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Editoriali

Perché Bioshock ha fatto la storia dei videogiochi

Bioshock”. Avrei potuto anche scrivere questa unica parola, chiudere qui l’articolo e non aggiungere altro. Già, perché per qualunque amante dei videogame di qualità Bioshock è storia, anzi, è leggenda.

Quello che leggerete d’ora in avanti sarà il variopinto elogio di una saga, “Bioshock”, “Bioshock 2” e “Bioshock – Infinite”, che mi ha appassionato come quasi nessun’altra e che mi ha piacevolmente costretto a giocarla e rigiocarla fino a scoprire ogni più piccolo segreto, ogni sfaccettatura, ogni singolo passaggio. Con “Bioshock” e i suoi sequel, infatti, non si vive semplicemente una storia, non si vestono soltanto i panni del protagonista di turno ma si affrontano i propri demoni, ci si interroga, spinti dalla trama, a fare i conti con sé stessi e ad interrogarsi su cosa, fino in fondo, sia la nostra natura umana.

La nascita del mito

Ma andiamo con ordine. Nel 2007, sviluppato da Irrational Games e pubblicato da 2K Games, arriva “Bioshock”, un FPS destinato a cambiare la storia degli sparatutto in prima persona e non solo. Il titolo ebbe l’effetto deflagrante di una bomba atomica in un mondo video ludico che attendeva con ansia un nuovo capolavoro di cui cibarsi con voracità. Il lavoro dei ragazzi dello “Scoiattolo Cieco” si rivelò subito un gioiello preziosissimo, sia per il comparto tecnico e la programmazione perfetta sia per il design dei livelli e degli straordinari personaggi. Fu così che tutte le riviste di settore non poterono far altro che dare votazioni altissime tanto da raggiungere la media di 97/100. L’acclamazione di “Bioshock” fu unanime, così come la soddisfazione dei videogiocatori di tutto il mondo che si trovarono per le mani uno dei migliori titoli mai realizzati.

Bioshock: quando si dice colpo di fulmine
Quando si dice il colpo di fulmine!

Successore “spirituale” di System Shock 2, Bioshock venne ideato per stupire la platea videoludica e trasportarla in una realtà distopica in cui il giusto e lo sbagliato vanno a fondersi in un’ipocrisia generale e folle.

Il capostipite della serie inizia con il protagonista Jack intento ad affrontare il dramma di un disastro aereo rimanendo miracolosamente illeso. Precipitato al largo nell’Oceano Atlantico, scorge un faro poco distante. Entrato poi in una batisfera, viene trasportato suo malgrado all’ingresso della città di Rapture obbligato così a scoprire i tremendi segreti di un mondo sommerso intriso di pazzia, disumanità e degrado sociale da cui dovrà evitare di essere inghiottito.

La prima avventura si dipana proprio all’interno di questa stupefacente e affascinante città sottomarina in cui, prima del decadimento, si erano riunite menti illuminate e geniali che avevano come discutibile scopo quello di poter sperimentare senza freni, slegati dalla morale e dalle leggi terrestri.

Scopriamo, ben presto, che l’inizio della fine fu la scoperta di una sostanza estratta da alcune lumache di mare, l’Adam. Tale sostanza agisce sull’organismo umano come una sorta di tumore benigno che sostituisce le cellule presenti con cellule staminali potenziate e instabili. Risultato? Tanti poteri ma anche demenza e follia. Questi poteri vengono chiamati “Plasmidi” e donano a chi li possiede (i ricombinanti) le capacità, tra le altre, di congelare, bruciare, fulminare e generare api assassine. Tali poteri vanno costantemente rimpinguati dalla droga Adam che, come ogni sostanza stupefacente, causa dipendenza. Ed ecco che Rapture, nata come città utopica con lo sguardo rivolto al futuro e alla tecnologia, diventa in breve tempo un enorme calderone di morte e pazzia in cui umani dissennati vagano senza meta per procurarsi una dose.

E già così, ammettiamolo, potremmo parlare di un’idea originalissima alla base di Bioshock. Già così potremmo parlare di capolavoro. Per fortuna, però, Bioshock non si limita ad essere uno sparatutto in soggettiva tecnicamente e visivamente splendido ma anche un gioco in cui la trama ci lascia a bocca aperta e che ci regala chicche splendide come i Big Daddy e le Sorelline a cui non possiamo che dedicare una sezione più in basso.

Un Big Daddy ci sta caricando…

Tralasciando i risvolti di trama, per i quali il sottoscritto vi consiglia caldamente di recuperare i titoli e giocarli, i due sequel procedono nel solco tracciato da “Bioshock”, regalandoci in Bioshock 2 la possibilità di vestire i panni di un possente Big Daddy senziente e, nel terzo, di vivere un’avventura splendida tra l’onirico e il magico, il tutto sapientemente curato da una regia politica che ne fa, probabilmente, il titolo più maturo dei tre.

Big Daddy & Sorelline, terrore e genialità

Come abbiamo detto, gli abitanti di Rapture sono ormai perduti, vittime dei loro stessi vizi e perennemente alla ricerca di Adam. E la loro ricerca si estende, in modo macabro e purulento anche nei cadaveri disseminati qui e lì per una città senza freni. Già, perché con uno strumento terrificante simile ad una pistola con un lungo aculeo finale è possibile estrarre i residui di Adam che scorrono nelle vene del defunto. I cadaveri, però, restano incustoditi e a disposizione di tutti solo per pochissimi minuti perché, a pochi minuti dalla morte, ecco arrivare le visioni più agghiaccianti e terribili che Rapture proponga: i Big Daddy e le Sorelline. I primi sono dei robot corazzatissimi e armati di trivella meccanica che hanno un solo scopo: difendere le bimbe che li accompagnano. Queste creaturine a prima vista sembrano delle dolci e innocenti bambine che però si rivelano esseri mutati geneticamente e riprogrammati per “fiutare” l’Adam ed estrarlo dai cadaveri con i loro arnesi.

