Iniziato al mondo del gaming nel lontano 94, quando il NES ed un pad in mano costituivano il sogno di ogni bambino. Cresciuto tra le terre di Hyrule e le profondità di Zebes, negli anni ho sviluppato una particolare affinità per JRPG e WRPG, pur non disdegnando alcun genere videoludico. Modellista Gunpla in erba nel tempo libero.
Per me, cresciuto nella gloriosa epoca dei cabinati, un titolo sopra chiunque altro rappresentava la compianta saletta giochi. Ovviamente parlo di Metal Slug, la leggendaria saga run and gunSNK nata nel lontanissimo 1996. Una saga tutta azione, esplosioni ed enormi boss di fine livello via via sempre più strani. E da una direzione artistica ricercatissima ed inconfondibile.
Capirete quindi la mia perplessità durante il reveal trailer di Metal Slug Tactics, un titolo che pare essere l’antitesi di ciò a cui la serie ci abitua da ormai 27 anni. Perplessità seguita poi da curiosità per il lavoro del team francese Leikir Studio, che ci prometteva di trasporre l’esperienza di Metal Slug in salsa strategica, per di più a turni.
Adesso però alcuni dubbi possono essere sciolti. Finalmente potuto sviscerare la demo di Metal Slug Tactics e voglio darvi le mie prime impressioni, da appassionato di strategici, roguelite e soprattutto della saga di Metal Slug.
Il ritorno dei Falchi
Anche stavolta i Falchi Pellegrini, gruppo di specialisti capitanati dal leggendario Marco Rossi, dovranno sventare i piani del malvagio Generale Morden, capo dei Ribelli ed antagonista storico della saga. Per farlo dovranno conquistare vari settori a suon di mitragliatrici, granate, fucili laser e quant’altro. La trama è tutta qua, ed onestamente a me va benissimo così, da Metal Slug mi aspetto esplosioni, tank sproporzionati e qualche sano scambio di battute, cose tutte presenti già dalla demo, che permetterà di cimentarsi nel deserto di Argum, primo dei settori da conquistare.
Partiamo da un presupposto, Metal Slug Tactics è un tattico con elemeti roguelite in tutto e per tutto. Nessuna strana commistione di generi, di meccaniche action o semplificazioni varie. Qui si ragiona tanto, si soppesa ogni singola mossa disponibile, si gestiscono le scarse risorse nel miglior modo possibile e si tenta di sopravvivere. Ed il tutto funziona dannatamente bene, ma andiamo con ordine.
Tattica e pallottole
Ad un primo sguardo Tactics propone il più classico dei combattimenti a turni. Ogni personaggio ha a disposizione un’azione di movimento ed una di attacco, come in un qualsiasi Fire Emblem. Ora però aggiungiamo delle variabili. Partiamo dagli attacchi sincronizzati, tecnica fondamentale per portare a casa la vittoria: per innescarli basterà bersagliare un nemico presente sulla linea di tiro di un altro nostro compagno. Così facendo entrambe le unità attaccheranno in sincronia. Già questo aspetto aggiunge enorme profondità al posizionamento del nostro team, poiché difficilmente riusciremo a far fuori i nemici in tempo utile non sfruttando la sincronia.
Interessante anche la meccanica dell’adrenalina e della schivata. La prima è la risorsa utilizzabile per attivare le abilità, mentre la seconda diminuisce i danni causati dai nemici. Entrambe vengono generate spostando i propri personaggi, e più lontano li si muove più adrenalina e schivata vengono generate. Questo scoraggia lo stile di gioco estremamente difensivo, mentre viene premiato il buon posizionamento delle truppe ed il saggio utilizzo della mappa di turno nella sua interezza.
Aggiungiamoci poi che tutti i personaggi sono equipaggiati con due tipologie di armi, standard e speciali. Le armi standard hanno munizioni illimitate, e comprendono pistole, bombe, pugnali e quant’altro. Le armi speciali sono molto più potenti delle standard, con danno più elevato, maggiore area d’effetto, status alterati, ma con numero di utilizzi limitato. Inoltre ogni personaggio ha un suo set di abilità passive ed attive.
Bene, unite entrambe le cose ed avrete un roster decisamente variegato. Marco ad esempio è il buffer della situazione, mentre Eri si specializza nel danno ad area e nella mobilità. Tarma è il “tank” del gruppo, possedendo abilità che ne aumentano la resistenza, mentre Fio è la classica unità da supporto che manipola la posizione dei nemici.
Già da questa breve introduzione capirete che il titolo è in realtà molto complesso. Metal Slug Tactics permette molteplici build per ogni personaggio e sinergie da creare tra i 3 membri del nostro team. E di variabili ce ne sarebbero tante altre, come le mod arma che modificano radicalmente l’utilizzo dell’equipaggiamento, o gli asset strategici. Insomma, di carne al fuoco ne troverete tantissima, anche considerando che parliamo di una semplice demo.
Anche Roguelite
Il titolo presenta anche vari elementi cari agli amanti dei roguelite, come il sottoscritto. Partiamo dal dire che le mappe vengono create in maniera procedurale, “incollando” vari tileset tra loro. Così come posizionamento e tipologia dei nemici, la presenza o meno di veicoli e tanto altro è lasciato al caso.
La demo offre varie tipologie di missione, che vanno dal classico “elimina tutti i nemici” a varianti survival in cui resistere per un certo numero di turni ad un’orda di avversari, o ancora proteggere un npc o raggiungere l’area di estrazione designata. Inoltre ogni missione presenta un obiettivo secondario, che se soddisfatto da’ accesso a ricompense fondamentali per il successo della campagna.
Come in ogni roguelite che si rispetti anche qui potremo decidere noi quale missione affrontare prima, pianificando il percorso che vogliamo seguire per raggiungere il boss di fine zona.
Immancabile poi la pletora di sbloccabili, che vanno da nuove abilità attive/passive di ogni singolo membro a loadout di partenza differenti, mod arma e tanto altro. Come già detto, il content sembra ricchissimo già dalla demo.
Ci ha convinti?
In breve, si, decisamente. Mi aspettavo uno strategico caciarone, vista anche la saga di appartenenza. Invece mi sono trovato davanti ad una sorta di Into the Breach in salsa Metal Slug. Il bilanciamento va un attimo rivisto, la demo presenta qualche bug ed a volte si fa fatica a capire dove i nemici potranno colpire, ma siamo di fronte ad un’ottima base, e non vedo l’ora di mettere le mani sul titolo completo. Promosso!
Ed eccoci a parlare ancora una volta di Diablo 4, una delle release più importanti dell’anno. La scorsa settimana, grazie all’Accesso Anticipato, abbiamo potuto avere un assaggio del mondo di Sanctuary e di tutti gli orrori che ci offrirà. Oggi invece sono qui per darvi le mie impressioni sulle ulteriori due classi disponibili durante l’Open Beta, ovvero il Negromante ed il Druido.
Chiarisco subito che questa vuole essere una semplice panoramica delle due classi sopra citate, del feeling che restituiscono giocando. Ritengo superfluo analizzarne minuziosamente i vari aspetti basandomi su una open beta con level cap al 25. Se invece volete un’opinione generale sul gioco qui trovate il nostro articolo sull’accesso anticipato. Ora, fatta questa doverosa premessa, vediamo un po’ come se la cavano i due nuovi eroi di Sanctuarium.
L’erede di Rathma
Il Negromante è una delle classi più iconiche dell’ intera saga. Un incantatore che ha votato la sua intera vita allo studio delle arti più oscure, quali la magia delle ossa, delle ombre o, banalmente, la negromanzia.
Se adorate lo stile di gioco da “summoner” allora questa è la classe che fa per voi. Evocazione di scheletri combattenti, scheletri maghi e golem, questo è quello che da sempre contraddistingue il Negromante, e la sua iterazione di Diablo 4 non fa eccezione. Il poter contare su di un piccolo esercito di ossa ambulanti ha sempre il suo fascino, ma il necro non si limita a questo.
Questa volta possiamo contare su vari incantesimi del sangue, dell’ombra e delle ossa. Ovviamente non mancano i grandi classici che contraddistinguono questa classe da sempre, principalmente la Lancia d’ossa, la mitica Esplosione Cadaverica e le immancabili maledizioni, come la Vergine di Ferro. Peccato notare la mancanza delle spell basate sul veleno, che sembra esser diventato affare del Druido. Ma andiamo a quel che realmente ci interessa. Che feeling restituisce questa nuova(vecchia)classe su Diablo 4?
Il Negromante è, a mani basse, la star di questa open beta. O quantomeno lo è per me. Se dovessi descriverlo in una sola parola direi devastante. Un mix letale di minions, magie AoE, capacità difensive, debuff e danni altissimi, questo è il necro di Diablo 4, quantomeno durante i primi 25 livelli. Lanciarsi nel bel mezzo dei nemici per scaricare una nova di sangue e vedere lo schermo che fa “boom”? Lo potrete fare. Stare in disparte indebolendo gli avversari, a suon di maledizioni, mentre il vostro esercito ambulante fa piazza pulita? Potete fare anche questo.
Entrambi gli stili funzionano, già dai primissimi livelli. Ovviamente nulla vieta di esporsi in prima linea, assieme ai propri minions – cosa fatta dal sottoscritto – ed adottare uno stile ibrido caster/summoner, che ritengo anche essere il più divertente.
Una aggiunta degna di nota è la nuova meccanica del Libro dei Morti. Da questa schermata è possibile “personalizzare” le proprie summons, scegliendo il tipo di scheletro – ad esempio scheletri combattenti, difensori o mietitori – ed uno tra due effetti passivi. Interessante anche la possibilità di scegliere di non utilizzare affatto l’evocazione, garantendo ulteriori bonus passivi al Negromante.
Come premesso non starò qui ad elencarvi ogni singola abilità della classe, anche perché qualsiasi cosa nel kit del Negromante è efficace. Già da ora si intravedono diverse possibilità di building, e sembrano tutte valide. Di fatto non ho riscontrato alcun difetto nel necro, ed anzi, a tratti mi è sembrato che fosse anche troppo forte, visti gli innumerevoli strumenti offensivi e difensivi in suo possesso.
Insomma, se avete giocato la medesima classe nei precedenti capitoli vi sentirete subito a casa. E massacrerete orde di demoni senza alcuna difficoltà.
La furia della Natura
Ed ecco il secondo ritorno, un ritorno che si attendeva da ben 22 anni. Torna il Druido, ibrido incantatore/mutaforma introdotto nella saga nel lontano 2001, con l’ espansione di Diablo 2, Lord of Destruction. Che dire del Druido di Diablo 4? Se avete giocato il secondo capitolo della saga saprete già cosa aspettarvi.
Il Druido si può giocare principalmente in due modi, ovvero da guerriero con abilità di mutaforma, o da incantatore grazie ad i suoi incantesimi elementali di roccia, fulmine ed aria. Durante l’open beta io ho potuto provare a fondo solo il primo archetipo, vuoi per i pochi livelli disponibili, vuoi perché di aspetti leggendari che potenziassero l’altro banalmente non ne ho trovati.
Faccio subito una premessa, il Druido può funzionare, con i dovuti accorgimenti. Ma se con il Negromante la sensazione di poter sbaragliare tutto e tutti è lampante, con il Druido bisognerà invece sudare parecchio per portare la pelle a casa.
L’idea alla base del Druido è di utilizzare le skill primarie – i cosiddetti generatori – per accumulare Spirito (la risorsa principale della classe)per poi spenderli in pochi ma potenti attacchi. Un’idea semplice, che però a conti fatti non funziona, perché banalmente mancano i danni ed i generatori avrebbero bisogno di un buff.
Anche la gestione dello Spirito è macchinosa, poiché non si rigenera mai passivamente. Questo porta ad uno stile di gioco lento, dove dopo 3-4 cast delle skill da danno siamo costretti ad autoattaccare per rigenerarlo. Il Negromante e l’Incantatore ad esempio fanno più danni e gestire la loro risorsa primaria è più semplice ed intuitivo.
Carina l’idea di dare al Druido gli attacchi velenosi, ma anche lì, il veleno fa poco male, e soprattutto non viene accumulato nel bersaglio, rendendolo di fatto un debole DoT. L’unico modo di renderlo efficace è tramite svariati aspetti leggendari fondamentalmente.
