizione necessaria a definirne un carattere vero e proprio, e ciò li rende di fatto tutti simili, anonimi e dimenticabili. Un gran peccato, considerando che lo stesso trattamento è riservato anche ad un paio di detective presenti nel boardgame, e che nelle pagine di La Collera di N’Kai prendono finalmente vita.
Pulp, forse sin troppo
Giunti a questo punto ci si aspetterebbe una vicenda dalle spiccate tinte horror/sovrannaturali, attesa che per tanti si rivelerà vana. La Collera di N’Kai è principalmente una storia dalla forte impronta pulp; di fatto il grosso dell’opera vedrà il lettore intento nel seguire le indagini di Alessandra, ed il racconto assumerà i connotati di un vero e proprio poliziesco, con sporadici accenni alla natura oscura della mummia ricercata. Chiariamoci, la lettura dell’opera è comunque scorrevole, ma risulta strano che un libro su licenza Arkham Horror releghi proprio l’aspetto horror ad una mera comparsa, quantomeno per i primi tre quarti della vicenda. Il genere poliziesco cederà il passo al sovrannaturale solamente nelle ultimissime pagine, spazio forse troppo ristretto per i nostri gusti.
Il lettore in cerca di racconti su esseri antichi, orrori cosmici e misteri imperscrutabili potrebbe quindi rimanere deluso dal focus che Reynolds rivolge a vicende ben più umane. Voglio però precisare che quanto detto non è un vero e proprio difetto, ma vista la licenza su cui si basa l’opera è doveroso chiarire che La Collera di N’Kai non è assolutamente la tipica novella ispirata all’immaginario del Solitario di Providence.
In conclusione che dire di La Collera di N’Kai quindi? Reynolds riesce a confezionare un’opera certamente non esente da difetti, come personaggi secondari abbastanza dimenticabili ed un bilanciamento tra umano/sovrannaturale che potrebbe risultare indigesto a qualche lettore; è pur vero che il ritmo serrato e la voglia di scoprire chi ha rubato quella dannata mummia – e soprattutto perché – faranno volar via le pagine in un paio di giorni al massimo, risultando in una lettura leggera ma allo stesso tempo avvincente. Il tutto è impreziosito dalla ottima trasposizione della città di Arkham, oscura e malata al punto giusto, che più volte ricorda ai protagonisti che no, quella non è una tranquilla cittadina del Massachusetts. Sicuramente un buon punto d’inizio per la collana di libri su licenza Arkham Horror.
Dariusburst Another Chronicle EX+ è un ottimo videogioco, che subisce un pessimo porting da cabinato. Il gameplay è eccezionale e i contenuti sono tantissimi, ma la fruizione su console è ostica, a tratti frustrante. Il prezzo non proprio budget rende l’acquisto interessante solo ai veri appassionati, consapevoli che Nintendo Switch non è la miglior piattaforma su cui usufruire di tale esperienza.
6.5
Quante volte avete desiderato che i cabinati, siti nella sempre amata saletta giochi, si teletrasportassero direttamente nella vostra stanza? Io tante, tantissime volte, e scommetto che chi ha vissuto gli anni 80-90 ha condiviso con me quel desiderio. Schiere di cabinati, ognuno dal considerevole peso ed ingombro, sfoggiati in file ordinate, pronti per l’ennesimo giro in cerca dell’highscore.
Ora corre l’anno 2021 e la tecnologia ha fatto davvero passi da gigante; dieci, cento, mille cabinati, tutti racchiusi sul palmo della nostra mano, tutti a nostra disposizione. È incredibile pensare come quintali, tonnellate di scatoloni metallici possano esser racchiusi in una minuscola scheda MicroSD dal peso di appena 2 grammi, prontamente usufruibili, e soprattutto non richiedano più quelle dannate monetine, che puntualmente mancavano al me stesso di circa 23 anni fa.
Eppure – come già avevo accennato durante la recensione di R-Type Final 2 – un cabinato sul palmo di una mano semplicemente non è un cabinato; il feeling è differente, l’ergonomia è differente, le caratteristiche hardware sono differenti. Dariusburst Another Chronicle EX+ è il perfetto esempio di come un cabinato ed una console portatile non vadano sempre equiparati.
Dariusburst nasce come titolo prettamente arcade, ovvero destinato alle sale sale giochi, e Another Chronicle EX+ è di fatto un remix del capitolo originale Dariurburst; abbiamo quindi a che fare con il porting – ad opera di Pyramid – di un titolo per cabinato, e questo causerà più di qualche problema alla fruizione su console, ma andiamo con ordine.
Ittiologia spaziale
Lo sappiamo tutti, la trama non è proprio l’elemento centrale di uno Shoot ‘em Up a scorrimento, e la saga di Darius non fa eccezione. Vi basti sapere che l’umanità anche stavolta deve vedersela con l’Impero Belsar, e per farlo ha a disposizione un’unica, potentissima arma, ovvero il caccia Silverhawk. Fin qui nulla di nuovo, umanità contro razza aliena ed un’astronave pronta a vincere la guerra, ovviamente in solitaria. Quel che sin dal primissimo capitolo – rilasciato nel 1986 – ha contraddistinto la serie è proprio l’aspetto peculiare dei nemici; esseri meccanici dalle fattezze di pesci, crostacei, molluschi e varie creature marine. Ovviamente Dariusburst Another Chronicle EX+ non fa eccezione, proponendo per l’ennesima volta scontri con nemici storici, stavolta reinterpretati in praticamente ogni colorazione possibile, con decine di varianti dei tanti boss presenti.
A contrapporsi a questo grande acquario spaziale abbiamo la storica navetta Silverhawk, sola ed unica protagonista dell’intera saga. In contrapposizione a ciò che avviene con tanti shmups moderni – ovvero inserire meccaniche su meccaniche – Darius continua nel suo approccio più classico al genere. La Silverhawk è equipaggiata con un cannone primario ed un fuoco secondario – solitamente missili o bombe – e può potenziare il proprio armamentario raccogliendo globi colorati, prontamente rilasciati dai nemici abbattuti. È però presente una novità, che dà anche il nome alla nuova serie di capitoli. La Silverhawk è infatti equipaggiata con un Cannone Burst, un grande laser in grado di infliggere enormi danni ed eliminare quasi tutte le pallottole nemiche che incontra. Ovviamente un’arma tanto potente ha anche un utilizzo limitato, e va ricaricato abbatendo nemici o schivando pallottole. Vi è inoltre la possibilità di sganciare il modulo burst dalla nave, utilizzandolo così come una torretta in grado di coprire una certa porzione di schermo ed a funzionare da scudo al tempo stesso.
I livelli, come sempre, sono contrassegnati da varie lettere, presentando una struttura ad albero; si comincia scegliendo da quale dei tre stage iniziali si voglia partire, ed all’abbattimento dell’immancabile boss viene data la possibilità di scegliere quale tra le due zone successive si desideri affrontare. Ogni partita dura esattamente 3 livelli, di difficoltà ovviamente crescente. Ciò porta il totale degli stage a 12, ma come vedremo a breve in realtà gli stage sono molti, molti di più tra varianti e remix.
Il titolo si compone di 4 modalità. Original Mode, ovvero la modalità standard, e Original Mode EX, l’hard mode, che consiglio solo ai veri appassionati, visto l’elevatissimo grado di sfida. Event Mode, composta da 21 stage remixati e rilasciati per il cabinato originale, oggi finalmente disponibili anche su console. E poi quella che considero la modalità più interessante, ovvero la Chronicle Mode; centinaia di stage in multiplayer asincrono, in cui i giocatori sono chiamati a liberare vari sistemi solari, respingendo pian piano l’impero Belsar in vari stage che presentano le condizioni più disparate, come ad esempio il completamento con un solo credito a disposizione. Insomma, di contenuti ve ne sono davvero tantissimi, e terranno impegnati per decine di ore, seppur manchi un qualsivoglia contenuto sbloccabile che giustifichi un esborso di tempo simile.
È particolarmente encomiabile la cura riposta nella realizzazione di ciascuno stage, che suggerisce da subito al giocatore l’utilizzo del cannone burst; non è raro infatti che i nemici attacchino su più lati dello schermo, rendendo così necessario l’utilizzo del modulo burst per fronteggiare un’ondata mentre la navetta comandata dal giocatore ne sistema un’altra; o ancora, potrebbe rivelarsi necessario utilizzare il cannone burst per fronteggiare i cannoni laser nemici, o utilizzarlo come screenclear nelle fasi più concitate.
Insomma, per quanto concerne il gameplay siamo davanti ad un lavoro sopraffino, e pad alla mano il divertimento è tanto. Ed a proposito di pad, è d’obbligo citare l’implementazione del HD Rumble in Dariusburst; potente e ritmata, la vibrazione del pad restituisce un ottimo feeling, e rende l’esperienza decisamente più appagante. Devo però precisare che a volte la vibrazione è anche troppo potente, e più di una volta mi sono chiesto se quel rumble – praticamente continuo durante gli stage – facesse bene alla mia Switch. Fortunatamente vi è la possibilità di settarne l’intesità – che è impostata al massimo di default – nel menù principale, graditissima aggiunta.
Uno spiacevole retaggio
Eccoci arrivati al più grande difetto di Another Chronicle EX+, ovvero la sua natura da titolo arcade. Il cabinato di Dariusburst si compone di due schermi da 32″ posti uno di fianco all’altro, ed il gioco è creato proprio in quel formato; la visuale dello stage è decisamente più ampia rispetto alla quasi totalità degli shmups in commercio e questa soluzione hardware garantisce un colpo d’occhio notevole, avvolgendo chi si trova davanti ad un arcade simile.