Bioshock: sorellina
Ecco una sorellina in tutto il suo macabro e tremendo splendore

Non nascondo che quando le incontrai per la prima volta restai pietrificato e provai una sensazione di terrore misto a fascinazione. È indubbio che, pur silenti, i Big Daddy siano personaggi straordinari, non a caso diventati ultra-famose icone pop più volte rappresentate e ben presenti nell’immaginario videoludico attuale.

Quando le parole “bene” e “male” non hanno più senso

Non starò qui a raccontare minuziosamente le trame di questi capolavori senza tempo a distanza di così tanti anni dalla loro uscita ma è necessario trovare all’interno di essi un filo conduttore dell’intera l’epopea di Bioshock: la difficoltà di distinguere il bene dal male. Cosa è giusto e cosa è sbagliato. Durante tutti i tre i giochi, infatti, saremo spesso chiamati a fare delle scelte difficili che potranno o non potranno rendere il nostro personaggio più forte e, di conseguenza, l’incedere tra i livelli più agevole. Saremo chiamati a scegliere se liberare le sorelline del loro mostruoso fardello regalando loro una nuova infanzia umana oppure ucciderle prosciugandole del tutto del prezioso Adam. Detta così, potrebbe essere semplice dire quale sia la scelta giusta ma, in realtà, siamo ben oltre i limiti dell’ovvio.

Le sorelline non sono biologicamente umane, anzi, sono completamente prive di umanità nel loro stato e ciò, convenzionalmente, non le porta allo status di esseri umani. Non sappiamo i risvolti reali della loro “redenzione” che, per mano nostra, potrebbe lasciarle in una sofferenza perenne e con enormi problemi di carattere psicologico e sociologico. Neanche la dottoressa che le ha create, Brigit Tenenbaum non sa realmente cosa le sorelline siano in realtà né tantomeno conosce la loro origine. Vale la pena rischiare la propria vita per salvare questi soggetti che potrebbero essere stati creati artificialmente in laboratorio? Sta a voi deciderlo… dilemmi etici di tale portata saranno ben presenti anche nei sequel in cui potremo o non potremo forzare la legge di Rapture e quella etica per andare avanti, oppure partecipare ad un golpe che possa favorirci. E’ tutto nelle nostre mani e i vari finali disponibili, che cambiano in base alle nostre scelte, rappresentano il giudizio finale sulle nostre azioni. Provare per credere.  

Sono ambidestro e ve lo dimostro!

Spero che a questo punto via sia passato il messaggio che “Bioshock” e fratelli siano dei capolavori visionari e senza tempo ma non potevi esimermi dal parlarvi di una delle meccaniche di gioco più importanti nonché più iconiche e riconoscibili del gioco: il doppio attacco combinato.

Abbiamo detto in incipit che a Rapture abbiamo la possibilità di acquisire poteri straordinari chiamati Plasmidi e che questi siano alla base di tutti e tre i titoli. Ciò non implica, però, che i nostri protagonisti non possano farsi largo tra selve di nemici a colpi di armi da fuoco, anzi. L’innovazione della saga di Bioshock è proprio rappresentata dal doppio attacco Plasmide/Arma da fuoco che possiamo sfruttare anche in base all’ambientazione. Per fare un paio di esempi banali, ma si può eliminare il nemico con enorme eleganza e in tanti modi diversi, se il nostro avversario si trova con i piedi nell’acqua sarà certo una buonissima idea utilizzare la scarica per fulminarlo per bene prima di finirlo con fucile o pistola mentre se si trova a camminare sul cherosene o sulla benzina, la fiamma ci aiuterà ad arrostirlo a puntino.

Boom e poi bang-bang!

Ecco, la possibilità di utilizzare la mano destra per sparare e la sinistra per utilizzare il potere fu un vero colpo di genio dei creatori che regalarono, così, ai posteri una saga da cui, successivamente, hanno attinto un po’ tutti a piene mani.

Una saga oltre il tempo e la tecnica

Degrado sociale, psicologia, cieca follia e lucida crudeltà sono gli ingredienti che, uniti ad un comparto tecnico di altissimo rilievo e da un level design degno di essere studiato nelle università di settore, fanno della saga di Bioshock una delle più importanti e ricordate dell’intera storia videoludica. Tre titoli che non sentono quasi per nulla il peso degli anni e che possono essere tranquillamente giocati anche al giorno d’oggi senza il timore di vivere un’esperienza vintage e poco appagante. Provare per credere.

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Recensioni

Resident Evil 4 Remake – Recensione

Recensione in BREVE

Resident Evil 4 è un capolavoro con qualche difettuccio. Il lavoro di Capcom per svecchiare l’opera è stato magistrale e ha trasportato in tutto (tranne che per il comparto grafico) nella piena attualità video ludica. Un must have a tutti gli effetti da giocare e rigiocare. Nessun miracolo, intendiamoci, ma il titolo merita assolutamente un voto altissimo.

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Parlare di un remake è sempre un compito arduo. Paragonare un prodotto nuovo ad uno di quasi vent’anni fa obbliga l’articolista a camminare su un terreno sdrucciolevole, palleggiando tra presente e passato. Il tutto, poi, si amplifica quando il protagonista del remake è una pietra miliare dell’universo videoludico che ha fatto scuola e che ha rappresentato la linea di demarcazione tra quello che c’è stato prima e quello che è venuto dopo.

Resident Evil 4 Remake è un capolavoro o no? I fan urleranno di eccitazione o resteranno delusi? Ecco cosa aspettarci dall’ultima fatica targata Capcom.

Fare tesoro degli errori passati

Realizzare un remake mette di fronte a due possibilità: restare fedeli alla storia o modificarla per dare una ventata di novità. Secondo il punto di vista di chi scrive, seguire la strada del rinnovamento in termini di trama è un errore molto grave ed è esattamente quello che non ci è piaciuto nel remake di RE3, in cui sequenze e momenti fondamentali a fini della storia apprezzata nel 1999 sono stati modificati o addirittura rimossi e sacrificati sull’altare del rinnovamento. Chi gioca ad un remake, invece, vuole riassaporare il gusto che ha provato ai tempi dell’uscita del gioco originale, rivivere le stesse atmosfere e, perché no, commuoversi nel ricordare personaggi o ambientazioni che gli hanno fatto amare quel titolo.