Danni bassini, AoE decente ma davvero poca mobilità, questo è quello che ho notato durante la mia run. Aggiungiamoci che le capacità difensive del Druido al momento non sono poi così entusiasmanti, ed abbiamo una classe seriamente in difficoltà in molti scontri, soprattutto quelli con i boss. Menzione d’onore per l’odiosissima Den’s Mother, che mi ha davvero fatto penare.
Per correttezza aggiungo anche che la meccanica unica della classe, gli Aspetti animali, non era disponibile durante l’open beta, inspiegabilmente aggiungerei. Di fatto il Druido era l’unica classe a non avere accesso a questa peculiarità, che sarebbe il corrispettivo dell’ Arsenale del Barbaro o il Libro dei Morti del Negromante.
Quello che ho detto fino ad ora non implica però che la classe sia da buttare. Io stesso ho sperimentato due build soddisfacenti. Una basata esclusivamente sul veleno e sul poterlo spargere tra i nemici grazie alla skill Rabies ed all’evocazione di due piccoli lupi mannari, anch’essi velenosi. Un’altra che andava ad utilizzare la meccanica dell’ Overpower assieme alla skill Pulverize. Entrambe però richiedevano la combo di aspetti leggendari, cosa di cui non necessitavo con Negromante o Incantatore ad esempio.
Per concludere vi dirò la verità, paradossalmente la classe che più mi ha divertito è proprio il Druido, pur con tutte le sue mancanze. Affinare la build, decidere se puntare sul veleno o sul danno puro e riuscire finalmente a concludere la beta è stato soddisfacente. Il Negromante, di contro, l’ho trovato fin troppo forte, qualsiasi specializzazione seguissi.
Di recente mi sono nuovamente appassionato ad Overwatch 2, arena shooter di cui ho amato il primo capitolo. Oggi però non voglio parlarvi del gioco in sé – è un gran bel titolo, giocatelo – ma del modello di monetizzazione adottato dalla Blizzard: il sempre più diffuso Battle Pass.
Cos’è il Battle Pass? Sostanzialmente Blizzard – o qualsiasi altra casa di sviluppo – propone un sistema di livellamento in cui ad ogni level up è associata una ricompensa: una skin; uno sticker; una emote; valuta di gioco o quant’altro. In genere si sale di livello completando sfide giornaliere o settimanali create dagli sviluppatori, o semplicemente giocando e rigiocando.
Secondo le software house, questo sistema esiste per “venire incontro” ai giocatori, ed evitare di ricorrere a brutture come le odiatissime – ma compratissime – lootbox. Fin qui verrebbe da pensare: «Cavolo, gioco e mi ricompensano pure, meglio di così!». Ed in effetti sembrerebbe di essere tornati ai bei vecchi tempi, quando per sbloccare qualcosa dovevi giocare, e non aprire il portafoglio.
Purtroppo la realtà è ben diversa: la mano al portafoglio bisogna metterla in ogni caso, perché qualsiasi battlepass esistente è suddiviso in due tier, uno gratuito, l’altro a pagamento. E indovinate dove stanno le ricompense decisamente migliori? Proprio così, nel Battle Pass pagamento, per la sorpresa di nessuno. Volete la nuovissima skin cyberdemon di Genji? Bene, preparatevi a sborsare una decina di euro per il Premium Battlepass, perché quella skin la trovate solo lì. Non avete voglia di pagare? Allora dovrete accontentarvi della skin di Winston con un berretto militare.
È giusto? Personalmente credo di sì: gli sviluppatori dovranno pur trarre profitto dal loro prodotto – Overwatch 2 è free to play – ed è inutile pensare che tutto ci sia dovuto, in quanto giocatori e clienti. La domanda che mi faccio però è un’altra: il Battlepass mi rispetta in quanto cliente e videogiocatore? Che rispetto ha del mio tempo?
Ciò di cui non ho ancora fatto menzione è proprio la natura “stagionale” dei tantissimi battlepass in circolazione. Perché sì, voi potete pure comprare il Premium Pass, ma sappiate che avrete un tempo limitato per sbloccare quel per cui avete pagato. Ed è così che il gaming “tradizionale” vira pericolosamente verso il gaming mobile, prendendone alcuni tra gli aspetti peggiori.
Ora quindi mi ritrovo “costretto” a giocare ad Overwatch 2, o qualsiasi altro titolo, perché devo completare le sfide quotidiane, le settimanali, poi quelle stagionali. E poi devo giocare comunque un variabile numero di partite al giorno, altrimenti al livello 60 del pass proprio non ci arrivo. E speriamo che non capiti alcun imprevisto nella vita reale: se per un motivo qualsiasi non posso videogiocare per qualche giorno, come recupero il tempo perso?
È così che il reparto marketing di questa o quella azienda riesce a creare il cosiddetto engagement: una sorta di “impegno” del cliente verso il prodotto consumato. O in parole povere, io che devo giocare ad Overwatch 2 ogni giorno, pena il perdere le esclusive ricompense del Battle Pass. Ricompense di cui probabilmente me ne fregherebbe poco, in altri contesti.
Ma dato che al reparto di marketing hanno studiato bene la lezione, sanno benissimo che ricompense “a tempo limitato”, “esclusive” sono l’esca perfetta per qualsiasi essere umano. Figuriamoci allora per noi videogiocatori, completisti come siamo. Perdere la skin del pass perché sono troppo pigro per completare il percorso stagionale o non ho abbastanza tempo? Impensabile. E poi quella skin tornerà disponibile in futuro? E Quando? Se non torna come faccio?
Ed ecco a voi che facciamo la conoscenza di un’altra simpaticissima dinamica di mercato: la famigerata fomo; Fear of missing out, letteralmente paura di perdersi qualcosa, ancora peggio se artificialmente esclusivo. Allora quale sarebbe la soluzione al problema? Semplice, le sfide me le farò piacere. Ed il tempo lo troverò in qualche modo. Una non soluzione, in poche parole.
E se per caso a me piacessero due o tre titoli con un sistema di progressione simile?Questo ovviamente non è contemplato nella logica del Battle Pass. Engagement a tutti i costi, a discapito del tempo del videogiocatore. Dedicare il proprio tempo solo ed unicamente a quel titolo, perché di tempo ne serve tanto.
Ora vi racconto la mia di esperienza, quella con il primo Overwatch. Gioco pagato 60€, preordinato addirittura. Mai acquistato una singola lootbox, ho solo aperto quelle che venivano assegnate ad ogni level up. Insomma, in soldoni dopo circa 200 ore di gioco mi ritrovavo con una miriade di skin leggendarie, emote, scene per la play of the game, icone, emote e tutto il resto. E mi preme precisare che di skin leggendarie ne avevo davvero tante, almeno una ventina, più altre decine e decine tra epiche e rare. E potevo acquistare le skin che più mi piacevano grazie alla valuta di gioco.
Veniamo ad Overwatch 2. Non ho speso un euro, non ancora almeno. Con circa una trentina di ore all’attivo, mi ritrovo con una skin di Winston col berretto militare, un’icona ed un paio di sticker. Basta. Se volessi le skin del Premium Battle Pass, devo pagare, e mi ci dovrei anche dedicare anima e corpo al gioco.
Paradossalmente ora per avere le vecchie skin leggendarie dovrei pagare altri soldi, perché le lootbox gratuite non esistono più. O meglio, è possibile accumulare 60 gettoni a settimana, ma una skin leggendaria costa anche 2000 gettoni. Quindi un grind lungo 9 mesi, per un’unica skin.
A questo punto la domanda sorge spontanea: ma il Battle Pass mi conviene davvero? Ma le lootbox facevano davvero così schifo? La risposta è sì, anche le lootbox sono delle brutture di marketing, ma quantomeno mi davano la possibilità di giocare quanto e quando volevo, e soprattutto non sentivo la necessità di cacciare fuori un solo euro in più o di loggare perché dovevo completare le missioni giornaliere. E oltretutto ricevevo molte, molte più rewards rispetto al sistema Battle Pass.
Questa è la natura tirannica del Battle Pass: un sistema di monetizzazione apparentemente innocuo; un sistema che in realtà punta a tenerci incollati a quel titolo, tra reward, missioni giornaliere e quant’altro; un sistema che non rispetta il mio tempo.
Oggi voglio parlarvi di un genere al quale sono particolarmente legato, ovvero quello degli MMORPG. Enormi mondi da esplorare ed epiche avventure da vivere, in compagnia di altri migliaia di giocatori come noi. Un sogno che si realizzava davanti ai miei occhi da ragazzino mentre inserivo il CD di Ragnarok Online, allegato ad un numero di Giochi per il Mio Computer.
Questo accadeva nel lontano 2004, proprio durante la release europea del titolo in questione. Ricordo ancora lo stupore provato quando vidi Prontera – la capitale e cuore del regno – per la prima volta. Centinaia e centinaia di altri personaggi si muovevano freneticamente, conversavano, allestivano bancarelle in cui vendere i ricavati del farming quotidiano. Ma non erano i soliti NPC visti e rivisti. Quelle erano persone, proprio come me!
Quella che oggi potrebbe sembrare una banalità era letteralmente magia per me. Una magia destinata a sparire, ed è proprio di questo che oggi voglio parlare.
Il vecchio cede il passo al nuovo
Facciamo subito una premessa, nel genere degli MMORPG esistono vari titoli che hanno segnato la storia, basti pensare a pietre miliari come Ultima Online o Everquest. Tra questi titoli ne spicca uno però: sto parlando di World of Warcraft. Letteralmente l’MMORPG dei record, che dopo la bellezza di 18 anni conta ancora milioni e milioni di utenti giocanti e paganti, impresa riuscita solo e soltanto a quello che è il re di questo genere.
Bene, fatta questa premessa, cosa significa tutto ciò? Semplicemente WoW fu lo spartiacque tra ciò che era “nuovo” e ciò che era “vecchio”. Il difficilissimo mercato dei MMORPG – caratterizzato da costi di sviluppo/gestione enormi e chance di successo abbastanza risicate – era finalmente stato decodificato. Blizzard aveva tracciato la strada per le quasi due decadi a venire. Strada percorsa da un po’ tutti gli studi di sviluppo, forse stanchi di sperimentare questa o quella stramba formula di gioco, chissà.
Una strada monumentale, sia chiaro, e chi ha giocato WoW ai tempi della release sa benissimo di cosa parlo. Esplorare Azeroth per la prima volta fu qualcosa di incredibile, davvero.
Parco a tema
WoW fa parte di quel grande filone di MMORPG definiti “theme park”, letteralmente “parchi a tema”. Gli sviluppatori creano per voi un bel parco a tema (mondo di gioco) da farvi visitare, con tante attrazioni (quest, dungeons, raids e tutto il resto). Insomma, vi danno uno scopo, come affrontare l’ultimo raid rilasciato ad esempio. Voi fate il vostro bel giro lungo un percorso prestabilito, ma quel parco rimarrà sempre tale, statico, nel concreto nessun giocatore apporterà mai alcuna modifica ad esso.
Sandbox
In contrapposizione esistono i cosiddetti “sandbox”. Titoli dove lo sviluppatore crea sempre un bel mondo di gioco, lo riempie sì di attrazioni, ma lascia ai giocatori la libertà di interpretarlo, di “viverlo”. Ognuno è libero di creare la propria avventura. Esistono anche delle vie di mezzo tra le due tipologie, ma per comodità differenziamoli così.
Come abbiamo detto WoW fa parte dei theme park, ed indovinate quale tipologia di MMORPG spopola dal 2004 ad oggi, e quale invece è quasi del tutto scomparsa? Basti pensare che i maggiori MMORPG attivi sul mercato sono tutti theme park. Mentre i sandbox sono ormai relegati a produzioni di nicchia, indirizzate al solo zoccolo duro del genere.
Ecco, uno degli effetti dei theme park è proprio quello di spingervi su delle rotaie prestabilite, e questo ci porta a quello che secondo me è l’enorme difetto degli MMORPG moderni.
Viaggio nella memoria
Torniamo per un attimo alla mia avventura su Ragnarok Online. Ricordo ancora benissimo il viaggio verso Morroc, la città del deserto, dove il mio personaggio Novizio avrebbe finalmente classato a Ladro. E ricordo i mille giri per capire dove andare, le tante morti lungo la strada. Ma soprattutto ricordo i tanti giocatori, compagni avventurieri, a cui chiedevo indicazioni circa la mia meta, ma anche consigli su cosa equipaggiare, come ripartire i miei punti abilità.