Qui però sorge il problema, come avranno fatto i ragazzi di Pyramid a rendere tale aspetto su una console portatile con schermo da 6,62”? Come vi avevo anticipato ci troviamo davanti ad un porting nudo e crudo – arricchito di qualche trascurabile opzione – quindi l’unica soluzione possibile è l’inserimento di due vistosissime bande nere all’estremità superiore ed inferiore dello schermo, soluzione già adottata per tante conversione di shmups; soluzione che ahimè non funziona per Dariusburst, essendo il titolo sviluppato per una visuale estremamente ampia.
Il risultato è che la fruizione del titolo risulta davvero ostica, specie in modalità portatile, con una piccola porzione di schermo che deve racchiudere davvero troppi elementi; più di una volta ho riscontrato difficoltà nel manovrare la nave o vedere un proiettile nemico, visto quanto risultano piccoli sullo schermo di Switch. Dariusburst è un ottimo shoot ‘em up, ed usufruirne in tale maniera non rende per nulla giustizia alla qualità del gameplay proposto. La situazione migliora leggermente su TV, a patto però di possedere un pannello di dimensioni adeguate; personalmente ho trovato accettabile la resa a schermo sul mio TV da 55″, ma non vi nego che anche in queste condizioni avrei preferito uno schermo più grande.
I retaggi da arcade non si fermano qui. Another Chronicle EX+ è un titolo davvero stracolmo di contenuti, ma tali contenuti vengono presentati al giocatore in maniera confusionaria; minuscoli testi quasi illegibili in modalità portatile, la onnipresente scritta “freeplay” ed un simpatico “mind the head” alla fine di ogni sessione sono solo alcuni degli elementi che rivelano la natura di conversione del titolo da cabinato. Risulta quindi inspiegabile la scelta di rendere disponibile Another Chronicle EX+ piuttosto che il capitolo creato ad hoc per console portatili Chronicle Saviours – sempre sviluppato da Pyramid – titolo decisamente più adatto per un Nintendo Switch.
In conclusione
Questa è davvero una strana recensione, poiché Dariusburst Another Chronicle EX+ è di fatto un ottimo titolo, pieno di contenuti, con un gameplay divertente e frenetico ed una OST da paura. Sfortunatamente alla bontà del titolo si contrappone la fruizione dello stesso, che risulta davvero ostica, specie in modalità portatile, dove i 6,62″ di Switch proprio non rendono giustizia alle battaglie della Silverhawk. Il problema è leggermente mitigato su TV di una certa dimensione, certo, ma non viene mai davvero risolto. Questo – unito ad un prezzo non proprio irrisorio – mi porta a consigliarlo solo agli appassionati duri e puri del genere, consci del fatto che Switch non è esattamente la console migliore su cui giocarlo.
Monster Hunter Stories 2: Wings of Ruin è una piacevolissima sorpresa. Un jrpg solidissimo, con una trama semplice ma avvincente, personaggi ben scritti, uno stile grafico delizioso e una quantità di contenuti davvero enorme. Il battle system offre un ottimo grado di sfida, mentre i problemini di performance non minano la fruizione di uno dei migliori jrpg degli ultimi tempi.
9
Collezionare mostri, tanti mostri, un concetto tanto semplice che ha fatto entrare di diritto Pokémon tra le fila dei franchise più famosi e redditizi al mondo. Eppure di titoli che tentino di seguire le orme tracciate dal gigante nipponico se ne trovano davvero pochi, a riprova che sì, il concetto del catturare mostriciattoli è semplice, ma non facilmente replicabile. È proprio qui che entra in scena Capcom, che a sorpresa annuncia Monster Hunter Stories 2: Wings of Ruin, la stessa Capcom che negli ultimi anni sembra essersi trasformata in uno strano Re Mida del mondo videoludico, sfornando capolavori su capolavori e riportando in auge saghe che non se la passavano troppo bene; da Monster Hunter World ai remake della serie Resident Evil, per poi passare a Devil May Cry V e Monster Hunter Rise. A tutto ciò va anche aggiunto che la saga di Monster Hunter sta meritatamente vivendo un periodo d’oro, con i capitoli World e Rise campioni di vendite, ed addirittura un film prodotto sul franchise, che sarò onesto, non ha ricevuto il magico tocco delle serie videoludiche di Capcom.
Con queste premesse le aspettative non potevano che essere alte, soprattutto per il sottoscritto, grande estimatore della saga di Monter Hunter, ed al contempo dello spinoff sviluppato per Nintendo 3DS nel lontano ottobre 2016, un validissimo jrpg piuttosto sfortunato, rilasciato durante quello che definirei il canto del cigno della portatile a doppio schermo. Insomma, la domanda è semplice, sarà riuscita Capcom ad imprimere il magico tocco anche stavolta, l’ennesima volta? Si, vi assicuro che ci è riuscita, ed ha sorpreso un po’ tutti, ma andiamo ad analizzare l’ultima magia della fortunata – o magica, decidete voi – casa di sviluppo nipponica.
Un cielo cremisi
La nostra avventura ha inizio nel villaggio di Mahana, unico insediamento umano sulla piccola isola di Hakolo. Il cielo si tinge di rosso – no, non è colpa del Valstrax stavolta – e tutti i Rathalos presenti sull’isola si alzano in volo, diretti da qualche parte oltre il mare, oltre l’orizzonte. Anche il Ratha Guardiano, inseparabile compagno di Red, nonno del protagonista, non riesce a resistere a quel bagliore cremisi, ma prima di spiccare il volo ci affida uno strano uovo, che stando ad un’antica profezia potrebbe contenere il Ratha Tagliente, malvagio essere che porterà distruzione su tutto il mondo.
Questo rappresenta l’inizio di un epico viaggio in cui vestiremo i panni di un giovane Rider – creato tramite editor – alla ricerca della verità sulla profezia delle Ali della Distruzione e sul destino di Ratha, accompagnati da Ena ,Wyverniana dal cuore gentile, e Navirou, uno strambo Felyne che si proclama addirittura come il Felyne Leggendario. E non mancheranno tanti altri comprimari, sorprendentemente caratterizzati, che renderanno il nostro vagabondare per il continente un’esperienza ancor più piacevole e meno solitaria.
Sappiamo benissimo che nella saga di Monster Hunter il comparto narrativo spesso si è rivelato essere un mero pretesto per riempire di botte bestie di ogni specie e forgiare nuovi attrezzi del mestiere, ed anche il primo Monster Hunter Stories – nonostante proponesse degli spunti interessanti – non si discostava poi troppo dalla classica forma della saga Capcom. É proprio qui che Monster Hunter Stories 2 sorprende maggiormente, compiendo enormi passi avanti rispetto il predecessore. La storia non è più un semplice mezzo per giustificare la presenza di questo o quel mostro da affrontare, ma assume un ruolo centrale durante tutto l’arco dell’avventura, con colpi di scena riusciti, personaggi ben caratterizzati, ed un intreccio narrativo semplice nella forma, ma decisamente godibile, che saprà catturare il giocatore in più di un’occasione. Ed ovviamente non mancano i siparietti comici che permeavano il primo titolo, che devo ammetterlo, mi hanno strappato più di qualche risata e soprattutto non si sono mai rivelati essere fuori luogo.
Sorprende anche la sapienza con cui vengono affrontati i tanti temi presenti nel gioco, dall’amicizia all’importanza dei legami creati, la fiducia, la vendetta, ma soprattutto la capacità di non fermarsi all’apparenza delle cose, ed anzi, di voler comprendere davvero chi si ha davanti. Tutti temi trattati in maniera sì leggera, ma efficace ed oserei dire potente in un paio d’occasioni, che faranno riflettere sia i giocatori più o meno giovani. L’intero comparto narrativo è poi supportato da sequenze cinematiche di prim’ordine, che ci faranno immedesimare ancor di più nei protagonisti della nostra avventura, ed a volte si avrà anche la sensazione di guardare un anime vero e proprio, merito della deliziosa direzione artistica. Insomma, tutto quel che concerne il comparto narrativo di Monster Hunter Stories 2 è davvero solido, e dimostra che anche Monster Hunter può fregiarsi di una trama di tutto rispetto, che spero vivamente verrà proposta anche in un titolo della saga principale, prima o poi.
Che dire poi del mondo di gioco? Cavalcare tra cime innevate o aridi deserti è davvero una piacevole esperienza; seppure Monster Hunter Stories 2 non sia un capolavoro tecnico, il grosso dell’ottimo lavoro svolto è da ricercarsi nell’azzeccatissima direzione artistica, che opta per ambienti coloratissimi e molto particolareggiati. É inoltre presente una funzione di spostamenti rapidi, che risulta accessibile in ogni istante ed è un vero e proprio toccasana per il ritmo di gioco, poiché ,qualora si vogliano completare le tantissime subquest presenti, vi assicuro che i giri da fare saranno tanti, davvero tantissimi. Le nostre lunghe camminate vengono poi accompagnate da una colonna sonora che risulta sempre coerente con ciò che si vede a schermo, ed offre tracce di ottima qualità. Il tutto è impreziosito da entrambi i doppiaggi presenti – in lingua inglese e giapponese – di buon livello, e di sottotitoli ovviamente in italiano.