I ragazzi di Capcom, vivaddio, hanno recepito bene le copiose critiche piovute su Resident Evil 3 Remake, facendone tesoro e presentando un remake di RE4 assai fedele al gioco del 2006. Il lavoro di svecchiamento del titolo, infatti, ha riguardato la rimozione di alcune dinamiche di gioco ormai superate, la piccola modifica di alcune sequenze e la riscrittura di alcuni personaggi (soprattutto di Ashley) redendoli più gradevoli, anzi, evitando di odiarli letteralmente ogni qualvolta aprano bocca o compiano una qualunque azione. Ma andiamo con ordine.

Quoque tu, Leon!

Fin dai primissimi istanti del prologo che fa anche da tutorial, la sensazione che abbiamo provato è stata quella di trovarci di fronte ad un remake concettualmente diverso dal precedente capitolo. Abbiamo riconosciuto perfettamente ambientazioni e stile conosciuti nel 2006 e questo ci ha fatto sentire a casa. La piazza del villaggio di Valdelobos dove assistiamo alla primissima scena horror del gioco è esattamente come la ricordavamo e ci ha fatto sorridere di eccitazione e malinconia.

E, soprattutto, abbiamo riconosciuto il nostro caro Leon Kennedy. In questo capitolo della saga lo ritroviamo in qualità di agente segreto al servizio del Presidente degli Stati Uniti che lo ha assoldato per riportare a casa l’adorata figlia Ashley di cui si sono perse le tracce in Spagna.

Gli orrori vissuti a Raccoon City sembrano ormai alle spalle e l’eroe è convinto, pur nutrendo dei sospetti che ci sia qualcosa di grosso sotto, di aver intrapreso una missione “Trova&Salva” abbastanza canonica. Speranza vana. Appena messo piede in terra iberica, infatti, veniamo a conoscenza del fatto che molta gente del posto e alcuni turisti escursionisti sono scomparsi nel nulla e che le indagini non hanno portato a nessuna pista.

Rimasti soli alla periferia di Valdelobos, dunque, inizierà un nuovo incubo tra mostruosità crescenti e che troverà il suo culmine nell’ultimo atto della nostra avventura.

Scrivere una recensione no-spoiler di un remake parrebbe poco furbo, tanto più che abbiamo svelato essere molto fedele all’originale pubblicato al tempo per GameCube, ma il nostro intento è stato quello di preservare chi, invece, si approccia a Resident Evil 4 per la prima volta.

Una cosa, però, ve la sveliamo: niente Separate Ways. La mini campagna dedicata ad Ada Wong non è presente nel gioco. Prossimo DLC?

Il gameplay fra tradizione e attualità

Nel 2006, Resident Evil 4 si presentò ai fan con la classica visuale alle spalle del protagonista, caratteristica che il remake ha giustamente mantenuto. La capigliatura argentea e i muscoli del buon Leon, quindi, saranno sempre ben visibili sullo schermo garantendo al giocatore una discreta gestione degli spazi e delle fasi di gioco.

Come detto, il gameplay ha ricevuto un dovuto restyling così da rendersi più moderno e fruibile. Innanzitutto, sono stati eliminati i quick time events (a parte uno minuscolo nelle fasi iniziali) con buona pace di chi li amava e di chi, invece, come noi, crede siano ormai superati. Non dovremo più cimentarci, dunque, a premere i vari pulsanti richiesti a tempo per evitare questo o quell’altro ostacolo o sfruttare i nostri riflessi per abbattere nemici oversize. La sfida, dunque, ha ricevuto un upgrade interessante che ha reso il titolo più longevo, più giocabile e, di fatto, più divertente.

Per quanto riguarda i combattimenti, continui e costanti in linea con l’anima action del titolo, ci siamo goduti appieno le novità introdotte: la parata e il parry. In pratica, il nostro eroe potrà disinnescare i colpi sferrati all’arma bianca dai nemici fino a sbilanciarli e contrattaccare con un calcio o una spettacolare (quanto trash) suplex. Proprio per questo, il coltello di Leon sarà il nostro miglior amico e dovremo frequentemente farlo riparare al mercante così da non restarne senza durante gli scontri e poterlo utilizzare per finire i nemici agonizzanti prima che evolvano in mostri più veloci, resistenti e pericolosi.

Abbiamo citato la parata e il parry come gradevolissima introduzione e il motivo risiede nel fatto che Resident Evil 4, fin dal tutorial, ci manda un messaggio chiarissimo: se la vostra idea è quella di affrontare orde di nemici assaltandoli ed esponendovi ad attacchi multipli, accantonatela subito. Gli abitanti del villaggio semi-mutati prima e tutti gli altri avversari che troveremo via via nel nostro cammino di ricerca sono aggressivi, veloci e coriacei. Affrontarli a viso aperto significa, a livello normale e soprattutto difficile, sprecare fiumi di munizioni per abbattere avversari che spawnano di continuo, spaccare il coltello a forza di parate e rimetterci, alla fine, la vita. Meglio, laddove possibile, scegliere la modalità stealth e fuggire verso luoghi più sicuri.

Per quanto concerne le armi a disposizione, il mercante sarà un valido alleato proponendocene sempre di più potenti e, talvolta, offerte d’acquisto vantaggiose. Potremo anche scambiare gli spinelli (pietre preziose di colore rosa) che troveremo disseminati per la mappa o che riceveremo dopo aver completato piccole missioni secondarie le cui richieste troveremo scritte su volantini blu affissi ai muri. Riceveremo, così, manufatti e potenziamenti fondamentali per sopravvivere. Avremo anche la facoltà di vendere gioielli e monili trovali qui e lì così da arricchirci e comprare nuova attrezzatura.