Ed ancora ricordo il mercato di Prontera, pieno di centinaia di bancarelle gestite da noi giocatori. La caccia al miglior prezzo per quel determinato oggetto, o magari la possibilità di speculare un po’ comprando a basso prezzo per poi rivendere il tutto più in là.
La ricerca del fabbro di fiducia – anche i potenziamenti alle armi erano unicamente gestiti dai giocatori – che sapevo mi avrebbe fatto un buon prezzo se sarei rimasto suo cliente. Il mondo di Ragnarok, un titolo abbastanza basilare, era vivo, pieno di gente con cui socializzare, con cui magari si era costretti ad interagire. Tutto questo lo rendeva un MMORPG.
Quello era il mio viaggio, formato sì dal mondo che esploravo, i tesori che trovavo ed i nemici che sconfiggevo. Ma anche dai legami creati con altri giocatori, a volte per pura voglia di socializzare, molte altre per semplice necessità. Semplicemente il titolo mi invogliava a condividere la mia avventura con il resto del mondo (virtuale).
Massive Single Player Online Role Playing Game, ovvero quello ad oggi penso sia il termine corretto per definire gli MMORPG. Perché di massive multiplayer ci vedo davvero poco.
Prima ho parlato di Ragnarok, ora vi parlo di Final Fantasy XIV, titolo che ritengo un fantastico rpg singleplayer con elementi multiplayer. Un MSORPG insomma. Ivalice è un mondo fantastico, e non mi sarei aspettato altro dal team di Yoshida. Una grandissima varietà di classi, gameplay solido e divertente, tantissimi contenuti e soprattutto una trama degna dei migliori jrpg in circolazione.
Eppure durante quei mesi passati ad Ivalice sentivo che mancava qualcosa. Quel mondo era pieno zeppo di giocatori, eppure nessuno ha mai provato a socializzare con me durante le mie decine (direi centinaia) di ore a vagare per quelle terre. Certo, c’erano le gilde, ma non un reale motivo per entrare a farvi parte, almeno non per chi come me era ancora alle prese con la mastodontica main quest.
C’erano i dungeon, attività di gruppo per eccellenza negli mmorpg theme park. Ma nessun bisogno di formare un party, o di recarsi all’entrata del dungeon. Pensava a tutto il duty finder, nome del classico LFG (Looking For a Group).E così mi ritrovavo insieme ad altre tre persone, pronto ad affrontare un dungeon. Tre persone che sarebbero potuti benissimo essere tre npc comandati dal gioco, dato che nessuno proferiva mai parola.
Poi c’era un bellissimo sistema di crafting, con tante professioni di raccolta/creazione, dove ognuna richiedeva i materiali raccolti dall’altra. Ho pensato “magari è così che il gioco ti porta ad interagire con altre persone”. Ed invece no, perché il personaggio può benissimo “skillare” tutte le professioni in autonomia. E se proprio non si ha voglia basta recarsi al mercato.
Non il mercato di Prontera, quello pieno di bancarelle, con il fabbro di fiducia, dove puoi perdere ore e spulciarle tutte in cerca dell’affare di una vita. Dove contrattare il prezzo con altri giocatori come noi, e strappare un piccolo sconto. Davanti a me si presenta una schermata di ricerca, inserisco quel che voglio et voilà, ecco le risorse da acquistare ed ecco i prezzi. Semplice, efficiente… Freddo, aggiungerei io.
Insomma, tecnicamente FFXIV è un MMORPG, ne mantiene l’ossatura. Ma giocandolo la sensazione che ho avuto è “ok, è un bel jrpg, ma la parte massive dove sarebbe?”. Non proprio il massimo per un MMORPG. E ci tengo a precisare che considero FFXIV come uno dei più social in circolazione.
Cosa ci aspetta?
Qualcuno potrebbe dire che sto indossando i famigerati occhiali della nostalgia, e magari avrebbe pure ragione. Tendiamo sempre a ricordare con affetto i momenti della nostra giovinezza, ed è giusto che sia così. Tuttavia non credo sia questo il caso, o quantomeno penso che la nostalgia non sia il solo fattore da tenere in considerazione.
Io credo che negli anni il mercato videoludico sia cambiato. Che noi videogiocatori siamo profondamente cambiati. Cose come il raggiungere fisicamente l’entrata di un dungeon un tempo erano viste sì come perdite di tempo, ma anche come opportunità di trovare altri giocatori con cui formare party, e perché no, stringere un’amicizia virtuale. Oggi la stessa azione è vista come una scocciatura, perché non è efficiente. Ed allora arriva viaggio rapido, è veloce ed ottimizza i tempi.
Spulciare i tantissimi negozietti di Prontera richiede del tempo, non è efficiente. Ed ecco a voi un bel mercato centralizzato, con tanto di barra di ricerca, così da non spendere un secondo di troppo. Comodo, sicuramente.
Creare un party per reclutare qualcuno con cui expare o affrontare il prossimo dungeon? O magari scambiarci semplicemente quattro chiacchiere, che non fa mai male. Troppo tedioso, ma per fortuna arriva in nostro aiuto il LFG, così possiamo mantenere le interazioni sociali a zero!
Insomma, avete sicuramente intuito quale sia il mio punto di vista. Ed invece voi che ne pensate? Romantici da tastiera o power players da ottimizzazione selvaggia?
Monster Hunter Rise: Sunbreak rappresenta quel che dovrebbe essere l’espansione tipo. Migliora ogni singolo aspetto del gioco base, ampliandolo enormemente al tempo stesso. Il roster è uno dei migliori dell’intera saga, e tutti i nuovi mostri sono più che convincenti. Le due nuove mappe sono un piacere da esplorare, ma da chi ha creato le mappe del gioco base non ci si poteva aspettare che questo. Le novità di gameplay sono tante e succose, dai compagni alle nuove tecniche scambio/fildiseta, fino ad arrivare ai rotoli di scambio abilità. Ovviamente viene introdotto il Grado Maestro, che dona nuova vita a tutti i mostri del gioco base. E questa volta Capcom non ha dimenticato di inserire un endgame loop per fortuna. Resta un po’ di amaro in bocca per il trattamento riservato alla Furia. Insomma, se siete appassionati della saga, ma più in generale dei buoni giochi, correte subito a comprarne una copia!
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Rieccoci qui a parlare di una delle serie a me più care, il mitico hunting game made by Capcom. L’ultima volta mi lancia in un paragone tra World e Rise, le nuove iterazioni della saga che ad uno sguardo più attento mostrano differenze strutturali mica da poco. Da una parte World che enfatizza ai massimi livelli l’esplorazione di mappe intricatissime – si, Foresta Antica, parlo di te – esaltando quella sensazione di star effettivamente cacciando qualcosa. Dall’altra Rise, con la sua mobilità estrema ed il focus quasi assoluto su gameplay e combattimento.
Metto le mani avanti, io preferisco la formula proposta da Rise. Pur reputando entrambi i titoli dei pesi massimi, e non potrei più fare a meno dei miei Insetti Filo. Detto questo, ho sempre reputato Rise un lavoro svolto a metà. Un ottimo gioco azzoppato dal mancato supporto Capcom nel periodo di post release. Certo, abbiamo avuto il finale della storia – seriamente? – in un update. E poi il trio delle meraviglie, e poi Valstrax, e poi altro ancora. Tutta roba che onestamente mi sarei aspettato già presente il 26 marzo 2021, giorno della release.
Insomma, un Rise 3.0 che somigliava più ad un Rise 1.1, con il ricordo lontano di eventi collab come il Behemoth o il Leshen. O un endgame loop, cosa praticamente assente in Rise, con i mostri Apex relegati a meri riempitivi. Quindi con un po’ di titubanza attendevo Sunbreak, la “massiva espansione” che avrebbe portato il Master Rank anche nelle terre di Kamura. Ci ho giocato tante, forse troppe ore, ma era necessario affinché ve ne potessi parlare con cognizione di causa. Quindi bando alle ciance e vediamo cosa ha da offrirci Capcom stavolta.
Una nuova minaccia, un nuovo regno
Kamura è finalmente salva, il regno del terrore di Narwa ed Ibushi è terminato e con esso le Furie. Ma una presenza sinistra si fa viva in una terra lontana, oltre il mare, e toccherà proprio al primo cacciatore di Kamura risolvere l’ennesima crisi. È così che ci ritroveremo nell’avamposto di ricerca di Elgado, di proprietà della Corona. Il regno è ancora una volta minacciato dal drago anziano di quelle terre, il Malzeno, o banalmente il flagship monster di Sunbreak.
Questo l’incipit della trama di Sunbreak, che come da tradizione non è che un pretesto per cacciare roba sempre più grossa e cattiva. Devo però ammettere che Capcom ha ascoltato le lamentele della fanbase circa le criticità della trama di Rise, che a conti fatti risultava un po’ buttata lì. Io ad esempio continuo a chiedermi che c’entra il Magnamalo con Ibushi e Narwa, ma credo che non riceverò mai risposta.
In Sunbreak ci troviamo alle prese con solita storiella tipica dei Monster Hunter, con una minaccia – il Malzeno – che nasconde un’altra minaccia ancora più grande, ma nascosta. Per quanto semplice ho apprezzato decisamente di più la storia di Sunbreak, forse anche grazie ad un cast di personaggi più curato ed alla maggiore presenza di cutscene e dialoghi.
Castelli, giungle e porti
Soffermiamoci un attimo sulle nuove aree esplorabili, partendo proprio dal nuovo hub di gioco. Elgado è un piccolo avamposto costiero dallo stile medievaleggiante, e sostanzialmente offre tutto ciò di cui un cacciatore necessita. Nulla di più, nulla di meno, letteralmente. Se avete giocato un qualsiasi titolo della saga saprete già cosa aspettarvi insomma.
Andiamo invece a quel che interessa davvero a noi cacciatori, ovvero il terreno di caccia. Sunbreak aggiunge due nuove mappe o per meglio dire, un lieto ritorno ed una new entry. Ritroviamo la Giungla, mappa introdotta nel lontanissimo Monster Hunter 2, e la Cittadella, location esclusiva di Sunbreak.
La prima è un tuffo nel passato, e come già visto con la Foresta Inondata anche qui ci ritroviamo davanti ad un lavoro di rifacimento perfetto. Tutte le aree caratteristiche della vecchia mappa sono presenti, come ad esempio il tempio sulla spiaggia o la cascata sotterranea. Al tempo stesso Capcom ha svolto un gran lavoro di level design, creando una mappa a prima vista compatta, ma piena di cunicoli, scorciatoie e luoghi segreti da scoprire.
Ma ancora più bella è sicuramente la Cittadella, una strana unione tra più biomi. Laghi velenosi, pozze di resina, picchi ghiacciati ed un borgo in rovina con tanto di castello, il tutto in una sola mappa. E non mancano porte da far saltare in aria con esplosivi, cunicoli che passano sotto il castello e tanto altro ancora.
In parole povere se avete giocato Rise sapete già cosa aspettarvi, mappe dalla verticalità spiccatissima, curate tanto sul lato visivo quanto su quello più giocoso, divertenti da esplorare e piene zeppe di piccoli segreti, come l’immancabile fauna endemica “rara” o le note del diario.
A volte ritornano…
Ovviamente le mappe aggiunte sono cosa assai gradita, ma a cosa servirebbero senza nuove prede da cacciare? Fortunatamente Sunbreak non delude sotto questo punto di vista, ed anzi, tra new entries ed attesissimi ritorni riesce ad offrire quel che reputo tra i migliori roster di sempre, non contando quello di Generations Ultimate per ovvie ragioni.
Non starò qui ad elencarvi ogni nuovo mostro presente nell’espansione, ma sappiate che tutti i nuovi mostri, nessuno escluso, mi hanno convinto, ed in alcuni casi anche sorpreso. Cosa che invece non avevo provato in Rise, o quantomeno non fino in fondo, reputando alcune new entries poco sfruttate.
Poi troviamo illustri ritorni, come l’amatissimo – od odiatissimo, a voi la scelta – Gore Magala, il flagship di Monster Hunter 4, papà Shagaru Magala, o ancora il Seregios, il richiestissimo Astalos e tanti altri. Non posso poi non citare due tra i miei mostri preferiti di sempre, il duo dei crostacei giganti, il Damyio e lo Shogun. Ben vengano aggiunte come queste, mostri un po’ più esotici della classica viverna o belva. E spero questi due piccoli amici siano il preludio a qualcosa di ancor più interessante, come il Nerscylla o il mitico duo Seltas/Seltas Queen, chissà.