Una nota di rammarico invece per le performance della versione provata, con gli stupendi filmati che spesso e volentieri scenderanno anche sui 20 fotogrammi al secondo, ed un’esplorazione talvolta resa fastidiosa da performance claudicanti. Appare inoltre inspiegabile la scelta di mantenere il framerate totalmente sbloccato e non inserire un cap ai canonici 30fps, con il risultato che in alcuni ambienti – i più piccoli – il titolo andrà a 60fps, per poi passare a 30, 20, 40 e così via, rendendo l’esperienza poco fluida ed omogenea. Fortunatamente durante le fasi di combattimento la situazione migliora ed il framerate si assesta sui 30fps quasi granitici, offrendo un’esperienza molto più godibile. Dopo aver riscontrato performance tanto problematiche inoltre mi chiedo, davvero ciò di cui noi fan di Nintendo abbiamo bisogno sia uno schermo OLED? Ed insomma, la scelta di Nintendo si fa sempre più inspiegabile.
Gotta ride ‘em all!
Chi sono i Rider? A differenza dei Cacciatori, protagonisti indiscussi della saga principale di MH, i Rider potrebbero essere definiti come “addestratori di mostri”, individui che riescono a creare un forte legame con i propri Monsties – questo il nome dei mostri “addomesticati” – e lottare assieme a loro, in perfetta sincronia. Proprio in questa figura – davvero simile ad un allenatore Pokémon – risiede la peculiarità di Monster Hunter Stories.
Sono proprio i Monsties i veri protagonisti di Monster Hunter Stories 2, ed alzi la mano il fan che non ha mai sognato di cavalcare uno Zinogre o un Mizutsune. Sono tanti, davvero tanti, se ne contano un centinaio circa, ognuno contraddistinto da tipo, elemento ed abilità spesso uniche, oltre ad una spettacolare mossa legame per ognuno. Insomma, se cercate un titolo in cui collezionare mostriciattoli, ma i Pokémon vi sembrano troppo carini, qui troverete pane per i vostri denti. Si va dal Glavenus, un wyvern brutale specializzato nell’utilizzo della lama/coda, a Monsties più bizzarri, come il Nerscylla, Temnoceran – o grande aracnide, che dir si voglia – specializzato nell’ infliggere status alterati. Di varietà ve ne è davvero tantissima, tanto che più e più volte ho letteralmente speso minuti interi a decidere quale Monstie portare con me, dato che mi piacevano praticamente tutti; i dubbi vengono ulteriormente rinforzati dal fatto che ogni Monstie ha una sua abilità “ambientale” utile ad esplorare le varie mappe di gioco, come ad esempio il Velocidrome che può saltare, o lo Yan Kut Ku che ha la capacità di frantumare alcune rocce, dove spesso si nascondo dei preziosi scrigni. Bisogna inoltre fare i complimenti a Capcom per quanto concerne la realizzazione di mostri e personaggi, tutti ricreati con una curia maniacale, dalle movenze alle stupende animazioni di attacco. Dopo questa piccola parentesi passiamo invece a ciò che definisce un jrpg, ovvero il battlesystem.
Il titolo si presenta come un classico jrpg a turni, dove tutto ruota attorno ad un sistema di resistenze e debolezze molto simile alla morra cinese. Quasi tutti gli attacchi si suddividono in tre macrocategorie, ovvero potenza, velocità e tecnica, ed ognuna di esse ha la meglio su una ma soccombe all’altra. É importantissimo infatti selezionare il giusto attacco da sferrare, al fine di vincere lo scontro frontale, o Testa a Testa, al fine di riempire la barra legame, il “mana” di Monster Hunter Stories. A noi viene data la possibilità di comandare il Rider, che dispone di vari tipi di armi ed abilità, mentre Monsties ed alleati vengono invece gestiti dalla CPU, anche se il Monstie può ricevere ordini direttamente da noi tramite l’utilizzo della barra legame. É poi possibile, previo riempimento della barra legame, salire in sella al proprio Monstie, per poi sferrare una spettacolare abilità legame, attacco devastante e coreograficamente stupendo; a tal proposito vi consiglio di provare quello del Brachydios, davvero fuori di testa!
I combattimenti di Monster Hunter Stories sono lunghi, parecchio più lunghi di quelli presenti nella stragrande maggioranza dei jrpg, ciò però non significa che gli scontri siano noiosi, anzi, tutt’altro, ogni combattimento assomiglia ad una piccola bossfight, con i mostri avversari che alternano varie fasi d’attacco, passando da potenza a tecnica ad esempio, per poi andare in enrage, seguendo un pattern ben preciso. Inoltre i mostri avversari – nella maggior parte dei casi – sono composti da più parti, ognuna con la propria resistenza e debolezza a danni contundenti/perforanti/taglienti, proprio come nella serie principale, e spesso sarà necessario “rompere” una parte per stordire l’avversario, renderlo più vulnerabile o bloccare un suo attacco particolarmente pericoloso. Tutti questi elementi culminano nelle bossfight, di difficoltà via via crescente, che riserveranno non poche sorprese.
Capcom quindi riesce nell’arduo compito di rendere ogni singolo scontro soddisfacente e mai banale, dando anche l’opzione al giocatore di velocizzare il tempo di battaglia a 2x o 3x, e qualora volessimo “farmare” dei mostri più deboli, di porre istantaneamente fine alla lotta, non tediandoci con i classici scontri da jrpg “usa il comando attacca fino allo sfinimento”, un risultato mica da poco.
Come avrete capito il sistema di combattimento di Monster Hunter Stories, a prima occhiata piuttosto semplice, nasconde invece una complessità non indifferente che metterà alla prova le nostre capacità strategiche; ogni Monstie appartiene ad una delle tre categorie d’attacco, quindi è imperativo costruire una squadra ben bilanciata al fine di fronteggiare ogni tipo di avversario. Inoltre, come già detto, ogni Monstie è contraddistinto da un elemento ed una debolezza elementale, dati che inizialmente potrebbero sembrare superflui – vista la discreta facilità delle prime ore – ma che nelle fasi avanzate dell’avventura si riveleranno di vitale importanza, quando gli avversari picchieranno sempre più forte, e scegliere il Monstie sbagliato potrebbe portarci ad una rapida sconfitta. Così come è di vitale importanza la scelta dell’equipaggiamento del Rider, punto che toccherò a seguire.
Piccoli genetisti crescono
Fin qui abbiamo discusso di storia, battlesystem, ma tutti sappiamo che in ogni jrpg che si rispetti è di fondamentale importanza la scelta dell’equipaggiamento così come la costruzione della propria squadra, e fidatevi, qui Monster Hunter Stories non teme rivali. Ogni singolo Monstie è contraddistinto da un proprio “quadro genetico”, ovvero una griglia 3×3 che ne determina parametri ed abilità, ed è generata in maniera semi-casuale alla schiusura di ogni uovo. Tramite il Rituale Sciamanico è poi possibile trasferire un singolo gene da un Monstie all’altro, perdendo il “donatore” nel processo, ed è qui che si apre letteralmente un gioco nel gioco. Volete un Arzuros che sputi fuoco come un Rathalos? Potete farlo. Amate il vostro Tigrex ma la sua abilità Lancia Pesante vi sembra poco utile? Sostituitela con qualcos’altro. Volete creare un Monstie in grado di rispondere ad ognuno dei 3 tipi di attacchi, a discapito di bonus passivi? Anche qui la risposta è, createvelo pure. Le possibilità sono davvero infinite, ed incasellando tre geni dello stesso tipo/elemento si fa “bingo” potenziando quella data categoria/elemento del Monstie. Come se non bastasse i geni hanno più livelli – ad esempio esiste Punto Debole 1 o la versione potenziata, Punto Debole 2 – quindi creare il “Monstie perfetto” richiederà tanta dedizione, ma anche un enorme grado di soddisfazione.
E che dire del Rider? I tipi di armi presenti in Stories sono 6, ovvero spadone, spada e scudo, martello, corno da caccia, arco e lancia-fucile; ognuna di esse ha accesso a diverse abilità e stili di gioco. Ad esempio il martello è un’arma totalmente votata agli scontri Testa a Testa ed acquisisce una carica ogni volta che ne vinciamo uno, per poi utilizzarli in devastanti attacchi come la Meteora Vorticante. Il corno da caccia è invece un’arma che fa del supporto il suo punto forte, grazie a cure o numerosi buff che potenziano l’intera squadra. Sappiate che la quantità di equipaggiamenti è davvero enorme, potremo scegliere tra centinaia di spadoni, spade, martelli e chi più ne ha più ne metta. Ovviamente altro tassello fondamentale dell’equipaggiamento sono le armature, che di fatto andranno a definire le difese del nostro Rider, ma soprattutto le sue abilità, dando così vita ad ogni sorta di build. Amate il corno da caccia? Allora un’armatura con Maestro Corno+1/2 etc. è d’obbligo. O magari preferite puntare tutto sui colpi critici? Vi consiglio di fare scorta di materiali Nargacuga! Non possono poi mancare i talismani, oggetti equipaggiabili generati casualmente che ci forniranno ulteriori abilità per affinare la nostra build. La scelta è davvero vastissima, ed ogni giocatore potrà creare la propria combinazione di armi ed armature, puntando più sul Rider o magari cercando una maggiore sinergia con la propria squadra di Monstie. É davvero sorprendente come Capcom sia riuscita a trasporre perfettamente ognuna delle 6 tipologie di arma in salsa jrpg, rispettandone in pieno lo stile di gioco della saga principale, così come è incredibile la varietà di approcci data al giocatore, che sarà costantemente spronato nel creare nuovo equipaggiamento, in un loop davvero piacevole. Insomma, se siete amanti della customizzazione e/o del min/maxing state certi che in Monster Hunter Stories 2 troverete un titolo irrinunciabile.