Scegliere cosa acquistare e quando farlo sarà fondamentale per superare i livelli, 16 capitoli per l’esattezza, che si susseguiranno a difficoltà crescente. Trovarsi con l’arma sbagliata e senza munizioni nel posto sbagliato non ci darà scampo e renderà l’esperienza frustrante. A tal proposito, abbiamo gradito l’introduzione del crafting delle munizioni attraverso la combinazione di polvere da sparo e materiali specifici di cui la mappa è ampiamente disseminata. Ne faremo uso molto spesso, se non altro per liberare spazio nella nostra iconica valigetta tetris a carico limitato.

Molto, molto bene, come anticipato, la riscrittura dei personaggi e in particolar modo di Ashley che si rapporta finalmente a Leon in modo più maturo. Scomparsa, per fortuna, la figlia del Presidente sciocca del 2006 che, più di una volta, ci ha fatto invocare gli dei affinché venisse fulminata immantinente. Modificato anche il carattere del buon Kennedy, decisamente più cazzuto in questo capitolo rispetto al passato ma altrettanto ironico e sprezzante.  

Non abbiamo apprezzato, invece, il mancato di lavoro sui movimenti generali di Leon che appaiono piuttosto legnosi e poco fluidi, assai più vicini agli standard tecnici del 2006 piuttosto che a quelli attuali. Caratteristica che ci ha fatto imprecare non poco quando ci siamo trovati spalle al muro contro orde di nemici e i movimenti del nostro platinato eroe si sono rivelati troppo lenti. Nota a margine, la mancata introduzione di un’animazione che arresti la ricarica dell’arma nel caso di assalto nemico: se stiamo rimpolpando di munizioni un fucile o una pistola durante una carica avversaria dovremo rassegnarci a subire l’attacco. Peccato.

Un’opera da guardare ma soprattutto da ascoltare

E veniamo al comparto grafico di Resident Evil 4 Remake. Posto che lo abbiamo giocato su PC quasi al massimo del dettaglio, possiamo dire che il motore fisico e grafico abbia fatto ovvi passi da gigante, migliorando fortemente l’impatto estetico dell’opera ed esaltando lo già straordinario level design apprezzato nell’originale. Riteniamo, comunque, l’opera non pienamente in stile new generation, anzi, piuttosto cross-gen. Per intenderci, RE4 ci regala una cura dei dettagli importante ma ci saremmo aspettati qualcosa in più. È assai probabile che il gioco sia stato concettualmente realizzato immaginando che la maggior parte degli utenti lo avrebbe giocato su console o pc di penultima generazione ma non riteniamo, questa, una scusante. Il gioco, da un punto di vista strettamente grafico è un’occasione mancata di perfezione. Infatti, qui e lì, abbiamo notato texture piuttosto approssimative e qualche bad clipping (rarissimi, c’è da dirlo) alquanto fastidioso. Non abbiamo, insomma, gridato al miracolo.  

Fantastica, invece, la colonna sonora. Le tracce si sposano perfettamente con i momenti del gioco e concorrono a rendere l’esperienza emozionante. Da brividi i rantoli dei nemici, così come le parole di sfida lanciate in spagnolo (anche se leggermente ripetitive). Sentiremo migliaia di volte “Donde estas?” e “Un forastero!”. Una nota di merito al doppiaggio completamente in italiano molto ben fatto.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Horror
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: Si
  • Prezzo59,99€
  • Piattaforme: PlayStation 5, PlayStation 4, Xbox Series X|S, PC
  • Versione provata: PC

Abbiamo affrontato i pericoli di Valdelobos e dintorni per circa 12 ore grazie a un codice fornito dal publisher

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Recensioni

Abbiamo provato Diablo IV in accesso anticipato: capolavoro o flop?

Ad un paio di mesi dall’uscita del gioco completo, abbiamo potuto testare in accesso anticipato il quarto capitolo della celeberrima saga targata Blizzard e, non ve lo nascondiamo, tantissime domande si sono affollate nella nostra mente.

Dopo aver affrontato (con difficoltà) le peripezie del capostipite, stropicciato gli occhi per la meraviglia del secondo e pianto di disperazione per il terzo, i fan della saga non sanno cosa aspettarsi da questo quarto capitolo che, stando alle previsioni e, soprattutto, alle dichiarazioni degli sviluppatori, propone un’avventura a tinte fosche molto immersiva, divertente e accattivante.

Ci sono riusciti? Capiamolo insieme!

Un GDR travestito MMORPG

Dopo aver assistito ad una splendida introduzione in cui possiamo ammirare la spettacolare evocazione del Demone Lilith, ci siamo subito trovati a dover definire la classe del nostro personaggio. In accesso anticipato era possibile scegliere soltanto tra il Barbaro, l’Incantatore e il Tagliagole mentre per il Druido e il Negromante dovremo aspettare un’altra settimana. Scelti poi anche il sesso, i tratti somatici e la struttura fisica del nostro eroe (attraverso un editor che strizza l’occhio a quello di Skyrim) saremo immediatamente catapultati a Sanctuarium, la terra in cui diventeremo leggenda.

La versione che Blizzard ha rilasciato ci ha permesso di non andare oltre il livello 25 e completare il primo atto della storyline principale, facendoci assaporare quello che il gioco completo regalerà ai suoi fruitori.

E girovagando per terre impervie e pericolose, abbiamo potuto incrociare (e aiutare) tantissimi altri utenti che, come noi, stavano provando questa prima versione. Al che ha incominciato a frullarci in testa la domanda che ci ha poi accompagnato per tutta la prova e a cui abbiamo dato una risposta con riserva: che genere è Diablo 4?

A prima vista, infatti, sarebbe facile definirlo come un GDR con visuale isometrica in cui siamo chiamati a completare missioni e far fuori centinaia di migliaia di nemici. Guardando meglio, però, il gioco si presta moltissimo alla cooperazione tra gli utenti collegati in rete e il cui aiuto risulterà fondamentale per superare alcune prove. Non sappiamo bene come tale questione sarà gestita nel late game ma, nella nostra prova, abbiamo potuto cimentarci in un combattimento estremo contro il world boss Ashava e solo la presenza di un certo numero di compagni di battaglia ben skillati ci ha permesso di avere la meglio sul mostro.