E tutti gli altri mostri invece? Ricordiamo che Sunbreak aggiunge finalmente il Grado Maestro. Questo si traduce in una rivisitazione di quasi tutti i mostri già presenti in Rise, che per l’occasione hanno qualche nuovo asso nella manica da utilizzare contro noi cacciatori. Ognuno dei “vecchi” mostri infatti ha acquisito nuove mosse, spesso davvero pericolose. Ad esempio ora il Khezu dispone di un attacco AoE elettrico da distanza che potrebbe mettere in seria difficoltà il cacciatore meno attento. Addirittura il Ludroth Reale, simpaticamente rinominato “sacco da boxe” dal sottoscritto, potrà darci filo a torcere in Sunbreak. A questo aggiungiamo che il GM ci pone davanti a mostri più resistenti, più veloci e soprattutto fanno un gran male, e la sfida è servita.
Insomma, uno dei grandi difetti di Rise, la difficoltà tarata verso il basso, qui in Sunbreak è un lontano ricordo. Badate bene, siamo ben lontani da sfide ai limiti del masochismo come il Molten Tigrex di MH4U, ma “cartare” sarà una costante in Sunbreak, ed era anche ora direi io.
Dracula, Frankenstein ed il Lupo Mannaro?
Mentirei se dicessi che tutti i mostri nascono uguali, poiché le vere stelle di Sunbreak sono tre, ovvero i Tre Signori – così nominati dai cavalieri del regno – ovvero potenti mostri che dominano i territori confinanti Elgado. Tre bestie che si ispirano all’immaginario del periodo buio, ed in particolare al folklore europeo.
Partiamo con Garangolm, una belva zannuta molto simile ad un gigantesco gorilla. Dall’aspetto decisamente imponente, questo gigante è in grado di utilizzare dei guantoni “fatti in casa” per picchiarci nelle maniere più disparate. Devo essere sincero, forse questo è il nuovo mostro che più mi ha stupito, ovviamente in positivo. Mai mi sarei aspettato di vedere un bestione simile che parte letteralmente a razzo sfruttando il suo pugno ricoperto di roccia lavica. Un mostro che ricorda Frankenstein già nell’aspetto fisico, tranquillo finché non viene provocato, e che si ricopre di altro materiale per lottare.
Il secondo signore è invece il Lunagaron, di cui faremo la conoscenza proprio durante la prima quest di Sunbreak, ma che verrà affrontato solo molto più avanti. Inutile utilizzare mezzi termini, Lunagaron è a tutti gli effetti un lupo mannaro, la sua presenza è indissolubilmente legata alla luna piena. Durante la caccia assisteremo prima ad un Lunagaron molto simile ad un “comune” lupo, che corre sulle 4 zampe. Ad un certo punto però il nostro amico si arrabbierà, ricomprendosi di una corazza ghiacciata – alla Zamtrios maniera – ed ergendosi sulle zampe posteriori, trasformandosi a tutti gli effetti in un vero e proprio lupo mannaro. Anche qui poco da dire, bellissimo scontro, bellissimo mostro, a dir poco perfetto.
Ed infine arriviamo al flagship monster di Sunbreak, sua Altezza Malzeno. Sono sicuro che durante il reveal trailer, alla vista di Malzeno, chiunque di noi abbia pensato “Ohhhhh, un drago vampiro!”. In effetti avevamo proprio ragione, per la sopresa di letteralmente nessuno. Malzeno rappresenta in maniera perfetta quello che sarebbe stato Dracula se fosse nato sottoforma di drago. Membrane scarlatte terribilmente simili a merletti d’abito d’altri tempi, la classica “posa” in cui il Malzeno si cela dietro le sue ali come fossero un mantello. O l’inaspettato teletrasporto di cui il drago è padrone, che fa tanto Dracula dei vari Castlevania. Che dire di lui? Probabilmente uno dei migliori flagship di sempre, maestoso, regale, veloce, cattivo e pieno di sorprese. Non voglio rovinarvi il brivido della prima caccia, quindi mi limiterò solo a questo.
In realtà vi sarebbe anche un quarto signore, di cui però non voglio proprio parlarvi, sarete voi a scoprirlo sul finale di Sunbreak. Ovviamente anche quest’ultimo ispirato ad un altra figura che andava tanto in voga durante il periodo buio.
Cacciare in compagnia
Una delle aggiunte più gradite è sicuramente quella dei Compagni, ovvero la possibilità di andare a caccia con dei cavalieri del Regno stanziati ad Elgado, tra cui Fiorayne, la “comprimaria” di Sunbreak. Devo essere sincero, quando Capcom annunciò la possibilità di cacciare assieme a quelli che sono dei semplici bot, non è che me ne fregasse poi tanto. Neanche ricordavo della presenza di tale feature fin quando non l’ho sbloccata in game.
Adesso invece mi vien da dire “mai più senza”. I compagni hanno delle cacce a loro dedicate, e dopo un certo numero di richieste completate diventeranno disponibili per un numero via via crescente di missioni. Quel che stupisce è l’efficienza dei Compagni. Quando ho visto Fiorayne allontanarsi dal nostro bersaglio per poi tornare in sella ad un altro mostro e darmi man forte sono rimasto piacevolmente stupito. Ma potrei anche dirvi che i compagni riescono ad utilizzare meccaniche di gameplay più avanzate, come ad esempio lo sfruttamento dei guardpoints della Lama Caricata.
Ognuno di essi ha a disposizione 5 armi diverse, e tutti hanno un proprio stile di caccia. C’è chi è più votato al supporto, magari utilizzando polveri curative per tirarvi fuori dai guai, e chi invece punta tutto sull’offensiva, o magari sulla difensiva distraendo l’attenzione del mostro. Il punto è che i compagni funzionano dannatamente bene, ed offrono l’opportunità di braccare un mostro in gruppo anche offline. Anzi, a volte risultano essere anche più bravi di noi o di eventuali compagni beccati nelle lobby di gioco.
Altra aggiunta gradita è l’interazione che hanno tra di loro. Possiamo portare fino a due compagni assieme a noi, ed in base alle combinazioni i due prescelti potrebbero scambiare battute uniche, cosa che fa sempre piacere ed aiuta nell’immedesimazione. Ovviamente, oltre ai cavalieri del regno, anche le nostre vecchie conoscenze a Kamura vorranno darci una mano. Se avete sempre desiderato cacciare assieme ad Hinoa e Minoto, o magari all’Anziano Fugen, Sunbreak ve ne dà l’opportunità.
L’unica perplessità è che a conti fatti non potremo usufruire dei compagni in una missione qualsiasi del gioco, ma solo in quelle a loro dedicate, scelta che risulta alquanto strana. Tolto questo piccolo neo però spero che questa feature venga mantenuta anche nei futuri capitoli della saga.
Rotoli ed arsenali
Arriviamo infine al nostro arsenale, la cosa più cara a qualsiasi cacciatore. Ogni singola arma presente in Rise potrà essere portata fino al grado massimo, la rarità 10. Quindi non tutto quel che avete farmato su Rise è da buttare, e per fortuna direi. Ogni singola armatura del gioco ha poi una variante X, che richiede i materiali di grado GM ovviamente. Come da tradizione le armature X, oltre ad essere immensamente più potenti, differiscono da quelle basso/alto grado anche dal punto di vista estetico, raddoppiando a conti fatti le armature da far indossare al nostro cacciatore. Questo per la felicità di chi ricerca lo stile sopra ogni cosa.
Ovviamente anche la meccanica regina di Rise, le abilità scambio/fildiseta, gode di un grande aggiornamento. Ogni arma riceve così due nuove mosse, una abilità scambio ed una tecnica fil di seta. Due potrebbero sembrare pochine, e guardando solo il numerino vi darei pure ragione, ma anche qui Capcom ha fatto un lavorone. Ad esempio la Spadascia riceve finalmente la counter move di cui aveva dannatamente bisogno, cambiando di fatto lo stile di gioco dell’arma, che ora può essere mandata in stato amplificato quasi immediatamente. Lo Spadone può finalmente offrire un po’ di varietà grazie alla combo fendente super, che predilige attacchi veloci a discapito del classico fendente caricato. Questi sono solo due esempi, ma tutte le armi hanno ricevuto modifiche sostanziali.
Capcom ha inoltre introdotto i rotoli di scambio, o in parole povere la possibilità di creare due set di abilità scambio/tecniche fil di seta liberamente selezionabili durante la caccia. In soldoni questo permette di avere una maggiore varietà di approcci allo scontro. Ad esempio io, giocando spesso con Spada e Scudo, utilizzo un primo set che mira a stordire il malcapitato mostro tramite l’utilizzo di colpi di scudo, per poi passare al secondo set che invece predilige combo di spada più lunghe ed un maggiore danno elementale. Un’aggiunta più che gradita che aumenta a dismisura la versatilità dei nostri moveset.
Pad alla mano Sunbreak risulta un’esperienza fresca, il feeling delle armi è sempre più convincente e soprattutto offre tanta varietà anche utilizzando un’unica arma. Non ho voluto parlare dell’endgame loop per scelta, ma sappiate che c’è ed offre un bel grado di sfida.
Pensieri finali
Come avrete intuito sì, Sunbreak mi ha stupito in positivo. Mi aspettavo una buona espansione, ed invece Capcom ha sfornato un’ottima espansione, ricchissima di contenuti già dalla release. Il roster dei mostri, tra new entries e vecchie conoscenze, è davvero eccezionale. Esplorare le nuove mappe e scoprirne tutti i segreti è stato un vero piacere. Il gameplay è più fluido che mai ed offre più varietà. I compagni sono un’ottima aggiunta che spero sarà mantenuta anche nei prossimi capitoli della saga.
C’è un po’ di perplessità circa il trattamento riservato alla modalità Furia, forse mi sarei aspettato una reinterpretazione di tale modalità piuttosto che il suo totale abbandono. Detto questo comunque Capcom è partita con il piede giusto stavolta, e la roadmap degli update sta lì a dimostrarlo. Quindi, se non lo avete ancora fatto, imbracciate le armi e correte a difendere il Regno da quel che si annida ad Elgado!
Sono sicuro che molti di voi si ricorderanno l’annuncio di Diablo: Immortal durante il Blizzcon 2018, con un Waytt Cheng visibilmente a disagio lì sul palco . Un annuncio a cui seguirono infinite polemiche, perché trasformare l’ hack n’ slash per eccellenza in un “giochetto” mobile è di sicuro una scelta non proprio facile. Una saga nata su PC, prosperata su PC che poi finisce sul Playstore/Appstore? Pura eresia, quantomeno per i fan della saga, folta schiera di cui il sottoscritto pensa di far parte.
Sono trascorsi 4 anni da quell’annuncio, e mentirei se dicessi di non aver avuto voglia di giocarlo questo Immortal, pur nella sua natura da titolo F2P mobile. E finalmente il momento è giunto, l’ho provato, ho assaporato alcune tra le avventure che Sanctuarium voleva offrirmi e sono qui a darvi le mie impressioni.
Un pò prequel, un pò sequel
Sono trascorsi 5 anni da quando l’Arcangelo Tyrael ha distrutto la Pietra del Mondo, ormai corrotta da Baal, il “fratellone” di Diablo. Come avrete intuito Immortal vuole essere il ponte che collega le vicende di Diablo 2 e Diablo 3, e tantissime saranno le comparse di entrambi i capitoli in questo Immortal. Fa sempre piacere ritrovare vecchie conoscenze, come Akara o Zoltun Kulle, oltre all’immancabile Deckard Cain.
Diciamo che la trama potrebbe riassumersi così: i frammenti della Pietra corrotta sono finiti un po’ ovunque su Sanctuarium, ed indovinate chi sarà il fortunato avventuriero a doverli recuperare dai cadaveri di demoni ed orrori assortiti? Esattamente, proprio il vostro! La narrativa è “leggera”, seppur piacevole. Insomma, si parla poco, si picchia tanto e si ha un motivo per farlo. Ed onestamente va bene così, è proprio quel che mi aspetto da Diablo.
Non mancano comunque approfondimenti sulle vecchie conoscenze, o una nuova aggiunta che ho apprezzato davvero tanto, ossia un bestiario, cosa che mi è sempre mancata nei capitoli precedenti.