Cavalcare in compagnia
Potrei già dire che Monster Hunter Stories 2 offra una mole di contenuti enorme nella sola campagna principale – che per inciso, andando spediti dura almeno 35-40 ore – ma non si ferma qui. Una volta ultimato il titolo sarà possibile accedere ad una miriade di contenuti postgame, come un dungeon “finale”, nuovi mostri presenti solo qui, ed in generale un nuovo grado di sfida, ovvero l’ Alto Grado. Vi basti sapere che praticamente ogni singolo pezzo di equipaggiamento potrà essere nuovamente forgiato in forma più potente, e che il postgame è potenzialmente più cospicuo della storia principale, che col senno di poi potrei definire un grande e lungo tutorial. Infatti è proprio in questa porzione di gioco che l’asticella si alza ulteriormente, offrendo delle bossfight davvero toste, che richiederanno squadre create ad hoc e la padronanza totale del battlesystem per essere superate. Mi piacerebbe parlarvi di quanto il postgame mi abbia stupito, ma vi invito a scoprirlo da soli, perchè ne vale davvero la pena!
Altra importante componente del titolo è la cospicua modalità multiplayer, che viene sbloccata solo dopo qualche ora di avanzamento nella trama principale, e si compone di esplorazioni, sfide ed una vera e propria modalità competitiva. É proprio durante le sfide ed esplorazioni che il titolo propone i contenuti più ardui, per cui se volete davvero fare tutto il fattibile senza il fardello di un compagno mosso dalla CPU l’online è l’unica scelta disponibile. Va segnalato che il matchmaking agisce in forma totalmente automatica, e trovare una stanza che fa al caso nostro sarà un gioco da ragazzi, essendo l’online decisamente popolato al momento della stesura di questa recensione. Ho provato per diverse ore tale modalità, e se da un lato posso affermare con certezza che sì, funziona, dall’altro mi sentirei di consigliarla davvero solo qualora si abbia la possibilità di giocare con un amico, piuttosto che con sconosciuti. Ovviamente un jrpg a turni non è proprio il genere di videogioco più adrenalinico, e giocare con uno sconosciuto che magari perde tempo nel selezionare la mossa da utilizzare risulta spesso davvero noioso; discorso diverso invece se si ha la possibilità di giocare con un amico, chiacchierarci, concordare una determinata strategia. In quel caso il multiplayer di Monster Hunter Stories 2 risulta una modalità di tutto rispetto, capace di regalare ore ed ore di contenuti, farming e sfide davvero ardue.
In conclusione
Monster Hunter Stories 2: Wings of Ruin è l’ennesima stregoneria Made by Capcom. Uno stile grafico delizioso, tantissimi mostri da collezionare, grande cura per i dettagli, una trama piacevolmente narrata, quasi fiabesca, che tratta in maniera efficace temi sempre attuali, un battlesystem solidissimo e molto stratificato. A tutto ciò va aggiunta la possibilità sconfinata di customizzazione dei propri Monstier, così come del Rider, che farà felice qualsiasi patito di statistiche e personalizzazione. Contenuti postgame davvero cospicui, nuove sfide da affrontare ed una modalità multiplayer che può regalare tante soddisfazioni. Tutti questi elementi riescono nell’arduo compito di trasporre Monster Hunter in un jrpg dalle qualità altissime, che rispetta in tutto e per tutto la saga principale, creando al tempo stesso quello che reputo uno dei migliori spin-off degli ultimi anni. Certo, su Nintendo Switch le performance non sono proprio esaltanti, ma una sbavatura simile non può in nessun modo oscurare le enormi qualità di cui Monster Hunter Stories 2 riesce a fregiarsi.
E così si è concluso il tanto atteso E3 2021, il più grande evento del mondo videoludico al mondo, e come di consueto è stata Nintendo ad occupare lo spot finale dello show. Le aspettative erano sicuramente alte, a ragione considerata la non proprio stellare comunicazione cui Nintendo ci ha abituati nell’ultimo periodo, e devo esser sincero, il Direct le ha in larga parte rispettate, sorprendendo con alcuni annunci.
A volte ritornano
In un E3 generalmente sottotono divenuto nei primi giorni soprattutto una vetrina per l’Xbox Game Pass e letteralmente invaso da orde di titoli co-op online, openworld e spesso GaaS per non farci mancare nulla, Nintendo punta nella direzione diametralmente opposta, spostando il focus su generi di nicchia e saghe a volte dormienti, come Metroid, ed a volte letteralmente dimenticate, da anni.
E così, dopo l’immancabile annuncio del nuovo combattente di Super Smash Bros. Ultimate, ovvero Kazuya Mishima, ed il timido accenno ad un Prime 4, ecco che arriva ciò che tutti aspettavamo da quando lasciammo Samus Aran in fuga dalla Federazione, all’incirca 19 anni fa. Metroid Dread, il seguito dell’ormai lontanissimo Metroid Fusion, viene finalmente annunciato, con tanto di gameplay showcase e data di lancio, ovvero 8/10/2021.
Sviluppato dal talentuoso team spagnolo Mercury Steam, già fautori dell’ottimo Metroid: Samus Returns per Nintendo 3DS, e diretto dal grande Yoshio Sakamoto, Dread si presenta subito come il capitolo che chiuderà l’arco narrativo iniziato nel lontano 1986, anno d’uscita del primissimo Metroid per NES. Insomma, un annuncio tanto sofferto quanto gradito a tutti i fan della Cacciatrice di taglie più famosa della galassia.
È poi il turno di Mario Party Superstars, il nuovo capitolo dell’ottimo party game con protagonista il celeberrimo idraulico, che propone 5 tabelloni ripresi dai 3 capitoli della saga prodotti per Nintendo 64, oltre 100 minigiochi e la possibilità di divertirsi sia in co-op locale con i propri amici o sfidare altri appassionati grazie alla funzione di matchmaking online. Anche in questo caso, la parola d’ordine è concretezza, e la data di rilascio è subito resa pubblica, ovvero 29/10/2021.
Altro grande protagonista del Direct è sicuramente Shin Megami Tensei V, il JRPG targato Atlus che venne annunciato nel lontano 2017, e che può finalmente mostrarsi con un bel trailer di gameplay ed una long session trasmessa durante il Treehouse. Toni seri, atmosfera cupa, direzione artistica di primissimo livello, il tutto unito ad un battlesystem che è già una garanzia ed un grado di sfida che sicuramente metterà in crisi più di un videogiocatore. E come di consueto, ecco a voi la data di rilascio, ovvero il 12/11/2021.
A questo punto Nintendo sorprende un po’ tutti, tirando fuori un nome che non si sentiva da tanto (troppo) tempo. Viene così presentato Advance Wars 1+2: Re-Boot Camp, remake di due capolavori senza tempo, gli strategici a turni Advance Wars ed Advance Wars: Black Hole Rising, titoli rilasciati per l’amatissimo Game Boy Advance rispettivamente nel 2001 e 2003. Qui c’è poco da dire, la serie Wars di Intelligent Systems è una garanzia di qualità, e per l’occasione il team nipponico collabora con WayForward, il talentuoso team dietro la saga di Shantae. Insomma, potremo tornare a comandare le truppe di Orange Star a partire dal 3/12/2021.
E poi arriva lui, il titolo più atteso dell’intero E3 probabilmente. Parliamo ovviamente del sequel di Breath of the Wild. Lo chiamiamo “sequel” poiché, curiosamente, Nintendo ha deciso di non rivelare il nome definitivo del progetto, che con tutta probabilità andrebbe a dare forse qualche informazione di troppo ai fan. Il trailer è breve, molto breve, eppure in quel piccolo lasso si intravede una piccola parte di ciò che il nuovo TLoZ sarà ed apre a mille possibilità, tant’è che la fandom sta già ampliamente speculando su quello che, in fin dei conti, è un minuto scarso di trailer in cui Nintendo ci ha voluto dare giusto un piccolo assaggio. Poi il trailer finisce ed arriva la mazzata. Un generico 2022, che probabilmente si tradurrà in un “holiday 2022”.
La Strega di Umbra risulta invece essere non pervenuta, e dall’annuncio di Bayonetta 3 sono ormai trascorsi 4 anni, 4 anni in cui non è stato mostrato letteralmente nulla. Il maestro Hideki Kamiya continua a rassicurare i fan, seppur con i suoi “particolari” modi, ribadendo che la Strega è viva e vegeta e gode di ottima salute, e nel frattempo il mistero si infittisce.
In definitiva Nintendo si presenta con un ottimo Direct; ritmo serrato, tanti annunci interessanti, focus solo ed unicamente sui giochi e soprattutto date di lancio. Si sente l’ennesima mancanza di Bayonetta 3 e la realizzazione che BotW 2 è più lontano di quanto si sperasse fa male, ma mi ritengo pienamente soddisfatto di ciò che è stato mostrato.
Un Direct per trentenni(e non solo)
Il titolo del paragrafo è volutamente provocatorio, ma non credo si discosti poi tanto dalla realtà delle cose. Con questo Direct Nintendo si rivolge principalmente al pubblico più “maturo”, o per meglio dire, anagraficamente maturo. Puntare su di un titolo singleplayer, metroidvania (che per forza di cose non può raggiungere longevità folli), 2.5d, di una saga che non vede nuovi capitoli da quasi 2 decenni è una mossa che nel mercato videoludico attuale è, per utilizzare un eufemismo, anomala, soprattutto quando la competizione è composta in larga parte da battle royale, co-op online, GaaS ed openworld spesso anche troppo longevi, ma generalmente molto apprezzati.