Quanto inciderà questa necessità di compagni per superare le missioni? Quanto MMORPG sarà effettivamente Diablo 4? Non ci resta che aspettare per scoprirlo.

Barbaro su Diablo 4

Quando l’anima batte il corpo

Fin dalle prime immagini ci è subito stato chiaro un intento di Blizzard: accantonare le atmosfere fumettose e cartoonesche tanto criticate 10 anni fa e creare un ponte diretto con Diablo 2. Il gioco è cupo, freddo, malinconico e con qualche nota horror. Il villain Lilith risorge, per esempio, grazie a litri e litri di sangue “donati” dai tre malcapitati predoni caduti in una trappola ben orchestrata dalle forze del male. Alcune piccole missioni “resisti alle ondate” prevedono che il nostro eroe sazi con il suo sangue alcuni obelischi mentre massacra i nemici. Molto poco disneyano, senza dubbio.

Insomma, Diablo 4 è un gioco serio, dove è meglio non fidarsi di nessuno e in cui il tema spirituale è ben al centro dell’universo narrativo.

Se, infatti, è vero che abbiamo potuto esplorare soltanto (si fa per dire perché è immensa) la mappa di “Vette Spezzate” nell’Atto 1, l’importanza dell’anima e la supremazia di essa sulla carne sono piuttosto chiare. Tappandoci bene la bocca per non spoilerare nulla, diremo solo questo: alcuni prigionieri che dovremo salvare nelle miniere teatro dei dungeon disseminati un po’ dovunque nella mappa, sono già morti. Sarà la loro anima intrappolata nel mondo dei vivi a dover essere liberata. Più chiaro di così…

L’eterna lotta tra il Bene e il Male

Come detto, il nostro viaggio sarà nelle lande tetre di Sanctuarium e, suo malgrado, il nostro personaggio si troverà invischiato nella faida ancestrale tra l’arcangelo Inarius e il demone Lilith: il Bene contro il Male. Ed è proprio di questa lotta  che noi saremo protagonisti e che creerà l’intreccio principale.

Il nostro compito sarà quello di contrastare l’avanzata di Lilith che, ammaliante, sta facendo proseliti tra la popolazione, facendo in modo che il peccato si faccia strada nelle menti e nell’animo (eccolo di nuovo) delle genti per preparare il terreno all’invasione.

Noi saremo chiamati a ricacciare questo mostro negl’inferi e lo faremo, immaginiamo dagli sviluppi del primo Atto, con l’aiuto di altri personaggi che si avvicenderanno col proseguire dell’avventura, grazie ai quali cresceremo e miglioreremo fino a raggiungere la potenza necessaria per l’attacco finale.

Diablo 4, in effetti, procede sulla falsariga dei classici titoli di genere in cui è consigliabile e giusto esplorare il più possibile la mappa, divertirsi con le missioni secondarie presenti in gran quantità e scoprire tesori e segreti fondamentali per skillare, accumulare oro e materiali. Solo in questo modo il nostro personaggio crescerà, acquisirà fama e potenza. Potremo avvalerci dei mercanti per scambiare o vendere gli oggetti recuperati nelle nostre missioni, dei fabbri per riparare i vari pezzi che compongono la nostra armatura o migliorarli per renderli più performanti e delle fattucchiere per potenziare gli incantesimi.

Sarà necessario superare innumerevoli quest oltre alla main per poter sbloccare oggetti magici di enorme potere fondamentali per battere nemici sempre più difficili.

Tutto già visto, più o meno, ma una cosa vogliamo sottolinearla: le atmosfere, le ambientazioni e il colpo d’occhio di Sanctuarium sono splendide e, lo ripetiamo, danno al gioco quella nota di serietà fondamentale per tenere incollati gli occhi allo schermo.  

Scelgo te, ci combatto così e mi diverto da matti!

Senza girarci intorno, una delle pecche di Diablo 3 fu il sistema di combattimento poco lineare. Possiamo dire che il nuovissimo capitolo della saga va a superare tutto questo: il gioco è divertente, i combattimenti sono coinvolgenti e la visuale isometrica è una manna caduta dal cielo. Uccidere i nemici dà grandi soddisfazioni e le diverse caratteristiche delle classi attualmente selezionabili si adattano al proprio stile di gioco.

Noi, per esempio, amanti dei fulmini, del fuoco e del ghiaccio abbiamo giocato prevalentemente con l’Incantatore ed è stato bello, molto bello! Le magie sono splendide da vedere e abbiamo provato un piacere sadico a bruciare, ghiacciare e fulminare tutto ciò che ci veniva incontro con fare minaccioso. Particolarmente funzionale è la scarica a corto raggio, perfetta per gli scontri in mischia con moltitudini di nemici di classe bassa che vedrete cadere ai vostri piedi in men che non si dica.

Abbiamo provato, comunque, anche la potenza del Barbaro che, molto più scorbutico e fisico, ci permette di utilizzare armi a due mani e doppia arma singola per sferrare attacchi combinati e caricare la modalità Furia oltre ad acquisire un boost di abilità utilizzando questa o quell’arma.

Perché un sistema di combattimento così intuitivo? E’ presto detto: la vocazione action del titolo è preponderante e, forse, questo farà storcere il naso a chi sperava di non dover combattere sempre e comunque. Nel primo Atto che abbiamo potuto giocare, infatti, tutte le quest secondarie sono un search & destroy e ciò le rende un po’ ripetitive ma comunque coinvolgenti.

Una nota a margine per la colonna sonora che abbiamo trovato godibile e mai invasiva. Niente di memorabile, intendiamoci, ma alcune tracce ascoltate in specifici momenti ci sono rimaste impresse e ci hanno favorevolmente colpito. I dialoghi, invece, ancora tutti in inglese con sottotitoli in italiano non ci sono sembrati un granché, anzi, la recitazione lascia molto desiderare. Aspettiamo, perciò, con ansia la versione tricolore.  