Niente più Baal Runs
I più nostalgici – o chi ha recentemente giocato Diablo 2: Resurrected – ricorderanno le infinite Baal Runs per livellare il proprio personaggio, o per beccare la maledettissima armatura di Tal Rasha. Un giocatore crea una partita, altri giocatori entrano e si va a picchiare il malcapitato di turno, sia esso Baal, Diablo o il povero Mephisto, la mia vittima preferita. Tante piccole istanze indipendenti tra loro.
In Diablo Immortal invece ci ritroviamo di fronte a quel che è a tutti gli effetti un titolo dalla forte impronta MMO. Ovviamente bisogna sempre tener conto che parliamo di un titolo destinato al mercato mobile, quindi se parlo di MMO non immaginatevi qualcosa tipo Final Fantasy XIV o, per rimanere in casa, World of Warcraft. Immortal ha la “tipica” struttura MMO Mobile come se ne trovano altre mille.
Il mondo di gioco è composto da varie macrozone, quindi non siamo davanti ad un openworld. “Nulla di nuovo per il franchise” direte voi, è sempre stato così Diablo. La particolarità di Immortal è che queste mappe non sono più delle piccole istanze, ma tutti giocatori si collegano ad un determinato server. Il risultato? Vagherete per Sanctuarium in compagnia di una miriade di altri avventurieri, sia nelle città che nelle mappe vere e proprie. Qui Immortal fa respirare aria da MMO, seppur continuino ad esistere istanze come dungeon, varchi e quant’altro.
Immortal, o Diablo 3 Lite
Se dovessi descrivere Immortal in 3 parole non avrei dubbi: Diablo 3 Lite. Immortal prende enorme ispirazione dal precendete capitolo della saga, dalla direzione artistica ad elementi di gameplay veri e propri. Mettiamola così, se avete giocato Diablo 3 in qualsiasi sua declinazione vi troverete a vostro agio su Immortal, poiché rappresenta una reinterpretazione del terzo capitolo in salsa Mobile. Basti pensare che tutte le classi selezionabili sono riprese da Diablo 3, con buona pace di chi avrebbe voluto giocare un bel Druido o un’Assassina.
I comandi sono quelli da classico titolo “action” mobile, con joystick virtuale in basso a sinistra e le 4 abilità+attacco primario in basso a destra, sono sicuro che un po’ tutti conosciate questa configurazione di controlli. Le varie classi hanno a disposizione 12 abilità diverse, di cui ne andranno scelte 4 che andranno a comporre la nostra “build”. Moltissime abilità sono simili a quel che troviamo in Diablo 3, ma qui non è possibile modificare questa o l’altra spell mediante l’utilizzo di rune, mentre la “varietà” d’approccio è relegata agli equipaggiamenti leggendari.
Questi ultimi vanno a modificare anche radicalmente le abilità del nostro personaggio, vi faccio un esempio. “Scudo Abbagliante” è una abilità AoE che acceca i nemici. Equipaggiando un determinato leggendario si può trasformare in un raggio di luce che trapassa i nemici e fa danno, modificando totalmente quel che era la skill in origine. Ho particolarmente apprezzato questo approccio all’equipaggiamento, che spesso apportava semplicemente aumenti parametrici aggiungendo poco e nulla alla build scelta, se non bigger numbers.
Anche il pacing risulta leggermente diverso rispetto ad un Diablo classico. Mappe, dungeons e quant’altro risultano più corti. L’intenzione degli sviluppatori è chiaramente quella di rendere il gioco fruibile anche in brevi sessioni. Quel che conta è che il feeling che Immortal restituisce è quello di Diablo in tutto e per tutto. Di un Diablo lite, per l’appunto.
Immortal però non è una mera imitazione del “fratello maggiore”. È un prodotto creato con cura, divertente da giocare e che offre ore di sano divertimento, seppur la sua natura F2P con microtransazioni farà di tutto per rattristarvi la giornata, ma su questo torneremo dopo.
Else, platini, essenze, scorie…
Chi tra voi ha giocato un gacha o un qualsiasi F2P saprà già di cosa sto per parlare, ma vale la pena discuterne un attimo. Ricordate Diablo 2, dove l’oro costituiva l’unica risorsa del gioco? Con Diablo 3 siamo passati ai materiali per il crafting, l’oro, i frammenti del sangue. Nulla di complicato, ogni risorsa aveva un chiaro utilizzo ed era facilmente farmabile.
Bene, dimenticate la parola “semplicità” in Diablo Immortal. Dopo qualche ora vi renderete conto che le risorse da utilizzare sono più di una decina, ed ognuna ha il suo utilizzo specifico. Ovviamente anche il metodo di ottenimento è differente per ognuna di esse.
Gli emblemi si utilizzano per conferire bonus ai varchi che completeremo. Le else vanno scambiate dall’apposito venditore per acquisire oggetti rari. Le rune si utilizzano per craftare le gemme leggendarie, le scorie potenziano l’Inferniquiario. Giusto per fare qualche esempio, perché di risorse se ne trovano pure tante altre.
Allo stesso modo il gioco ci sommergerà di attività da completare, come un qualsiasi F2P che si rispetti. Daily quests, venditori che riforniscono lo shop ogni settimana/mese, log in bonuses vari ed eventuali, l’immancabile battlepass e chi più ne ha più ne metta. Insomma, la solita formula F2P che vuole farvi loggare sul gioco quotidianamente, pena il “perdere” tutti questi bonus e rimanere indietro. In parole povere la famosa “Fomo”, fear of missing out, paura di esser tagliati fuori.
Le novità ben accolte
Fortunatamente le novità di Immortal non si limitano al lanciarci addosso 15 tipi differenti di valuta per confonderci le idee. Il titolo propone anche delle modalità che ho particolarmente gradito. Partiamo con le brigate, o banalmente il sistema di clan di Diablo Immortal. Di solito in questo genere di titoli il clan serve davvero a poco, ma in Immortal risulta fondamentale ad un’altra aggiunta, le incursioni. In poche parole una sorta di raid, dove bisogna far gruppo, essere ben equipaggiati e conoscere le meccaniche di ogni fight. Ovviamente le incursioni non sono neanche lontanamente paragonabili a quel che potrebbe trovarsi in World of Warcraft, ma devo ammettere che sono rimasto piacevolmente sorpreso.
L’aspetto che ho maggiormente apprezzato è forse la realizzazione di nemici e boss. Questi ultimi sono davvero tanti e combatterli è sempre piacevole. Varie fasi della fight, meccaniche semplici ma efficaci, un’ottima realizzazione tecnica. Segnalo anche la presenza di “world boss”. Giusto qualche ora fa, durante l’esplorazione, mi sono imbattuto in un sarcofago. Da bravo avventuriero quale sono l’ho aperto. Da lì è uscito fuori un cavaliere corrotto con circa 9.6 milioni di hp, e gli hp medi di un mostro elite che affronto si aggirano sui 50.000. Fate voi le dovute proporzioni. Quello era chiaramente un boss da affrontare in quattro o più giocatori. Magari assieme alla propria brigata.
Nel gioco è presente anche una modalità PvP, ma sarò sincero con voi, non sono ancora riuscito a provarla.
F2P si, ma fino a che punto?
Altra grandissima polemica degli ultimi giorni è la sempreverde critica alla monetizzazione del F2P famoso di turno. Questa volta è proprio Diablo Immortal l’accusato. Ricordiamo sempre che Immortal è un titolo gratuito, ed è più che lecito aspettarsi la presenza di microtransazioni.
Forse lo è meno scoprire che alcune gemme, quelle da 5 stelle di rarità, non sono effettivamente droppabili da chi non spende soldi per acquistare emblemi leggendari. O meglio, tecnicamente chiunque le può ottenere, ma sappiate che le probabilità di trovarne una senza spendere un centesimo è più bassa di fare 6 al superenalotto, giusto per mettere le cose in prospettiva.
Ed anche spendendo tanto, tantissimo, potreste non trovare ciò che stavate cercando. Il magico mondo delle microtransazioni! Immortal è il classico titolo dalla monetizzazione aggressiva, così come praticamente ogni altro titolo Mobile un minimo conosciuto. Il gioco è comunque godibilissimo nella sua interezza, non è necessario possedere 6 gemme da 5 stelle o aver speso stipendi interi per portare il titolo a termine e godersi l’avventura. In realtà le opzioni F2P bastano e avanzano per godere di tutto il contenuto presente in questo momento.
Ovviamente il discorso sul PvP è totalmente differente. Vi potreste divertire anche senza spendere un centesimo? Certo. Lotterete mai per la top 50 del server? Decisamente no, scordatevelo. Immortal è il classico freemium, dove comunque il divario tra chi spende e chi no è relativamente grande. Io sono “abituato” a questo genere di meccaniche, ed a malincuore lo accetto.
In conclusione
Queste sono le mie prime impressioni dopo circa 15 ore di gioco. Immortal mi ha stupito per la cura nella realizzazione, devo ammettere che le mie aspettative erano davvero basse ma Blizzard e Net Ease hanno lavorato sodo e sfornato un ottimo titolo Mobile che richiama chiaramente a Diablo PC. La monetizzazione poteva essere gestita in maniera migliore? Certamente. Ma quella dose di freemium non rovina assolutamente l’esperienza di gioco, se non nel PvP presumo.
Ovviamente questa non vuole essere una recensione poiché mi aspetto che Immortal venga aggiornato periodicamente, e con qualche smussatina ad alcuni angoli potrebbe rivelarsi davvero un ottimo capitolo per la saga di Diablo.
Serious Sam: Tormental è un titolo strano. Tecnicamente è valido, il gameplay funziona, e sulla carta ha quel che serve ad un roguelite. Ritengo che però i videogiochi non vadano valutati sezionandoli in compartimenti stagni. Un titolo è più della somma delle sue parti, o in questo caso banalmente meno di ciò che i singoli elementi valgono. Divertente ma al tempo stesso derivativo, banale e poco ispirato. Non aiuta il fatto che risulti ripetitivo abbastanza in fretta. Visto il prezzo budget a cui è proposto, valutatene l’acquisto se siete appassionati del genere e non avete grosse pretese
6.5
Se venisse fatta la domanda “Davide, cosa ne pensi tu di Serious Sam?” io risponderei prontamente “Guarda mamma, sono un taglialegna!”. Ma lasciamo perdere vecchie citazioni per vecchi videogiocatori – come il sottoscritto – e torniamo ai giorni nostri. La saga di Serious Sam di spinoffs ne conta davvero parecchi, anche se ad esser sincero sono davvero pochi quelli apprezzati dal sottoscritto. Oggi andiamo ad analizzare Serious Sam: Tormental, titolo rimasto nel “limbo” Early Access per un bel pò di tempo. Sviluppato da Gungrounds in collaborazione con Croteam, e distribuito da Devolver Digital, Tormental vuole trasporre la storica saga fps in roguelite, impresa non proprio semplice.
Che storia!
Questa volta Sam Stone, dopo aver utilizzato uno strano artefatto, viene catapultato all’interno della mente del suo storico avversario, Mental. Il lobo frontale funge da base/hub della nostra “operazione”, e pian piano dovremo farci strada nei meandri della coscienza di Mental, così da sconfiggerlo “dall’interno” una volta per tutte. Se tutto ciò vi sembra assurdo non preoccupatevi, avete fatto centro.
Come da tradizione anche qui ci ritroviamo con una trama totalmente accessoria. Chiariamoci, il viaggio mentale di Sam potrebbe anche suonare lontanamente interessante, ma si rivela subito essere un pretesto per far casino, né più né meno. I personaggi non hanno praticamente alcuna caratterizzazione, e stanno lì solo per dispensare il tipico humour di cui Serious Sam si fregia da tempi immemori. Almeno questo aspetto risulta parzialmente riuscito, con battute che strappano più di una risata.
Viaggi mentali
Bene, dopo aver introdotto il delirante background narrativo direi di spostarci subito alla sostanza. Come avevo già accennato Tormental è un roguelite con visuale topdown, ed in questi titoli quel che conta non è una trama da oscar o personaggi di spessore, ma level design, gameplay e rigiocabilità.
Abbiamo davanti quanto di più classico si possa trovare in questo genere; se avete giocato titoli come Enter the Gungeon o Nuclear Throne sapete già cosa aspettarvi. Ogni partita inizia nel lobo frontale, ed a noi toccherà affrontare una sequenza di livelli generati in maniera procedurale. Livelli che idealmente dovrebbero rappresentare la mente, la coscienza o qualcosa del genere.