Il secondo piatto forte, Shin Megami Tensei V, è un JRPG duro e puro, con sistema di combattimento a turni, cupo, dallo stile peculiare, complesso e con tutta probabilità non proprio semplice da portare a termine; insomma, non un titolo per tutti. Anch’esso appartiene ad una saga che non vede un nuovo capitolo principale da 8 anni.
Ed ancora, la riproposizione dei primi due capitoli di Advance Wars, di cui, personalmente, mai mi sarei aspettato una riproposizione con quasi vent’anni sul groppone. Chiunque si sarebbe aspettato un remake/remaster della celebre saga Fire Emblem, molto più semplice da vendere nonostante il genere d’appartenenza di nichia.
Certo, non sono mancati annunci più “moderni”, come Mario Party Superstars, o il bramatissimo trailer di Breath of the Wild “2”, ma sono sicuro che questo Direct abbia fatto la felicità di tantissimi (me compreso) fan di vecchia data; ragazzi ormai cresciuti e nel pieno dei loro “-enta”, non proprio la demografica che viene spesso, ed erroneamente a mio parere, attribuita all’utenza principale Nintendo.
Ma questo non vuol dire che questi titoli sono rivolti solo ed unicamente a vecchietti come il sottoscritto, tutt’altro, vedo la riproposizione di vecchie glorie in salsa moderna (pur mantenendo intatta l’essenza) come un’opportunità per tutti, anche i più giovani, di approcciarsi a delle saghe che hanno fatto la storia del videogioco, scoprendo magari che un metroidvania 2.5d può regalare le stesse emozioni di un openworld da 150 ore, ed a volte anche più intense.
R-Type Final 2 è un tuffo nel passato e al tempo stesso un enorme omaggio a tutta la saga della navetta R9. Un titolo impegnativo, ma mai ingiusto, che propone un gameplay solidissimo, level design di alto livello e il ritmo ragionato tipico di R-Type, il tutto unito a una miriade di sbloccabili, la possibilità di pilotare le più famose navette della saga e tanto altro. Peccato per qualche incertezza sul versante tecnico, che comunque non mina il divertimento che lo shoot ‘em up Granzella saprà regalarvi.
8.5
La sala giochi, punto di ritrovo per tutti gli appassionati di videogiochi tra la fine degli anni ’70 d i primi anni del terzo millennio, con tutti i suoi cabinati che facevano a gara a chi avesse i colori più sgargianti o la forma più stramba, tra repliche di motociclette, mitragliatori, piattaforme di ballo e chi più ne ha più ne metta. Ed è proprio lì, tra gli immancabili cabinati di Metal Slug o Super Street Fighter 2, che il genere degli shoot ‘em up (da qui in avanti shmup) ha vissuto una vera e propria età dell’oro. Titoli spesso difficilissimi, a volte anche ingiusti, il cui unico obiettivo era testare i nervi del giocatore e spillare la maggior quantità possibile di monetine da 100 lire ai poveri malcapitati che osavano sfidarli, il tutto scandito dalla dannata schermata “Continue? 9-8-7…” che tanto, troppo spesso appariva su quegli schermi.
Eppure ricordo con nostalgia quei pomeriggi estivi passati tra amici sul cabinato di Aero Fighters 2, U.N. Squadron, Darius II, Gradius, la gara all’highscore, la conta delle monetine rimaste per capire se effettivamente alla fine del livello ci sarei potuto arrivare o no, l’immancabile richiesta di altre monetine ai miei genitori e infine l’accettazione: le monetine erano finite e i cabinati avevano vinto ancora una volta, l’ennesima volta, ma l’indomani il vincitore sarei stato io, quella sarebbe stata la volta buona. Inutile dire che no, la fantomatica “buona volta” non è mai arrivata, i cabinati hanno vinto e io ho speso molte più monetine del dovuto, ma torniamo a noi.
È in questo paesaggio idilliaco che nel 1987 nasce uno degli esponenti più celebri del genere, il leggendario sparatutto a scorrimento orizzontale R-Type, a opera dello studio Irem. Ciò che distingueva R-Type dalla miriade di altri shmups dell’epoca era sicuramente la veste grafica all’avanguardia, una direzione artistica ispiratissima e un gameplay innovativo, ma solido già dal primo istante, in un genere, quello degli sparatutto a scorrimento, dove innovare non era compito facile. Il successo fu istantaneo, tant’è che Irem sviluppò vari sequel per sistemi arcade e successivamente anche per console casalinghe, fino al 2003, anno d’uscita di R-Type Final su Playstation 2, ultimo vero capitolo della saga. Dopo quasi due decadi e un paio di campagne Kickstarter andate a buon fine è Granzella, con la supervisione di Kazuma Kujo, a raccogliere la pesante eredità di un titolo divenuto leggenda, ed è così che nasce R-Type Final 2, e specificatamente la versione per Nintendo Switch.
Come l’originale, ma in UE4
Sono passati più di 30 anni, ma il nostro obiettivo rimane sempre e solo uno, ovvero difendere l’umanità dalla minaccia dall’impero Bydo, rivale ricorrente per tutti gli episodi della saga (fatta eccezione per R-Type Leo). E starà al giocatore, a bordo del caccia transdimensionale R9 (e non solo), avanzare stage dopo stage fino ai titoli di coda. Come per i suoi precedessori, anche Final 2 relega la trama a un elemento totalmente accessorio, quasi del tutto assente, presentando l’unica breve scena di intermezzo presente proprio durante il primissimo decollo. Da lì in avanti l’intera partita viene scandita da azione nuda e cruda, con stormi di nemici da abbattere, piogge di proiettili da evitare e ostacoli da superare. I nemici sfoggiano il caratteristico design che ha reso celebre la saga, spaziando da comuni astronavi ad aberrazioni bio-meccaniche, tratto distintivo e aspetto che ha reso celebre il primo R-Type. Fanno il loro ritorno anche numerosi nemici comuni e boss presenti nei vecchi capitoli, tra cui il più rappresentativo dell’intera saga, Dobkeratops, celebre creatura che quasi ogni appassionato di videogiochi avrà quantomeno intravisto almeno una volta.
I vari stage presenti, 11 al momento (con dei DLC in arrivo che li amplieranno a 18), presentano una buona varietà; visiteremo spazioporti abbandonati, caverne sottomarine, laboratori, ambienti interamente composti di materia organica e così via, anche se è da precisare che non tutti risultano particolarmente ispirati, con un paio di livelli in cui si nota una minore qualità di realizzazione, ma nell’insieme è stato fatto un buon lavoro. Bydo, caccia transdimensionali e ambienti di gioco vengono portati alla vita grazie all’utilizzo dell’Unreal Engine 4, e il risultato finale è decisamente piacevole, con ambienti per buona parte ben particolareggiati, background mobili, esplosioni e tanti effetti a schermo. Chiariamo subito che non siamo di fronte a un capolavoro tecnico, e in effetti più di una volta capiterà di notare qualche modello poligonale un po’ troppo spoglio o poco definito, ma va anche specificato che difficilmente sarà possibile soffermarsi su questo o quel modello poligonale, vista la frenetica e continua azione a schermo che assorbirà completamente il giocatore. La colonna sonora svolge il suo lavoro, alternando pezzi frenetici o contemplativi in base allo stage affrontato, seppur non raggiungendo mai picchi troppo elevati.
Insomma, pad alla mano, è come se l’originale R-Type fosse stato trasportato avanti nel tempo: il feedback audiovisivo restituito da Final 2 è ottimo, peccato invece per alcuni sporadici rallentamenti presenti nella versione Switch al momento della stesura di questa recensione, e più precisamente durante lo scontro con il primissimo boss del titolo e nella fase finale dello stage 7.1. Una sbavatura che doveva essere evitata, visto il genere di appartenenza che richiede tassativamente performance stabili sempre e comunque, anche se mi preme sottolineare che entrambe le sezioni “incriminate” sono abbastanza semplici da portare a termine, pur con questi problemi. Altro aspetto da considerare è la resa in modalità portable, davvero bella, che cozza invece con una resa docked che a volte lascia davvero a desiderare.
Ma è tempo di passare al gameplay, nucleo centrale di qualsiasi shmup, e forse l’elemento più difficile in assoluto da replicare e migliorare, soprattutto in un periodo in cui gli sparatutto a scorrimento non sono proprio un genere di tendenza.
Che il Force sia con te!
Ciò che definisce il gameplay della saga di R-Type e lo differenzia da tantissimi altri shmups è un unico, singolo elemento, ovvero il Force, e Final 2 non fa eccezione, rendendolo elemento portante dell’intera esperienza di gioco, ma cos’è esattamente?
Si tratta di un nucleo formato da cellule Bydo, o in parole povere una sorta di sfera che, se ancorata al fronte (o retro) dell’astronave, fungerà da scudo antiproiettile potenziando al contempo la modalità di fuoco della R9, o da supporto indipendente qualora il giocatore volesse totalmente sganciarlo dalla nave, con alcuni modelli di Force che addirittura si comporteranno come veri e propri mini caccia, muovendosi autonomamente per lo schermo in cerca di nemici da crivellare. È inoltre presente un’ulteriore meccanica legata al Force, ovvero l’indicatore Dose, che potrà essere incrementato assorbendo i proiettili avversari tramite il Force, dando così accesso al giocatore al classico screenclear presente in qualsiasi shmup si rispetti, ovvero una “bomba” che ripulirà lo schermo da nemici e proiettili, infliggendo inoltre enormi danni al boss di turno.