Le specifiche tecniche

Dopo un’attenta riflessione, abbiamo deciso di non includere in questa panoramica commenti di natura tecnica sul titolo poiché riteniamo sia giusto attendere l’uscita del gioco completo per fare valutazioni complessive e dare giudizi di valore. Inoltre, abbiamo testato questa versione su Xbox One quindi non abbiamo, per limitazioni oggettive, potuto ammirare tutte le potenzialità grafiche del titolo Blizzard.

Nessuna valutazione, quindi, neanche su alcuni caricamenti eccessivi di texture o evidenti bad clipping che, ora come ora, è fisiologico che ci siano.

Il nostro giudizio

Diablo 4 aspira ad essere un capolavoro e ha tutte le potenzialità per esserlo. Molto faranno gli sviluppi di trama che non ci è dato di conoscere. Abbiamo alcuni dubbi sulla preponderanza o meno del fattore Co-Op sul quale ci riserviamo di capire come sarà gestito dagli sviluppatori. Il titolo Blizzard, comunque, ci ha fatto divertire per quasi 20 ore senza pressoché mai annoiare e ha presentato qualche picco adrenalinico, come il combattimento con Ashava, davvero interessante.

Molto votato all’action, potrebbe non essere perfetto per i giocatori che cercano un’esperienza open world meno frenetica: a Sanctuarium si combatte, sappiatelo!

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Società

Il videogame al femminile: fenomenologia e cultura delle videogiocatrici

Il videogame al femminile è un mondo ancora da sdoganare, soprattutto nelle menti delle generazioni più datate che difficilmente si ricordano delle videogiocatrici. L’immaginario collettivo, infatti, lo lega a doppio filo al genere opposto. Il giocatore (gamer) è un ragazzo, magari un po’ geek, che si diverte davanti ad uno schermo, con il suo bel pad saldo tra le mani e un amico di fianco a sfidarlo all’ultimo sparatutto/picchiaduro/sportgame ecc ecc. Il giocatore, sempre maschio e occhialuto, è dipinto come un personaggio un po’ eccentrico, piuttosto solitario e poco popolare che preferisce più di ogni altra cosa stiparsi nella sua cameretta. “Allergico” al sole, è spesso immaginato pallido e poco amante dell’aria aperta.

Logo di Stranger Things

Lo Sci-fi e “l’invasione” rosa

Per certi versi, la serie Sci-fi e fenomeno mondiale “Stranger Things” parte proprio da quello che è il mondo  classico di un gruppo di giovani nerd arrivando a capovolgere, stagione dopo stagione, l’intera visione. Proseguendo nella storia, infatti, i personaggi femminili “invadono” sempre di più l’universo ludico dei protagonisti, fino ad avere ruoli chiave proprio quando bisogna giocare. Impossibile non pensare alla genialità di Erica, sorella di Lucas, che si dimostra una formidabile giocatrice di “Dungeons & Dragons”.

Ormai il gioco non fa distinzioni di genere e, infatti, stando ai numeri, la quota rosa presente ai tornei e-sports sparsi nel mondo e presente su twitch a streammare è in continua e costante crescita, a dimostrazione di quanto la credenza popolare sia profondamente lontana dalla realtà e di come il mondo stia profondamente cambiando.

Il professionismo si tinge sempre più di rosa

Il videogame come sfogo unisex

Nell’era digitale, infatti, il gioco ha assunto una veste ancora più chiara di valvola di sfogo, in grado di attirare sempre più ragazze appassionate e pronte a cimentarsi in tutti i generi di videogame. Basti pensare che, ormai, secondo stime internazionali, le videogiocatrici hanno raggiunto il 47% del totale. Stiamo parlando, in pratica, della metà dei fruitori mondiali di prodotti videoludici.

Certo, lo ammettiamo, chi scrive sa perfettamente che, in svariati casi, ben noti a chi bazzica costantemente rete e social, le videogiocatrici sono delle influencer travestite da gamer, che non posseggono chissà quali capacità e che utilizzano il gioco come un mezzo per conquistare fan e popolarità. Giocano distrattamente ad un titolo, senza alcun tipo di destrezza e, molto spesso, scelgono mise ultrasexy che lasciano poco spazio alla fantasia. Ma qui si parla di altro, infatti non ci soffermeremo a commentarle ulteriormente né a citarle anche perché, per chi scrive, il gioco assume uno status di sacralità che non può essere banalizzato o strumentalizzato per altri scopi meno nobili.

Schermata di Animal Crossing

Filoni narrativi e scelte di genere

Nel mondo, però, di videogiocatrici incredibilmente dotate ce ne sono tante. Che hanno messo da parte le loro professioni oppure lasciato gli studi per dedicarsi anima e corpo alla loro (remunerativa) passione.

E ciò che balza all’occhio è che, la stragrande maggioranza di coloro che hanno avuto e continuano ad avere grandissimo successo, non gioca ai cosiddetti “giochi per ragazze”.

E, qui, prima di proseguire, vorrei aprire una piccola parentesi al riguardo. Le case produttrici di videogame, attente ai big data e perfettamente consapevoli di quanto l’universo di gioco sia ormai unisex, stanno sempre più abbandonando il filone dedicato alle ragazze, scegliendo sempre di meno di sviluppare e investire su prodotti che dovrebbero strizzare l’occhio soprattutto all’universo femminile. Certo, dubito che il fortunatissimo filone degli “Animal Crossing” possa esaurirsi a breve sulla scorta di quanto detto, ma che i nuovi prodotti dedicati solo alle ragazze siano sempre meno è un dato incontrovertibile. Senza contare che quel “per ragazze”, dal mio punto di vista, si collega ad un modo troppo antico di concepire il mondo e gli esseri umani.  

Più che altro, e anche questo è evidente per un occhio attento, l’industria dei videogame sta cercando di attirare ancora più ragazze mitigando alcuni aspetti che hanno storicamente caratterizzato i giochi: trame essenzialmente maschiliste e personaggi femminili iper sessualizzati. Ed ecco che, come per magia, le ragazze super prosperose hanno lasciato spazio a figure femminili ben caratterizzate e fisicamente normali (Ellie di “The last of Us”) e le trame hanno lentamente ma inesorabilmente mitigato la contrapposizione tra la forza maschile e la “fragilità” femminile. A tal proposito mi viene da citare, tra gli altri, il recentissimo “Forspoken” il controverso titolo della Square Enix dove il “girl power”, forse, è anche troppo accentuato. Ma potremmo ricordare anche il poco più datato Horizon – Forbidden West, in cui la protagonista Aloy non ha nulla da invidiare ad un cacciatore di sesso maschile.