In realtà ci troviamo davanti ad una sorta di foresta, poi quella che sembra un’area acquatica, una caverna, una zona lavica. I livelli sono quanto di più generico possiate immaginarvi, e non avrei mai pensato di aggirarmi nella mente di un individuo se non fosse stato il gioco stesso a specificarlo. Il tutto è aggravato dalla struttura “a loop” del gioco, che quindi ci vedrà affrontare sempre e solo quei pochissimi stage senza alcuna variazione visiva.
Anche i nemici soffrono della stessa problematica. Pochi, e soprattutto visivamente molto poco ispirati. Un cubo con le corna, un cubo con 8 zampe, un cubo con le ali, un cubo con la coda e via così. Da uno spinoff di Serious Sam, che vanta un bestiario iconico e fuori di testa, ci si aspetterebbe ben altro, ecco. Più di una volta mi sono chiesto “ma sto giocando a Serious Sam quindi?”.
Tecnicamente alcuni “nemici storici” sono presenti ma risultano letteralmente irriconoscibili, con giusto un paio di eccezioni. Un peccato poiché meccanicamente gli avversari funzionano discretamente bene, con pattern di attacco e comportamento diversificati.
La solita pioggia di proiettili
Un aspetto che Gungrounds ha centrato in pieno è sicuramente quello del gameplay, mica poco per un roguelite. Come già detto ci troviamo di fronte ad un topdown shooter (o twin stick shooter, se lo giocate col pad) che sì, non reinventa assolutamente nulla, ma sulla carta funziona. Crivellare i malefici cubetti colorati è divertente, lo shooting è soddisfacente ed i controlli sono precisi, cosa si può voler di più allora?
Meccanicamente tutto è dove dovrebbe essere, ma il risultato è tanto, troppo derivativo. Prendiamo ad esempio l’arsenale a disposizione di Sam (o degli altri 4 personaggi giocabili). Abbiamo un’arma primaria fissa, che può essere potenziata con svariati perk, come proiettili perforanti, rimbalzanti e tanti altri. E poi abbiamo le armi secondarie, o armi “serie”, come mitragliatore, lanciafiamme, lanciarazzi. Insomma, l’artiglieria pesante.
Come avrete notato ci troviamo davanti a i soliti potenziamenti visti e rivisti in qualsiasi roguelite appartenente al genere. Nessun guizzo, nessuna peculiarità, semplicemente perk o armi già declinati in altre centinaia di titoli. Discorso identico per i potenziamenti passivi del personaggio, tecnicamente validi ma tanto banali.
Conclusione
Serious Sam: Tormental è un’ottima base di partenza, e può risultare divertente per qualche ora, soprattutto se siete appassionati del genere. Ma non aspettatevi tanto di più. Già dopo qualche run la sensazione di ripetitività e di già visto fa capolino, ed in un titolo del genere, basato sulla rigiocabilità, non è affatto piacevole.
A questo voglio aggiungere che Tormental sembra tutto tranne che un Serious Sam. Stile grafico carino e colorato, nemici storici non presenti o irriconoscibili, livelli anonimi ed una colonna sonora che è l’esatto contrario di quel che ci si aspetterebbe in un’avventura di Sam Stone. Insomma, oltre ai personaggi ed un po’ di humour di Serious Sam c’è davvero poco qui. Sembra più una skin di Serious Sam applicata ad un roguelite, ecco.
Visto il prezzo budget a cui è proposto potrebbe comunque meritare l’acquisto, soprattutto se avete già consumato i capisaldi del genere e siete in cerca di un topdown shooter tutto sommato divertente. A patto di tenere basse le aspettative.
Triangle Strategy è un must-play. Unisce un mondo low fantasy ben caratterizzato a una trama intrigante, dai toni maturi, piena di scelte da compiere che non risultano mai scontate. L’ottima scrittura e un cast di personaggi che lasciano il segno fanno il resto. Tecnicamente l’ HD-2D è visivamente delizioso, mentre la colonna sonora è di prim’ordine. Il gameplay è solidissimo, e forse la parte migliore del titolo. Ogni battaglia è stimolante, il grado di sfida è più che soddisfacente, ed ogni membro del party ha una sua unicità.
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Vi dirò la verità, a volte mi stupisco di come cambino i tempi. Fino a qualche anno fa i JRPG venivano relegati a prodotto di nicchia, e gli unici esponenti “importanti” potevamo contarli sulle dita di una mano. Oggi invece ci ritroviamo in un 2022 dove alcuni tra i titoli di punta della portatile Nintendo sono Triangle Strategy per il primo trimestre, Xenoblade Chronicles 3 atteso per fine anno.
Tralasciando la mia facile sorpresa, oggi voglio analizzare nel dettaglio Triangle Strategy, jrpg tattico realizzato da Artdink e diretto dal grandissimo Tomoya Asano. L’ispirazione a classici del genere come Final Fantasy Tactics o Tactics Ogre è palese, ma un conto è ispirarsi a dei capolavori, un conto eguagliarli.
Le cronache del ferro e del sale
Ci troviamo a Nortelia, continente ricco di materie prime e dalla storia secolare. Qui sorgono tre grandi nazioni. Il Regno di Glenbrook, antica monarchia che fa del commercio la sua forza, essendo l’unica nazione provvista di sbocco sul mare. L’Impero di Sabulos, governato dallo Ierofante ed i suoi Septem Sapiens, unici gestori di quella preziosissima risorsa che è il sale. E poi il Granducato di Aesglast, dove non importano le origini più o meno nobili dei cittadini, ma la loro ambizione e capacità.
Nelle prime fasi di Triangle Strategy verremo catapultati in una Nortelia che ha finalmente conosciuto la pace dopo tanti anni di guerra. Il motivo della guerra? Il controllo del ferro e del sale, ovvero le materie prime più ricercate del continente. E come potete immaginare questo fragile armistizio non è destinato a durare. Insomma, i venti di guerra stanno ricominciando a soffiare su Nortelia.
Noi impersoniamo il giovane Serenoa, futuro signore dei Wolfhort, casato maggiore del regno di Glenbrook il cui compito è proteggere la Corona. A noi è stata promessa in sposa Frederica, sorellastra del comandate Gustadolv, leader del Granducato di Aesglast. Un matrimonio che dovrebbe sancire l’alleanza tra Glenbrook ed Aesglast, e consolidare ancor di più la tanto agognata pace.
Questo il “semplice” incipit della storia narrata in Triangle Strategy. Ci troviamo davanti ad un tipico setting “low fantasy”, quindi scordatevi nani, elfi, draghi o mostri di vario genere. O per meglio dire, di mostri ne è pieno, ma in senso figurato. I veri mostri di Nortelia sono gli uomini che la abitano, e la lunga campagna ce ne farà conoscere più di uno.
La responsabilità di un lord
La narrativa di Triangle Strategy è articolata, ricca di avvenimenti e colpi di scena, e sembra quasi ricordare ciò che si è visto ne “Il Trono di Spade”, la celeberrima serie TV targata HBO. Intrighi, complotti, tradimenti, questo è il pane quotidiano di Nortelia, e starà a noi destreggiarci tra nemici ed alleati(o presunti tali).
La convinzione di Serenoa è scandita da tre valori fondamentali, ovvero Libertà, Pragmaticità e Moralità, ed ogni azione o scelta durante i numerosissimi dialoghi andrà a delineare il proseguire della trama, portando poi ad epiloghi molto diversi tra loro. A questo si aggiunge la Bilancia Risolutrice, cimelio della famiglia Wolfhort. Durante varie fasi della partita verremo posti dinnanzi a scelte che segneranno pesantemente il corso degli eventi, ed arriverà in nostro aiuto la Bilancia. A quel punto si terrà una votazione dove i membri del party esprimeranno il loro punto di vista, schierandosi per l’una o l’altra opzione, ognuno mosso dai propri ideali. Ed è qui che entriamo noi in gioco; potremo infatti tentare di far cambiare idea ad ogni membro del party, così da dirigere il casato verso quello che noi riteniamo il male minore, ma non sempre ci riusciremo, fidatevi.
Ed a proposito del party, come non citare l’ottima caratterizzazione offerta ai nostri compagni d’arme. La pragmaticità di Benedict, la lealtà di Erador, la ricerca di giustizia di Frederica, l’animo forte ma tormentato di Roland, la risolutezza di Anna; questi i primissimi esempi dei compagni che andremo ad incontrare e con cui dovremo confrontarci durante le votazioni. Se però il lavoro svolto sul cast principale è ottimo, lo stesso non si può dire dei personaggi “secondari”, ininfluenti ai fini della trama e presentati alla bell’e meglio. Anche loro hanno un minimo di approfondimento tramite scenette opzionali, ma nulla di paragonabile ai membri del casato, un peccato.
A questo punto la narrativa sembrerebbe perfetta. Ma c’è un ma, appunto. Il ritmo del titolo, soprattutto nelle primissime battute, può risultare lento. Vi basti pensare che tra la prima e la seconda battaglia “di trama” mi sarò sorbito 50 minuti buoni di esposizione narrativa. Ma non fatevi trarre in inganno, quel che può sembrare un incipit estremamente prolisso risulta invece necessario per delineare il mondo di gioco, e finirete per appassionarvi alle vicende di Nortelia, fidatevi.
L’ HD-2D colpisce ancora
Il primo aspetto che colpisce di Triangle Strategy è sicuramente il comparto tecnico curatissimo. Ad una ambientazione low fantasy tutto sommato classica viene affiancata una direzione artistica di prim’ordine. In parole povere guardare il susseguirsi degli eventi su Nortelia è davvero una gioia per gli occhi, soprattutto per chi, come me, ama la pixel art.
Siamo davanti ad una nuova iterazione del famigerato stile HD-2D, che ha già dato prova di sé con il bellissimo Octopath Traveler. Agli sprite dei personaggi è contrapposta la realizzazione totalmente 3d degli ambienti, opportunamente texturizzati per sposarsi perfettamente con i primi. Il risultato è un titolo bello da vedere, ma che dà quella sensazione di classico anni 90 che male non fa. A ciò aggiungiamo un’effettistica che fa il suo dovere, tra bagliori, sfocature, riflessi e quant’altro.
Il risultato è davvero una gioia per gli occhi, come testimoniano gli screenshot disseminati lungo la recensione. E che dire della colonna sonora? Anche qui ci troviamo davanti ad un lavoro eccezionale, ad opera di Akira Senju. La OST supporta sempre ciò che vediamo a schermo, con tracks che passano da toni epici nei momenti salienti sino ad arrivare a melodie più malinconiche. Fa il suo dovere, e lo fa dannatamente bene.
Non ve lo nascondo, dopo Octopath e Triangle Strategy è sempre più forte in me la voglia di vedere ogni singola pietra miliare dell’epoca Snes riproposta utilizzando questo stile.
Compagni d’arme unici
Parliamo ora dei personaggi che andremo a reclutare durante il corso della campagna. Parto col dire che se vi aspettate la customizzazione di un Final Fantasy Tactics no, Triangle Strategy non ve la offrirà. Il titolo punta sull’unicità piuttosto che sulla personalizzazione. Ogni singolo personaggio in TS è unico, ha delle abilità che lo contraddistinguono dagli altri e funziona più o meno bene in certi scenari.
Prendiamo ad esempio Hughette e Rudolph. Entrambi sono degli arcieri, ma vanno utilizzati in maniera diversa. Hughette non fa molti danni, ma sfrutta la sua mobilità per prendere posizioni vantaggiose, e da lì bersaglia i nemici infliggendo status alterati. Rudolph invece ha un grande potenziale d’attacco a discapito della mobilità. Grazie alla Freccia Narcotica può mettere a dormire il bersaglio, per poi avere un critico assicurato al suo prossimo attacco, magari con un Tiro Diretto per infliggere danni enormi. Questo ovviamente è solo un piccolo esempio della varietà del party che ci troveremo a gestire. Ogni personaggio ha una sua utilità, e se ben utilizzato sarà risolutivo nella giusta situazione.