La navetta disporrà inoltre di una modalità di fuoco secondaria, presente in ogni capitolo della saga, il Cannone a Onde, un proiettile da caricare, che può raggiungere stadi di potenza via via maggiori tanto più il giocatore terrà premuto il pulsante di fuoco secondario. In realtà la dicitura “cannone a onde” farebbe pensare a un’arma specifica, ma in realtà ne esistono di svariati tipi, da un enorme laser utile per distruggere formazioni di piccoli nemici, a vulcan fotonici, dal raggio piuttosto ristretto ma capaci di infliggere danni enormi. Anche qui la varietà è tanta e starà al giocatore valutare quale tipo di arma portare in missione, tenendo conto dei nemici che si incontreranno o della conformazione dello stage.
Anche qui, Final 2 restituisce il classico feeling che gli appassionati conoscono ormai da decenni, con posizionamento dei nemici, stage e boss specificatamente costruiti attorno a Force e Cannone a onde. Il lavoro di Granzella è davvero lodevole, la varietà d’approccio è tanta grazie a svariati tipi di force, cannoni a onde, armi primarie e secondarie, e sarà stimolante per il giocatore decidere quale sia la migliore accoppiata da portare da abbinare a ogni stage del gioco, aumentandone oltretutto la rigiocabilità.
Difficoltà d’altri tempi
Chiunque conosca o abbia quantomeno provato uno sparatutto a scorrimento saprà benissimo che la sfida offerta da questi titoli è davvero, davvero alta, ma va precisato che nel caso di R-Type Final 2 non ci troviamo dinnanzi al classico titolo bullet hell o, in lingua originale. Se state pensando a quelle schermate piene zeppe di proiettili dai colori sgargianti, tipiche di titoli come i vari capitoli Touhou o l’omonimo Danmaku Unlimited3, per vostra fortuna (o sfortuna, in base a ciò che state cercando) non è questo il caso. La difficoltà di R-Type risiede nella composizione degli stage, nel posizionamento dei nemici, nella padronanza dei vari tipi di arma a vostra disposizione. Final 2 segue un ritmo più compassato, quasi ragionato, e ogni stage è più una sorta di grande puzzle da risolvere, dove sta al giocatore capire dove posizionarsi in quel determinato passaggio o come evitare che dei nemici chiudano la navetta in una porzione di schermo in cui risulta impossibile destreggiarsi tra i proiettili in arrivo. Badate bene, compassato non equivale a lento o semplice, e anzi, Final 2 è un titolo molto impegnativo e va ragionato, soprattutto in certi frangenti.
Il sistema di checkpoint è un ulteriore grado di difficoltà che potrebbe non piacere a tutti. Di solito negli sparatutto a scorrimento al contatto con un qualsiasi nemico o proiettile si perde una “vita” e si respawna subito dopo, fino all’esaurimento delle “vite”. Ecco, in R-Type ciò non accade, alla morte il giocatore verrà riportato a uno dei checkpoint disseminati per gli stage, ma privo di qualsivoglia potenziamento d’attacco, Force compreso. Ciò renderà alcune sezioni davvero ostiche, qualora il giocatore dovesse morire per poi dover ripetere una sezione di stage di semplice risoluzione se provvisto di una navetta ben armata, ma a tratti frustrante se sprovvista di Force o armi potenziate.
All’avvio di ogni partita è possibile selezionare uno tra 5 livelli di difficoltà, tutti ben bilanciati nella sfida offerta, che andranno a influire su numero e posizionamento dei nemici, cadenza di tiro di questi ultimi e altri piccoli dettagli. I primi due, Addestramento e Bambino, risultano esperienze impegnative ma comunque approcciabili anche da chi non si è mai seriamente cimentato in uno shmup. Le difficoltà intermedie, Normale e Bydo, sono probabilmente il miglior compromesso per chi cerca un alto grado di sfida, senza mai risultare troppo frustranti. Poi c’è la modalità R-Typer, ma quella è una bestia a sé stante, e in parole povere l’esperienza “hardcore” che R-Type Final 2 offre agli appassionati. Granzella ha svolto davvero un ottimo lavoro nel bilanciamento delle difficoltà con livelli adatti a praticamente qualsiasi tipo di giocatore, dal neofita all’appassionato, sebbene ripeto, anche al grado più basso occorrerà comunque impegno qualora si volesse portare a termine il titolo.
È però nella modalità R-Typer che Final 2 esprime tutto il suo potenziale, imponendo al giocatore l’utilizzo pressoché perfetto di Force, cannone a onde, scelta dell’armamento iniziale e del potenziamento da raccogliere al momento giusto. Va detto che questo non è un grado di sfida approcciabile da chiunque, e il sistema di checkpoint renderà spesso necessario il riavvio totale della partita, poiché a volte risulterà banalmente più semplice tornare a quella sezione armati di tutto punto piuttosto che ricominciare da un checkpoint che vede la navetta sprovvista di qualsivoglia potenziamento e alla mercé dei Bydo, incredibilmente agguerriti in R-Typer.
Non solo R9
Come avrete intuito dalla copertina del titolo, la mitica R9A Arrowhead, disponibile sin da subito, verrà affiancata da tante altre navi, e per la precisione altre 53 al momento, portando il totale dei caccia pilotabili alla sorprendente somma di 54 velivoli. Ognuno di essi sarà acquistabile (e osservabile anche in fpv) nel Museo R, previa raccolta delle tre risorse necessarie ottenibili tramite il completamento degli stage di gioco. Tra i più importanti esponenti del museo è doveroso citare la Leo, la Albatross, la Cerberus… Insomma, praticamente ogni navetta protagonista dei precedenti titoli sarà presente, un sogno per gli appassionati che potranno tornare a pilotare i velivoli più iconici della saga.
Le navi risultano profondamente diverse tra loro, con tipi di force differenti, armi secondarie e bit selezionabili, cannoni a onde di vario tipo provvisti di più o meno cicli di carica e chi più ne ha più ne metta. Inoltre ogni navetta sarà provvista di una breve descrizione che la posizionerà all’interno dell’universo narrativo (in realtà abbastanza esteso negli spinoff della saga), o che fornirà semplici curiosità. Non vi nascondo che la voglia di scoprire cosa si nasconde sotto il prossimo unlock è davvero tanta, e il Museo R risulta a tutti gli effetti un ottimo incentivo per quanto concerne la rigiocabilità del titolo. È possibile inoltre personalizzare le proprie navette, cambiandone il colore della fusoliera e del cupolino, e applicando una miriade di decalcomanie (anch’esse acquistabili) sul velivolo, grazie a un editor spartano ma efficace.
Insomma, Final 2 offre davvero tanti contenuti, soprattutto considerando il genere di appartenenza, e farà felice qualsiasi fan di vecchia data, dando al tempo stesso una motivazione per giocare e rigiocare i vari stage, qualora la ricerca dell’highscore non basti più.
Conclusione
R-Type Final 2 è uno strano titolo da valutare, è come intraprendere un viaggio nel passato del medium. La veste grafica, non tecnicamente eccezionale a esser sinceri, comunica al nostro cervello che no, questo non è un cabinato e no, non ci troviamo in quella sala giochi di quel pomeriggio d’estate. Eppure il gameplay è quello, tale e quale a 34 anni fa, e funziona dannatamente bene. I fan della saga ameranno senza alcun dubbio Final 2, con tutte le sue autocitazioni e, al netto di un paio di stage sottotono e di una versione Switch non proprio al top, non si può che lodare Granzella per il lavoro svolto. D’altronde reputo abbastanza coraggiosa la scelta di sviluppare uno shmup nel 2021 e con un gameplay che neanche ci prova a innovare il genere, perché è già perfetto così com’è. Uniamo questo a un buon level design e una miriade di sbloccabili e il risultato è un titolo dal sapore rétro che non teme di mostrarsi per ciò che è, una grande celebrazione di uno degli sparatutto a scorrimento più famosi di tutti i tempi. Se non temete un buon grado di sfida e avete voglia di tornare a blastare alieni, R-Type Final 2 è il titolo che stavate aspettando!
Se ritenete che in un rompicapo il gameplay debba sempre essere l’elemento portante dell’opera, Relicta è proprio quello che state cercando. Il titolo vi terrà compagnia per tantissime ore con meccaniche semplici ma che danno vita a ingegnosi puzzle, a patto che abbiate la pazienza di muovervi vaste aree.
7.5
Nel lontano 1993 una coppia di fratelli, Robyn e Rand Miller, creano Myst, titolo che dall’ alto delle sue oltre 10 milioni di copie, rimarrà per nove anni il titolo PC più venduto di sempre. Un videogioco che ha grossomodo segnato la nascita dei puzzle game in prima persona. Nel 2007 è poi arrivato Portal, che ha portato nuovamente alla ribalta questo genere videoludico, trasformandolo in quello che è oggi.
Da quel momento in poi abbiamo assistito a tante opere più o meno ispirate al modello già tracciato dal capolavoro di Valve, tra cui figurano esponenti di spicco quali The Witness o The Talos Principle, ed oggi, seppur il genere non goda più della popolarità dei bei tempi andati, tanti studi, principalmente indie, tentano di seguire le orme lasciate da quei grandi capolavori del passato.