Bonnie Ross

Chi sono le videogiocatrici più famose al mondo?

Insomma, il mondo dei videogame si è ormai tinto fortemente di rosa, se ancora così si può dire per riferirsi al genere femminile, e di questo siamo tutti profondamente contenti, soprattutto perché tale cambiamento ha trasformato e modificato anche la composizione dei vari gruppi di sviluppatori nelle cui fila, sempre più spesso, si annoverano esperte in grado di dare un tocco bipartisan di cui si sentiva francamente il bisogno.

Per fare un nome, pensiamo a Bonnie Ross, gamer dal 1994, ma soprattutto fondatrice della “343 Industries” che gestisce il franchise “Halo” e che collabora attivamente con Microsoft nella realizzazione di molti titoli video ludici. Il primo lavoro su cui si è impegnata attivamente è stato “Halo 4”, gioco del quale ha supervisionato trama, dinamiche e merchandising. Il suo obiettivo è quello di promuovere la diversità all’interno dell’universo video ludico.

Oppure, sempre sul tema di donne che influenzano direttamente il mondo dei videogioco, potremmo citare Annah Rutherford, gamer professionista di grandissimo talento che intrattiene milioni di visitatori sul proprio canale twitch. Le sue opinioni sui videogame in uscita sono prese estremamente in considerazione e, spesso, danno uno slancio positivo al titolo oppure, alla peggio, contribuiscono al suo fallimento.

Nel panorama mondiale del gaming, però, ci sono anche moltissime donne che, a differenza delle sopracitate, hanno dimostrato di possedere un talento unico per determinati giochi e che hanno deciso di trasformare la loro passione in una vera propria professione. Sponsorizzate da brand multimiliardari e membri di squadre famose nel mondo, queste videogiocatrici sono ormai vere e proprie icone pop, eminenze degli e-sport venerate in tutto il mondo.

Conosciamone qualcuna.

Li Xiaomeng è una e-sport gamer che ha vinto nel 2019 il torneo internazionale del gioco di carte online targato Blizzard, Heartstone, aggiudicandosi un sostanzioso premio in denaro pari a circa 200mila dollari. La 31enne cinese, conosciuta con il nickname Liooon, pur dedicandosi per molte ore al giorno alla sua passione, ha trovato il tempo per laurearsi in legge, riuscendo a conciliare lavoro e studio egregiamente. Le sue partite di Heartstone sono seguite da milioni di fan sparsi in tutto il mondo e le sue strategie sono spesso copiate sia per la composizioni di mazzi da battaglia, sia nella sequenza di gioco delle varie carte. 

Altro nome ultrafamoso nel mondo del gaming al femminile è quello di Sascha Hostyn, nickname Scarlett, che ha vinto oltre 300mila dollari dominando diversi tornei di Starcraft 2 in giro per il mondo. Definita “l’ammazza coreani” o “la kryptonite dei coreani” per la sua capacità di sbaragliare i migliori giocatori di Starcraft 2 che, appunto, sono per la maggior parte coreani, ha riscritto la storia del mitico gestionale in tempo reale, riuscendo a laurearsi campionessa del mondo. La Hostyn, infatti, ha vinto nel 2018 il prestigioso Intel Extreme Master, torneo dei tornei di Starcraft 2 che vede la partecipazioni dei migliori giocatori provenienti da tutto il mondo. Da allora, nessun altro esponente del genere femminile ha vinto alcun torneo ufficiale internazionale. Per inciso, e scusate la digressione, dal 2020 al 2022, per ben 3 edizioni consecutive, l’italiano Riccardo Romiti, in arte Raynor, ha raggiunto lo scontro finale, riuscendo nell’impresa di laurearsi campione del mondo di Starcraft 2 nell’edizione 2021 e perdendo nel 2022 soltanto alla settima mappa contro lo storico rivale Joona Sotala, in arte Serral.

Conclusione

Il mondo del videogame, insomma, è stato finalmente conquistato anche dalle donne che, a colpi di talento e buone idee, stanno contribuendo a cambiamenti epocali e noi siamo qui, spettatori interessati, a vedere questo come potrà (o non potrà) migliorare le cose. Non resta che aspettare e continuare a giocare, magari in compagnia della nostra dolce metà.   

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Editoriali

Pixel art e nostalgia: il nuovo millennio riscopre il passato

Un tempo fu “cathode-ray tube amusement device”: questo è il nome del primo gioco elettronico brevettato. Creato da Goldsmith e Mann e distribuito nel lontanissimo 1947, rappresenta il primo e ancestrale tentativo di utilizzare un sistema computerizzato (o calcolatore, per usare un termine opportunamente desueto) a scopo puramente ludico.

Il concetto alla base del gioco è molto semplice: un proiettile sparato dal bordo dello schermo deve colpire un bersaglio situato al lato opposto, sta al giocatore modificarne la traiettoria affinché arrivi a segno.

Da quel tempo post secondo conflitto mondiale (il tema bellico del “cathode-ray tube amusement device” non è certo un caso) il mondo video ludico si è espanso a dismisura, esplodendo dai primi anni 80 dello scorso secolo, fino raggiungere i confini del fotorealismo. Oggi contiamo milioni di videogame e decine di generi e sottogeneri che, negli anni, hanno preso il sopravvento a turno, tornando in auge per poi cadere nel dimenticatoio e riprendere quota.

In questa sede, piuttosto che analizzare i vari generi, affronteremo la questione di natura tecnica legata alla programmazione del videogame.