A ciò aggiungiamo un sistema di upgrade alle armi specifico per ogni personaggio, con 3 gradi d’arma che sbloccano altrettanti rami di potenziamento. E ripeto, ogni personaggio ne ha uno dedicato, quindi anche qui, gli upgrade di Hughette e Rudolph risulteranno quasi completamente differenti. Un sistema che funziona, specie considerando che le risorse richieste per questi upgrade non sono facilissime da reperire, e ci porteranno a dover compiere costantemente delle scelte su chi potenziare.
Strategia ai massimi livelli
Il fulcro di Triangle Strategy, incredibile a dirlo, è proprio la strategia dietro ogni singolo scontro. Questa è senza dubbio la parte più soddisfacente del titolo, e devo dire che i ragazzi di Artdink si sono davvero superati, riuscendo ad insidiare persino i mostri sacri del genere. Ma andiamo con ordine.
Il sistema di combattimento a turni è quanto di più classico si possa trovare. Ogni unità, alleata o nemica, prende parte all’azione seguendo un turn order chiaro e preciso, sempre visibile a schermo. Potrei definire il gameplay quasi “basilare”. Ci ritroveremo con colpi alle spalle che risultano in critici, colpi dall’alto che infliggono più danni, magie elementali di vario tipo e chi più ne ha più ne metta. Ovviamente anche qui troviamo qualche particolarità, come attacchi in sequenza o l’utilizzo di PT piuttosto che i classici mp, ma non sono dettagli su cui mi voglio dilungare.
Quel che rende il gameplay di Triangle Strategy così soddisfacente risiede nella sfida che il titolo offre. Ogni avversario sul campo, sia esso un bandito armato di pugnale o un boss, risulta una vera e propria minaccia, e sottovalutare gli eserciti nemici porterà inevitabilmente alla sconfitta. La IA non fa mai sconti, gli avversari proveranno sempre ad isolare le nostre unità e punteranno subito i bersagli più fragili, come maghi o arcieri, eseguendo spesso manovre a tenaglia. A ciò va aggiunto il magistrale lavoro di map design; nessuna mappa risulta banale. Ogni singola battaglia è stimolante, con arene che sfruttano la verticalità ed un posizionamento degli avversari intelligente che ci darà spesso filo da torcere. Ci ritroveremo spesso in situazioni di svantaggio, magari colti in un’imboscata. O in situazioni di vantaggio tattico, come la difesa di una cittadina, ma in inferiorità numerica.
Il risultato è un gameplay soddisfacente, dove la vittoria va guadagnata turno dopo turno, e gli errori si pagano cari. E per i più coraggiosi esiste sempre la hard mode, davvero tosta da portare a termine. Penso che proprio lì Triangle Strategy dia il meglio di se. Tocca però ammettere che a volte ci troveremo dinnanzi a spike di difficoltà non indifferenti. Mi viene in mente la battaglia del capitolo 7, così come quella del capitolo 12, giusto per citarne un paio. Insomma, se da un lato il titolo risulta stimolante, dall’altro potrebbe anche essere un po’ troppo impegnativo, soprattutto per chi non è avvezzo al genere. Questo è tuttavia un piccolo difetto che viene completamente oscurato dall’ottima realizzazione di ogni battaglia.
In conclusione
Che dire di Triangle Strategy? Lo seguivo dal primissimo reveal, nutrivo grandi aspettative e devo essere sincero, il lavoro di Artdink le ha ampiamente superate. Un mondo low fantasy ben caratterizzato ed una trama intrigante, dai toni maturi, piena di scelte da compiere che non risultano mai scontate. Il tutto unito ad un ottima scrittura ed un cast di personaggi che lasciano il segno. Sul versante tecnico poco da dire, l’ HD-2D colpisce ancora una volta, Triangle Strategy è visivamente delizioso. A ciò aggiungiamo dei bellissimi artwork ed una colonna sonora di prim’ordine.
Il gameplay è solidissimo, e forse la parte migliore del titolo. Ogni battaglia è stimolante, il grado di sfida è più che soddisfacente, ed ogni membro del party ha una sua unicità.
Potrei anche dire che il ritmo, soprattutto nelle primissime ore, potrebbe risultare particolarmente lento. O che il gioco ci pone davanti ad alcuni spike di difficoltà improvvisi, e sin troppo ripidi. Questo giusto per trovare un paio di difetti ad un titolo che consiglio ad occhi chiusi, soprattutto agli amanti di jrpg tattici, come il sottoscritto.
Sarò sincero, avevo grandi aspettative per Getsu FumaDen: Undying Moon. Aspettative che sono state quasi completamente disattese, e lo dico a malincuore. Ammirare la direzione artistica del titolo è una gioia per gli occhi, ma una bellissima presentazione estetica non riesce a nascondere le tante, troppe ingenuità che Undying Moon porta con sé. Segreti, sfide opzionali, un mondo interessante, stage che offrono ogni volta qualcosa di nuovo. Proprio questo manca al titolo Konami, e per un roguelite è un enorme difetto. A ciò uniamo un loot quantitativamente eccezionale, ma che qualitativamente risulta insipido. E poi un gameplay senza infamia né lode, con qualche buona idea ma mal bilanciata. Se siete fan accaniti dei roguelite potreste anche divertirvi per qualche ora, a patto di tenere basse le aspettative.
5.5
Chi non conosce “La grande onda di Kanagawa”? Opera del maestro giapponese Katsushika Hokusai, questa è senza dubbio una delle immagini più conosciute al mondo, e chiunque di voi l’avrà vista almeno una volta. Amo quello stile, denominato Ukyio-e, di cui Hokusai era il più famoso esponente, tant’è che in salone ho appeso una riproduzione della Grande Onda. Una tela dalle dimensioni ragguardevoli, 160x110cm, poi accompagnata da altre piccole tele facenti parte della stessa serie, “Trentasei vedute del Monte Fuji”, di cui vi consiglio caldamente la visione.
Capirete quindi che ho accettato al volo la recensione di Getsu FumaDen: Undying Moon, roguelite che somiglia ad una tela più che ad un videogioco. Sviluppato da Konami, questo è il seguito di Getsu Fuma Den, adventure a scorrimento rilasciato nel lontano 1987 per Famicom, e che non ha mai lasciato la terra del Sol Levante.
Quando avvio titoli con comparti artistici tanto interessanti ciò che mi chiedo sempre è “bene, ma oltre una bella copertina c’è altro?”. Oggi tenterò di rispondere proprio a questo quesito.
A spasso per l’inferno
Noi incarniamo Fuma, 27° leader del clan Getsu e difensore del mondo in superficie. Ryukotsuki, signore dei demoni – e final boss del prequel – è risorto e vuole scatenare ancora una volta le sue orde sul mondo dei vivi. Toccherà quindi a noi la discesa negli inferi, pronti a sconfiggere ancora una volta la minaccia demoniaca, e sperare di trovare Getsu Rando, il nostro fratello da tempo disperso.
Questo l’incipit di Undying Moon, che come potete immaginare si rivelerà essere un mero pretesto per menare le mani. La trama risulta di fatto completamente assente o quasi, con una brevissima sequenza iniziale che in realtà non spiega nulla. I pochissimi dettagli sull’universo di gioco vanno ricercati su delle lapidi sparse per gli stage. Vi anticipo che sono giunto dinnanzi al final boss senza sapere chi o cosa fosse e perché si trovasse lì, traete voi le conclusioni.
Di norma non do troppa importanza alla narrativa quando si parla di roguelite, ma qui ci ritroviamo al di sotto del minimo sindacale. Nel titolo è presente ben UN NPC con cui dialogare, che per altro ha poche e banali linee di dialogo. Un po’ poco, visto che un certo Hades ci ha dimostrato come anche un roguelite può offrire decine di npc interessanti e migliaia di dialoghi qualitativamente notevoli.
Insomma, il comparto narrativo non è sicuramente la parte meglio riuscita di Undying Moon, ma procediamo.
Un dipinto in movimento
Quel che balza subito all’occhio di Getsu Fumaden: Undying Moon è sicuramente la straordinaria direzione artistica. Ogni singolo elemento a schermo urla Giappone a gran voce, il tutto in un delizioso stile ukyio-e, tant’è che spesso sembrerà di guardare un’opera d’arte piuttosto che un videogioco. Fondali 2d animati, ricchi di dettagli e davvero tanto ispirati fanno da sfondo allo stage vero e proprio, colmo di creature del folklore giapponese. Menzione d’onore per lo stage Il bestiario è ben nutrito, e si spazia dai classici Oni all’enigmatica Kyūbi, meglio conosciuta come volpe a nove code. Per non parlare dei boss di fine livello, davvero spettacolari e ben animati.
Undying Moon però presenta un brutto difetto, ovvero pone la forma prima della sostanza. Gli stage sono visivamente spettacolari, ma lo stesso non si può dire della loro struttura. Ogni livello è generato in maniera procedurale, e si compone di tante piattaforme orizzontali da attraversare, fine, non c’è letteralmente nulla con cui interagire se non i nemici ed eventuali scrigni. Tutto quel che contraddistingue un buon roguelite è totalmente assente. Stanze segrete, eventi casuali, sfide opzionali, nulla di tutto ciò è presente in Undying Moon. Ciò che ne consegue è una ripetitività che si fa prepotente già dopo una manciata di run, e questo non è mai un bene per titoli del genere.
Anche il level design è poco brillante. La struttura di base degli stage non soffre di particolari problemi, seppur risulti molto elementare, mentre la creazione procedurale degli stessi scade spesso in delle ingenuità. Ad esempio non è raro trovare numerosi vicoli ciechi che non portano letteralmente a nulla, né ad un nemico né ad uno scrigno, e fanno solo perdere tempo. Anche il posizionamento dei nemici non aiuta, con questi ultimi che spesso potranno attaccarci fuori schermo; ho letteralmente odiato lo stage delle Colline Nebbiose, e vi sarà chiaro il perché non appena lo raggiungerete.
Il samurai demoniaco
Veniamo ora a quel che conta, il gameplay. Controllare Fuma mi lascia sensazioni contrastanti. Se da un mero lato visivo il tutto risulta molto piacevole – anche grazie alle splendide animazioni del samurai – lo stesso non si può dire dal punto di vista prettamente meccanico. Non so se il problema sia della sola versione Switch, ma ho costantemente avvertito una legnosità generale nei comandi, o per meglio dire, un – seppur minimo – input delay. Fortunatamente il gameplay di Undying Moon non è particolarmente frenetico, quindi l’esperienza di gioco non viene totalmente compromessa; ci tengo però a precisare che qui siamo ben lontani dall’estrema responsività di un Dead Cells, ecco.
Il combattimento vero e proprio è quello tipico di un qualsiasi hack ‘n’ slash, con però qualche meccanica in più. Abbiamo l’attacco leggero, l’azione speciale differente per ogni arma e la schivata di Dark Souls memoria. A ciò si vanno ad aggiungere gli attacchi di sfondamento, i contrattacchi e la demonization. I primi servono a spezzare l’equilibrio del nemico, per poi effettuare una soddisfacente finisher, i secondi sono dei semplici contrattacchi, qui definiti Lampo. La demonization è invece una sorta di demon trigger, e ci permette di potenziare attacco e velocità per ogni colpo assestato in rapida sequenza. Voglio precisare che il titolo fa di tutto per rendere ciò che ho scritto il più ermetico possibile, relegando la spiegazione di meccaniche fondamentali a voci situate nei meandri dei sotto menù. Una scelta abbastanza discutibile
Queste aggiunte al gameplay sono interessanti sulla carta, ma anche qui ho notato più di una ingenuità. A livelli di difficoltà più alti lo sfondamento è decisamente troppo forte, essendo in grado di giustiziare qualsiasi nemico previa rottura del suo equilibrio. La demonization invece è, senza mezzi termini, una meccanica mal implementata; di fatto è praticamente impossibile “demonizzarsi” se non si utilizzano le doppie lame, la lancia o i pugni. E così 3 armi principali su 6 risultano quasi totalmente estromesse da questa dinamica di gioco.
Devo precisare che Fuma può trasporate due armi principali alla volta, quindi si potrebbero sfruttare delle doppie lame per demonizzarsi e poi passare alla katana, ciononostante ritengo che relegare una parte del core gameplay a certe armi senza un particolare motivo sia una bella svista.