E così giungiamo al titolo che quest’oggi porremo sotto esame, ovvero Relicta, rompicapo sviluppato dallo studio indipendente spagnolo Mighty Polygon e distribuito da Koch Media, che tenta di riproporre le formule già citate, ovvero tante sfide che metteranno alla prova la nostra logica (e spesso pazienza) ponendo però il focus non solo sul gameplay, ma anche sulla narrativa che farà da contorno alle ore passate a dannarci su questa o quella stanza da risolvere.
Il fascino del mistero
Anno 2120, la Terra è stata dilaniata da più e più guerre, la caduta di innumerevoli stati ha fatto nascere nuovi grandi poli di potere perennemente in conflitto tra loro, l’umanità è finalmente riuscita a conquistare lo spazio fondando colonie nei vari pianeti del Sistema Solare, seppur i viaggi verso altri sistemi siano ancora un sogno lontano. Questo è il futuro, a tratti distopico, in cui si svolgeranno le vicende narrate in Relicta.
Noi vestiremo i panni di Angelica Patel, esperta in fisica e membro di una squadra di ricercatori inviati sulla Luna, e più precisamente di stanza alla base Chandra, teatro della nostra avventura. Sarà suo il compito di testare un paio di guanti, dalla tecnologia avanzatissima, in grado di manipolare magnetismo e gravità di determinati oggetti.
Fin qui sembrerebbe una “classica” spedizione scientifica, ma c’è di più. La base Chandra nasconde un segreto, un misterioso cristallo violaceo di origine sconosciuta (e presumibilmente aliena) chiamato “Relicta”, che sarà di fatto il punto di origine e fulcro della storia di Mighty Polygon.
Insomma, gli ingredienti per un’ottima trama ci sono tutti: un background delle vicende interessante e ben scritto, un’ambientazione suggestiva, un manufatto alieno ed una protagonista tutto sommato piacevole. Cosa può andare storto?
La trama di Relicta è un elemento riuscito a metà. Nelle prime ore tutto funziona alla grande, dai dialoghi tra personaggi (rigorosamente via radio, di fatto non incontreremo mai nessuno per l’intera durata del titolo) al senso di mistero, la voglia di scoprire cos’è effettivamente il Relicta, la sensazione di inquietudine e minaccia già presente dalla primissima sequenza di gioco.
Però arrivati a circa metà gioco, la vicenda prende una piega abbastanza banale e tutto il fascino descritto, la sensazione di minaccia, il mistero, semplicemente svaniscono. Nonostante tutto, la vicenda rimane quantomeno godibile, seppur non raggiunga mai l’atmosfera creata durante le prime ore di gioco.
Per quanto concerne la componente narrativa, essa sembra essere totalmente distaccata dalle sezioni di gameplay vero e proprio, creando così una strana dissonanza tra ciò che accade durante la vicenda e ciò che invece si andrà a fare per la stragrande maggioranza del tempo, ovvero risolvere puzzle rooms. Se in Portal risolvo enigmi poiché tutto quel che sto facendo è essenzialmente un enorme test di laboratorio, in Relicta non vi è traccia di una vera e propria ragione per cui Angelica Patel debba risolvere gli enigmi posti sul suo percorso, soprattutto visti alcuni risvolti di trama.
Questo, in un titolo che tenta di porre in primo piano l’aspetto narrativo dell’opera, risulta una grave mancanza che inevitabilmente porterà il giocatore più riflessivo a chiedersi: “perché sto perdendo tempo a spostare cubi se dovrei fare quest’altra cosa?”.
Una Luna diversa
Se pensate che, essendo il tutto ambientato in una base lunare, ciò che vi aspetta sono bianche lande desolate ed un vuoto siderale a fare da sfondo vi sbagliate di grosso. La luna è stata parzialmente terraformata, e la base Chandra presenta diverse cupole al cui interno si potranno trovare biomi decisamente più terrestri e meno fantascientifici. Così il nostro viaggio ci porterà tra foreste dal clima mite, aridi canyon, ghiacciai e giungle tropicali, tutti ambienti ottimamente realizzati e dal colpo d’ occhio notevole. Gli spostamenti tra i vari biomi avverranno invece attraverso la vera e propria base lunare, un insieme di tunnel e sale dal design futuristico ed asettico, dove sarà possibile reperire vari oggetti collezionabili che arricchiranno l’universo narrativo del titolo, dandoci accesso ad email, veri e propri manifesti di propaganda, risultati delle ricerche della Dottoressa Patel e dei suoi colleghi e tanto altro.
Per quanto le ambientazioni esterne siano piacevoli, ovvero quelle in cui di fatto si passerà la maggior parte del tempo di gioco, la vera e propria base lunare è poco curata ed anonima. Inoltre, la scelta di porre gli oggetti collezionabili proprio all’interno di queste sezioni d’ intermezzo non aiuta perché costringono il giocatore a noiose ricerche tra corridoi e stanze tutte uguali e dimenticabili.
Per quanto riguarda la qualità del porting su Nintendo Switch, siamo di fronte ad un buon lavoro. Performance stabili, con qualche incertezza nei livelli più avanzati, soprattutto nel bioma della giungla, ma nulla che possa compromettare la godibilità del titolo. Ovviamente la resa grafica, a differenza delle versioni PC, PlayStation 4 o Xbox One, deve sottostare a qualche compromesso, ma il risultato è più che soddisfacente.
Rosso, blu, rosso, blu…
Il punto forte di Relicta è anche l’aspetto più importante di qualsiasi puzzle game che si rispetti, ovvero il gameplay. Il gioco adotta la tipica struttura a “percorso” così come già visto in Portal, offrendoci una serie di stanze stracolme di enigmi, per poi inframmezzarle ad una breve fase esplorativa e narrativa, fino ai titoli di coda.
L’intero titolo si basa proprio sulla possibilità di manipolare i poli magnetici e le proprietà gravitazionali di vari oggetti, tra cui i più importanti sono senza ombra di dubbio i cubi, che saranno utilizzati nelle maniere più disparate, da semplici pesi da poggiare per attivare una piastra a pressione sino a trasformarsi in piattaforme su cui spostarsi. Tutto questo è reso possibile da tre azioni principali, ovvero conferire polarità positiva(rosso), negativa(blu) e annullare la gravità del cubo. Sarà quindi possibile far attrarre due cubi impostando polarità opposte tra loro, o respingerli impostando la medesima su entrambi.
Quello che sembrerebbe a prima vista un sistema di gioco semplice e poco complesso apre invece ad un’enorme rosa di possibilità grazie a un level design dei vari puzzle eccellente, che durante tutta la durata della partita (di circa 15 ore) rimane sempre ad altissimi livelli, proponendo pian piano nuovi elementi che andranno ad arricchire il gameplay, come piattaforme mobili, interruttori temporizzati, droni che al loro passaggio disattiveranno tutte le polarità da noi impostate, robot che trasporteranno i cubi qualora questi ultimi siano posti sul loro percorso prestabilito e stanze ulteriormente più ricche che preferiamo non svelarvi.
Altro grande pregio del titolo è l’offerta di un alto livello di sfida (soprattutto nelle fasi finali del gioco), ma paradossalmente alla portata di tutti, anche di chi non è avvezzo al genere. Infatti, l’intero sistema di gioco, per quanto man mano si arricchisca di vari elementi, è pur sempre governato da quelle tre semplici azioni, risultando intuitivo anche durante le sfide più complesse.
Relicta offre un comparto gameplay di prim’ordine, pur con qualche piccola sbavatura come la scelta di “nascondere” elementi quali cubi o interruttori in posizioni in cui difficilmente il giocatore andrebbe a controllare, inserendo così una difficoltà artificiale di cui l’ottimo level design non necessita. Fortunatamente questi episodi di moderna caccia al pixel si possono contare sulle dita di una mano, anche perché sarebbero risultati eccessivamente tediosi considerando la presenza di alcune sezioni davvero troppo lunghe ed estese, con il risultato che spesso la vera sfida sarà capire da dove cominciare, piuttosto che risolvere l’ enigma che si ha davanti. Infine, è un peccato constatare che il bioma in cui si sta risolvendo il puzzle non abbia alcuna meccanica caratteristica o qualsivoglia impatto sul gameplay vero e proprio, relegando l’ ambientazione ad una mera cartolina.
In conclusione
Relicta è un titolo che viaggia tra alti e bassi, o per restare in tema, picchi positivi e negativi. Una trama interessante, quantomeno sulla carta, che sfortunatamente perde di mordente con il passare delle ore, risultando al tempo stesso totalmente slegata dalle fasi di gameplay vero e proprio. Dall’ altra parte abbiamo un ottimo comparto gameplay, con qualche minuscola sbavatura, che risulta stimolante e godibile da grandi appassionati del genere e non solo. Va inoltre segnalata la longevità sorprendente, che si attesta sulle 15-20 ore circa, valore non da poco per un titolo del genere e le ambientazioni, davvero ben realizzate, pur con qualche caduta di stile, come la base lunare stessa, e soprattutto totalmente ininfluenti ai fini del gameplay.
L’acquisto è quindi decisamente consigliato, considerando anche il prezzo budget a cui viene venduto, a patto che non diate troppa importanza al lato narrativo del gioco.
L’attesa è finita, poco più di sei mesi ci separano da quell’ormai lontano 17 settembre, giorno in cui Monster Hunter: Rise fu rivelato durante un Nintendo Direct Mini: Partner Showcase. Sei mesi in cui fantasticare su cosa Capcom aveva in serbo per noi cacciatori, quali sarebbero stati i cambiamenti apportati, quanti nuovi mostri avremmo affrontato, insomma, sei mesi in cui le aspettative sono salite alle stelle, quantomeno per il sottoscritto, fan della saga di lunga data. E vi preannuncio già da subito che sì, le aspettative sono state rispettate ed in alcuni casi ampiamente superate!
Innovazione e tradizione
È inevitabile il confronto con gli due ultimi capitoli della saga, Monster Hunter Generations Ultimate e Monster Hunter World: Iceborne, soprattutto considerando la diversa filosofia alle loro basi. Il primo rappresenta la tradizione di Monster Hunter sin dalla nascita dell’IP, ed è di fatto un grande omaggio ai titoli che si sono susseguiti per 13 anni (2004-2017). Il secondo rappresenta invece l’innovazione per la saga, e traccia una linea netta tra quel che c’è stato e quel che ci sarà.
Bene, dove si colloca quindi Rise? Fa parte dei MH “vecchia scuola” o abbraccia la “nuova” filosofia di World? Questa è una domanda che più e più volte mi sono posto durante quel lungo periodo d’ attesa, ed ho finalmente la risposta.
Rise riesce nel difficile compito di selezionare le migliori caratteristiche di entrambi i filoni e le combina sapientemente, creando un titolo moderno, che non ha paura di sperimentare, ma che al tempo stesso rispetta le vecchie tradizioni. Ma andiamo con ordine, ogni caccia che si rispetti è composta da tre elementi fondamentali, ovvero ambiente di caccia, cacciatore e preda.
Il piacere del viaggio
Iniziamo il primo di questi elementi ovvero le mappe e l’esplorazione. Rise abbandona la vecchia struttura ad aree separate da caricamenti tipica della serie, accostandosi alla concezione di grande mappa portata da World. Al tempo stesso però le mappe di Rise non risultano mai troppo grandi nè troppo piccole, e sono caratterizzate da varie arene naturali, ampi spazi spesso pianeggianti in cui combattere il mostro di turno, tipica impostazione da MH classico, laddove in World le mappe erano sì bellissime e dettagliatissime, ma a volte visivamente confusionarie e non proprio di facile navigazione.
Con questo non voglio far intendere che le mappe di Rise siano spoglie o semplici, anzi, tutt’ altro. Tra un’ “arena” e l’altra potremo perderci in cunicoli, caverne, laghi sotterranei, antiche città dimenticate e chi più ne ha più ne metta. Insomma, il risultato raggiunto da Capcom è restituire una lotta più “intima” dove il focus non è più sull’ambiente iperdettagliato del nuovo mondo, quanto sul cacciatore, il mostro ed il loro scontro in una grande arena, proprio come nei vecchi MH. Contemporaneamente non mancano le fasi esplorative, con ambientazioni dalla spiccatissima verticalità che va a nozze con quella che reputo la più importante aggiunta regalataci da Capcom, gli Insetti Filo, piccole creature in grado di “trainare” il nostro cacciatore e fungere letteralmente da fionde che lo proietteranno in ogni direzione possibile.
Tutto ciò, unito alla possibilità del cacciatore di scalare (quasi) qualsiasi parete presente, eleva all’ennesima potenza la già ottima esplorazione degli ambienti presenti in World, permettendo movimenti aerei rapidi e precisi, e non di rado mi sono ritrovato a voler raggiungere quel punto in lontananza senza mai toccare il terreno, giusto per il gusto di farlo, per farvi capire quanto è divertente ed appagante l’utilizzo dei nostri piccoli amici insetti.
Per quanto riguarda la navigazione terrestre Capcom ci viene incontro con l’aggiunta di un nuovo tipo di compagno, il Canyne, che và ad affiancarsi agli iconici Felyne. Il nuovissimo amico a quattro zampe, oltre ad essere utile in combattimento, dà la possibilità di essere cavalcato e và a velocizzare la navigazione terrestre degli ambienti. La cavalcatura risulta essere una diretta evoluzione dei Cacciaprede introdotti in Iceborne
Spero vivamente tali features verranno mantenute anche nei prossimi capitoli della saga, perchè è il classico esempio di quelle funzionalità che fanno pensare “mai più senza”, e questo la dice lunga sulla qualità del lavoro svolto da Capcom con Rise.
Il giusto equilibrio
Veniamo ora al secondo elemento, ovvero il cacciatore. Il combat system nudo e crudo è chiaramente costruito sopra l’ottimo lavoro già svolto per World ed Iceborne; i movesets delle 14 tipologie d’arma disponibili sono stati leggermente rimaneggiati, occasionalmente stravolti come nel caso del corno da caccia, ma è indubbio che la base di partenza sia stata proprio World, pur con alcuni rimandi a Generations Ultimate.
Difatti, con l’aggiunta delle tecniche Fildiseta, Rise propone una chiara reinterpretazione delle Arti di Caccia presenti in GU, dei “colpi speciali” dagli effetti spesso devastanti, a volte visivamente “esagerati”, quasi a far sembrare la lotta tra cacciatore e mostro uno scontro degno di uno Shonen giapponese. Altra nuova aggiunta sono le Tecniche Scambio, che ci permettono di personalizzare il moveset di ciascuna arma, proprio come gli Stili di Caccia presenti in GU, seppur in maniera(fortunatamente)più contenuta e coesa rispetto al predecessore.
Tutto ciò è impreziosito dall’aggiunta della Cavalcatura Wyvern che và a sostituire il vecchio sistema di mount, permettendoci di comandare, seppur per breve tempo, ciascun mostro presente nel titolo. E’ inoltre presente una nuova modalità di gioco, la Furia, il cui scopo è difendere una fortezza da varie ondate di mostri, utilizzando vari strumenti d’ assedio quali balliste, cannoni, ammazzadraghi e tanto altro. Forse è proprio tale modalità l’elemento che mi lascia qualche dubbio, ma ammetto di doverla testare meglio, soprattutto in multiplayer, dove credo dia il meglio di sé.
Insomma, anche sul versante gameplay Monster Hunter Rise riesce a creare un perfetto mix tra vecchio e nuovo, proponendo un combat system fluidissimo contornato da aggiunte che rimandano al passato della saga, e di fatto creando quello che è il miglior gameplay della saga, a mio modesto parere.
Il Giappone secondo Capcom
Abbiano già trattato il tema della funzionalità degli ambienti di gioco, ma vorrei soffermarmi sulla magnifica direzione artistica di questo titolo. Il tema di riferimento dell’opera è ovviamente il Giappone, dalla mitologia alle ambientazioni più rurali.
I nuovi mostri sono ispirati a diversi Yokai (Spettro/Demone della mitologia giapponese) , e risultano tutti, nessuno escluso, delle aggiunte cariche di personalità e splendidamente ideate ed animate. Ovviamente alle nuove bestie vengono affiancate anche vecchie conoscenze, sapientemente scelte tra le più iconiche che la saga possa offrire, e soprattutto tutte ottimamente contestualizzate nell’ambiente di gioco; basti pensare al Mizutsune o lo Zinogre, due tra i mostri più “giapponesi” dell’intera saga. Insomma, il bestiario non è il più esteso di sempre, impresa quasi impossibile se si considera che esiste Generations Ultimate, ma risulta probabilmente quello con la qualità media più alta ad oggi, quantomeno per un capitolo “di lancio”.
Anche le mappe sono tutte splendidamente disegnate, e non di rado ci offriranno panorami mozzafiato, soprattutto grazie a giochi di luci ed ombre offerti dal ciclo giorno/notte presente nel titolo. Anche qui, rispettando le origini della saga, fanno il loro ritorno due splendide reinterpretazioni di ambienti già apparsi in precedenti capitoli, ovvero le Lande Sabbiose e la Foresta Inondata. Sia i mostri che gli ambienti vengono poi introdotti da una splendida sequenza in pieno stile teatro Kabuki, scelta perfetta vista la direzione generale di Monster Hunter Rise.
L’hub di gioco, il villaggio di Kamura, tra fiori di ciliegio, sala da tè, rospi meccanici e tanto altro, riporterà alla mente dei vecchi fan, come il sottoscritto, il magico villaggio di Yukumo, HUB presente in Monster Hunter: Portable 3rd. Insomma, anche qui la modernità fa da padrone, con viaggi rapidi per raggiungere le varie strutture utili in perfetto stile World, riuscendo comunque a restituire quel feeling più tradizionalista.
La colonna sonora è evocativa ed adrenalica e si sposa alla perfezione con mostri ed ambienti. Tracce come il tema del flagship di questo capitolo, Magnamalo, raggiungono vette di qualità altissime, e non vi nascondo che reputo questa colonna sonore tra le migliori mai prodotte per la serie.
In conclusione
Ho esplorato i vari aspetti che legano Monster Hunter Rise ai suoi predecessori, ma mi preme specificare un concetto. Siete dei veterani della saga di Monster Hunter? Avete intrapreso la carriera del cacciatore “solo” dal capitolo World/Iceborne? Non avete mai cacciato in vita vostra? Bene, in tutti e tre i casi Monster Hunter: Rise non vi deluderà.
Capcom è riuscita nell’ardua impresa di coniugare passato e presente della saga, mantenendo comunque un ottimo livello di accessibilità ai neofiti ed un buon grado di sfida ai veterani, offrendo un gameplay fluido, divertente ed appagante, con tante nuove aggiunte una migliore dell’altra. Quindi non posso far altro che consigliare a chiunque l’acquisto del titolo, che personalmente considero già il mio Monster Hunter preferito. Ora torno a cacciare, spero di ritrovarvi tutti a Kamura!
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