L’arsenale del clan Getsu
Ed eccoci qui a parlare del loot, degli sbloccabili, la linfa vitale di qualsiasi roguelite ed ossessione di noi fan del genere. Partiamo col dire che Fuma ha a sua disposizione 6 diversi tipi di armi primarie, ovvero katana, mazza, lancia, doppie lame, ombrello e tirapugni. A ciò si vanno ad aggiungere le armi secondarie, generalmente ranged, tra le quali si annoverano kunai, archi, archibugi e bombe. Queste funzionano come dei consumabili, ed una volta esaurite le “cariche” disponibili entrano in cooldown.
Se c’è una cosa che non manca ad Undying Moon, quella è proprio la quantità spropositata di equipaggiamenti e potenziamenti per il nostro eroe. I nemici da noi massacrati droppano infatti delle risorse e, più raramente, dei “progetti” che ci permetteranno di creare nuovi strumenti di morte. Ogni singola arma va poi potenziata tramite un sistema di upgrade che, sebbene sia presentato in maniera davvero tanto confusionaria, risulta in realtà abbastanza semplice ed intuitivo dopo poco tempo.
Quindi abbiamo visto che la quantità di loot sicuramente non manca ad Undying Moon, ma possiamo dire lo stesso della qualità? Anche in questo aspetto ci ritroviamo davanti ad un sistema potenzialmente interessante, ma che a conti fatti non risulta mai brillante. Le armi principali sono solamente 6, e nonostante ognuna di esse abbia 5 varianti, a conti fatti parliamo sempre di 6 armi dai moveset striminziti. Ogni katana è uguale all’altra da un punto di vista prettamente tecnico, e poco vi cambierà utilizzare la katana affilata o una ammazzademoni. Sì, a livello parametrico sono differenti, ma all’atto pratico non cambia praticamente nulla tra le due, ed anzi, spesso le armi presenti sin dall’inizio del gioco risultano anche essere le più forti.
Il drop rate delle armi più “esotiche” è davvero basso, mentre le armi “base” piovono giù in continuazione, e 9 volte su 10 il tutto si riduce ad equipaggiare l’arma con il parametro d’attacco più alto. Il problema è proprio l’impossibilità di creare una qualsivoglia build, poiché non vi è sinergia tra le varie primarie e secondarie, se non in qualche raro caso. Quindi le vere statistiche desiderabili sono l’attacco e lo sfondamento, mentre tutto il resto passa in secondo piano.
Anche il personaggio va potenziato tramite risorse, e pure qui ci ritroviamo davanti a potenziamenti funzionali, ma estremamente banali. Aumentare la vitalità o le pozioni trasportabili va più che bene, ma mancano opzioni davvero interessanti, come nuove abilità di movimento – per snellire la navigazione degli stage – o nuove tecniche per le armi primarie, ad esempio. E non voglio entrare nel dettaglio, ma sappiate che servono davvero tanti, oserei dire troppi materiali per potenziare armi e personaggio.
Insomma, abbiamo sì una quantità davvero alta di sbloccabili, ma questo non equivale a qualità come un pò tutto in Undying Moon.
In conclusione
Che dire di Getsu FumaDen: Undying Moon? Devo essere onesto, avevo grandi aspettative per il titolo, anche e soprattutto per l’ottima direzione artistica che lo contraddistingue. Peccato che qui si sia curata quasi unicamente la forma a discapito di ciò che conta veramente in un roguelite. Il gameplay è accettabile, ma tra un level design scialbo, comandi non proprio precisissimi e scelte di gameplay spesso ingenue mi viene davvero difficile consigliarne l’acquisto.
A ciò aggiungiamo che mancano tutti quegli elementi che rendono memorabile un roguelite; segreti da scovare nei livelli, building del pg durante la run, loot vario e diversificato, eventi casuali ed npc che ci rivelano dettagli del mondo di gioco. Qui troviamo giusto le fondamenta per un buon roguelite, ma nulla di tutto ciò che ho appena elencato.
Spero vivamente che Konami supporti il titolo e lo migliori, perché le potenzialità ci sono. Ma allo stato attuale è impossibile consigliarne l’acquisto quando un certo Dead Cells – che fa letteralmente tutto meglio di Undying Moon – è già disponibile, e probabilmente più economico. Se siete fan incalliti del genere potreste pure divertirvi per qualche ora, a patto di tenere basse le aspettative.
Carrion è un titolo che si basa su un’ottima idea, ovvero interpretare noi stessi il mostro. Ed in questo riesce davvero benissimo, mostrando una creatura inquietante e divertente da controllare. Al tempo stesso però la componente prettamente ludica del titolo soffre di non poche criticità. Cacciare i poveri rimane divertente, peccato che il titolo duri davvero poco ed abbia rigiocabilità pressoché nulla. Da acquistare se siete fan del reverse horror, a patto di scendere a compromessi con i limiti che Carrion si porta dietro.
7.5
La Cosa, la leggendaria pellicola diretta da John Carpenter, ha da sempre un posto speciale nel mio cuore di appassionato del genere sci-fi, assieme ad Alien e pochi altri esponenti. Capirete quindi che non potevo farmi scappare Carrion, reverse horror sviluppato da Phobia Game Studio che per ovvie ragioni si ispira al cult sopra citato. Di titoli in cui impersoniamo eroi pronti a combattere aberrazioni di ogni tipo ne è pieno il mondo; di titoli in cui siamo NOI l’aberrazione se ne trovano assai pochi invece.
Carrion offre proprio questo, la possibilità di impersonare il mostro, la cosa, e stavolta il nemico – o per meglio dire, la preda – è proprio lui, l’uomo.
Un orrore strisciante
Come già detto, stavolta siamo noi a vestire i panni della creatura. E lasciatemelo dire, qui i ragazzi di Phobia Game Studio hanno fatto un lavoro più che eccellente. Il protagonista di Carrion è un ammasso organico dalla natura non meglio specificata, un alga o un qualche tipo di verme primitivo forse. Si muove a velocità fulminea grazie ad i suoi innumerevoli tentacoli, ed è in grado di sgattaiolare in qualsiasi anfratto. Dotato di svariate fauci acuminate, sembra la materializzazione fisica del più terribile tra gli incubi.
Le premesse narrative sono semplici ed appena accennate; l’obiettivo della creatura è uno soltanto, fuggire dalla base militare in cui è stato rinchiuso, o magari creato. A fronteggiarlo saranno i malcapitati occupanti della base, quelle fragili creature chiamate uomini. Armate, certo, ma pur sempre fragili, soprattutto per le sue lame.
In qualsiasi reverse horror che si rispetti il focus principale è il mostro, e qui ne troviamo uno a dir poco perfetto. Aspetto, movenze, versi, tutto è stato studiato nei minimi particolari. Veder sfrecciare la cosa tra soffitti, cunicoli o tubature è incredibilmente appagante ed inquietante allo stesso tempo, anche grazie all’estrema fluidità che cozza con le dimensioni del mostro. I suoi attacchi sono brutali e restituiscono un feedback perfetto, potente. Il tutto è poi animato in una bellissima pixel art, fiore all’occhiello della produzione polacca.
Abilità mostruose
Bene, quindi cosa è Carrion? Potremmo definirlo come un metroidvania alla lontana in realtà, con una componente puzzle abbastanza elementare. Il nostro compito è semplice, muoverci per un Hub centrale – Frontier – ed invadere le varie zone della base ad esso collegate, al fine di acquisire abilità via via più potenti. Il mostro si contraddistingue infatti in tre “stadi evolutivi”.
Durante le primissime fasi della partita ci ritroveremo a comandare un mostriciattolo, piccolo ma pur sempre letale. Come crescere? Ovviamente divorando i malcapitati scienziati che avranno la sfortuna di incrociare la nostra strada. È così che pian piano ci ritroveremo a comandare una massa informe delle dimensioni di una automobile. Inoltre durante le razzie il mostro si imbatterà in varie celle di contenimento, che dopo esser state aperte doneranno abilità essenziali alla risoluzione di scontri armati e puzzle ambientali.
Ovviamente all’interno di una base militare sotterranea non possono mancare due elementi: gli scienziati ma soprattutto i militari. I primi rappresentano un gradito pasto per la creatura, ma i secondi possono rivelarsi avversari davvero temibili. Le fasi prettamente action in Carrion difatti ci vedono fronteggiare un piccolo esercito composto da soldati, droni da combattimento e – nelle fasi avanzate – addirittura mech. Ogni nemico è una sorta di piccolo puzzle, come ad esempio i soldati, dotati di scudo frontale che per forza di cose andranno colpiti alle spalle, o sopresi durante le loro ronde. Insomma, gli umani offriranno quel pizzico di sfida necessario a non rendere noiosa l’esperienza di gioco, fortunatamente.
Ovviamente non parliamo di un titolo stealth, ma fa piacere notare come gli scontri possano spesso esser risolti in maniera “diretta” o sfruttando il level design ed i poteri della creatura. Menzione d’onore poi per l’abilità “Parassitismo” che ci permetterà di prendere il controllo di un umano; si, anche dell’umano che sta pilotando quel mech. Tocca però segnalare che la varietà di nemici è davvero bassa, e dopo un paio d’ore ogni combattimento avrà quell’amaro retrogusto di “già visto”, peccato.
Si potrebbe anche parlare dei “puzzle ambientali”, che però sono talmente banali da non richiedere un paragrafo a parte. Tutto ruota attorno all’utilizzare l’abilità giusta per tirare questa o quella leva, ed il modo in cui risolverli è sempre abbastanza ovvio.
Senso d’orientamento
Come già detto Carrion è fondamentalmente un metroidvania. Ed ogni metroidvania che si rispetti presenta mappe labirintiche, intricate, enormi, come ci dimostra il recente Metroid Dread. Carrion però non offre una mappa labirintica, enorme ed intricata, anzi, le varie aree risultano abbastanza striminzite. La navigazione è praticamente su rotaia, il titolo mette sempre il giocatore sulla strada giusta, la via “ovvia” per la quale dirigersi.
Ma attenti, non commettete l’errore del sottoscritto, non deviate MAI dal percorso che il titolo suggerisce. Pena per tale errore è la certezza matematica di stare a vagare una buona mezz’ora al fine di ritrovare la via maestra. Direte voi: “se mi perdo consulto la mappa, no?”. No, questa è la risposta. Inspiegabilmente questo metroidvania non offre una mappa consultabile, espediente utilizzato forse al fine di nascondere le dimensioni piuttosto modeste del mondo di gioco.
La varietà visiva dei settori poi non agevola assolutamente l’orientamento; ogni area è praticamente identica a quella successiva, un groviglio di cunicoli, tubature con uscite a senso unico, ascensori etc. Capirete quindi che il rischio di deviare dal percorso prestabilito e vagare senza meta per troppo tempo è sempre dietro l’angolo. Anche l’hub centrale risulta inutilmente complesso, considerando che dovrebbe essere una semplice mappa in cui spostarsi tra le varie zone.
Ironico tra l’altro che il gioco possieda dei “collezionabili”, nove celle di contenimento extra da scovare all’interno delle varie aree, e che forniscono bonus addizionali come salute aumentata o più energia per le abilità. Bonus praticamente inutili, sia chiaro, ma che risultano comunque una piacevole aggiunta. Non fosse che per scovarle tocca intraprendere delle deviazioni, e questo ci porta al problema di prima, ovvero il concreto rischio di perdere l’orientamento. Peccato, perché alcune di queste celle offrono dei puzzle un minimo più articolati ed appaganti.
In conclusione
Carrion parte da un’ottima idea, ed alcune sue componenti sono sviluppate in maniera davvero egregia. In particolare la realizzazione del mostro è magistrale, e questo è un enorme punto a favore se parliamo di un reverse horror. La storia è sì abbastanza banale, ma riesce ad intrattenere quel tanto che basta, e soprattutto riserba un gran bel finale. Peccato però per la durata, decisamente striminzita, che si attesta sulle 3-4 ore totali.
Il problema sorge quando analizziamo la componente prettamente ludica del titolo. La varietà di nemici è praticamente assente, e dall’inizio alla fine incontreremo ben cinque tipologie di avversari, decisamente poche. La navigazione – componente fondamentale in un metroidvania – fila liscia fin quando il giocatore segue religiosamente la via tracciata dagli sviluppatori. Alla prima deviazione intrapresa la mancanza di una mappa si sente tutta, e ritrovare il percorso da compiere è noioso e complicato.
In poche parole Carrion si basa su un’ottima idea, con punti di forza importanti, ma che presenta anche delle criticità non da poco. Se siete dei fan dei reverse horror è sicuramente un titolo da tenere in considerazione, seppur con qualche riserva.
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