Cathode-ray tube amusement device

Stile rétro

Innanzitutto, c’è da fare una distinzione preliminare:

  • i giochi sviluppati in un certo modo a causa di limitazioni tecniche legate all’epoca della loro realizzazione;
  • i titoli più recenti sviluppati proprio in quel modo per le scelte stilistiche dei programmatori e degli artisti grafici;

Al primo gruppo appartengono i giochi del passato realizzati con quella che a posteriori è stata definita “Pixel Art”, a causa della scarsa risoluzione dei monitor. Al secondo gruppo appartengono i videogame sviluppati in ambienti evoluti e che appartengono ad un determinato stile per una precisa scelta degli sviluppatori e non a causa di limitazioni tecniche di sorta.

Monkey Island 2

Pixel Art

Ancora una volta restringiamo il campo ed andiamo ad occuparci del primo gruppo e dell’impatto straordinario (e involontario) che la Pixel Art ha avuto su tutto il mondo videoludico presente, passato e, forse, futuro.

Già, perché i videogame realizzati con i pixel ben in vista e in barba al fotorealismo e alla virtual reality, hanno fatto breccia nel cuore di appassionati di ogni età che, molto spesso, continuano a preferirli rispetto al melting pot di generi e tecnologie futuristiche tanto care ai best seller attuali.

Sia chiaro, le nuove generazioni di videogiocatori, quelle con il pad della playstation in mano (wireless e retroilluminato) digeriscono malvolentieri tale discorso, anzi, si aprono facilmente a smorfie se il viso del loro calciatore preferito non è stato riprodotto alla perfezione nell’ultima edizione di Fifa o del fu Pes. Ed è giusto che sia così: i titoli più venduti, più lavorati e più premiati hanno alla base motori grafici di sviluppo così avanzati che non avrebbe senso non sfruttare appieno.

Eppure, qualcosa sta cambiando…

Infernax

Ready Player One

Personalmente faccio partire questo nuovo filone filosofico/nerd/nostalgico dall’uscita, nel 2018, del film di Steven Spielberg “Ready Player One”, adattamento cinematografico del romanzo di Ernest Cline “Player One”. La pellicola ci trasporta in un tragico 2045, in cui la terra è allo stremo a causa di sovrappopolazione e inquinamento. Le città sono state inglobate l’una nell’altra trasformandosi in enormi baraccopoli.

L’unico modo che gli esseri umani hanno di evadere da una realtà grama è rappresentato da OASIS, un mondo virtuale straordinariamente complesso nel quale si può letteralmente vivere una seconda vita. OASIS non ha limiti proprio grazie alla tecnologia futuristica con cui è stato sviluppato e programmato. Tralasciando i risvolti di trama, andrò subito al punto che mi ha fatto, poi, mettere alla ricerca di altri indizi sparsi qui e lì negli anni: per salvare quel mondo virtuale straordinario, c’è bisogno di essere un vero appassionato di videogame vintage. Un nerd, se mi lasciate passare il termine.

Ready Player One

L’unico modo per salvare OASIS dalla distruzione è giocare ad “Adventure”, titolo rilasciato per Atari 2600 nel 1979, e che si impose come primo videogame di azione della storia, nonché il primo gioco in cui il proprio sviluppatore avesse inserito un easter egg (in termini video ludici, una sorpresa di vario genere che si può scoprire soltanto visitando un determinato luogo difficile da raggiungere e effettuando una serie precisa di azioni).

Il messaggio è molto chiaro: per superare la prova il “gioco non deve essere terminato ma soltanto giocato”. Insomma, piuttosto che godere delle meravigliose ed infinite potenzialità di OASIS, il segreto era divertirsi a giocare con un gioco che, visivamente, non è altro che un ammasso di pixel.

Un violentissimo ritorno al passato, un rimando alla cultura e alla tecnica che fu e che, dal mio punto di vista, cela un sottotesto ben più profondo del semplice gusto per i retro-game: ritornare al passato non significa essere nostalgici ma significa poter essere molto più felici senza essere puntualmente alla ricerca spasmodica del nuovo e del diverso.

Potrei fare una digressione entrando nel merito del concetto filosofico di “Decrescita Felice” teorizzato dal pensatore francese Serge Latouche, ma non è questa la sede.

Ready Player One

Videogiochi in Pixel Art

Da allora, comunque, da quel 2018, ho potuto notare tantissimi e potenti tentativi di celebrare il tempo che fu senza entrare nel merito del filone della Pixel Art che ritengo essere un esercizio di stile apprezzabilissimo, capace di sfornare titoli splendidi e capaci di creare franchise miliardari (pensate per un attimo a Minecraft) ma che non incarna il concetto del bello perché volutamente datato che cerco io.

Alt 254

Scovai un indizio evidente, invece, nel 2020, all’uscita dell’acclamato “Alt 254”, gioco sviluppato dalla Rename Studio che narra le vicissitudini di un unico pixel nero, all’interno di un mondo, appunto pixeloso.

Avete capito bene: nel 2020, il protagonista di un gioco è un unico pixel che si muove in un mondo fatto di pixel. E senza voler strizzare l’occhio ai giochi del passato, ma proprio volendo entrare in quella famiglia per restarci come membro accreditato.

Da lì una serie di altri tentativi più o meno evidenti di ritorno al passato.

Alt 254

Saga di Ori

E qui mi piace citare addirittura il secondo Ori “The Will of the Wisps” un titolo che mi ha aperto un mondo di ricordi, più di “The Blind Forest”, perché ho visto un richiamo ancora più potente e voluto al mitico Metroid.

Ho rivisto tantissimo Samus Aran nei volteggi dello spiritello della foresta Ori e ho rivisto ancora di più le meccaniche di gioco di Ori fare “occhiolino occhiolino gomito gomito” a quelle del gioco del 1986 e, perché no, un richiamo qui e lì alle atmosfere del pianeta Zebes.

La celeberrima scrittrice di gialli Agatha Christie diceva sempre una cosa: “tre indizi fanno una prova”.

Ori and The Will of the Wisps

Clash Royale

Personalmente però, pur essendo in possesso proprio dei tre indizi che vi ho poc’anzi citato, ho voluto aspettare ancora un po’ e trovarne un quarto che potesse avvalorare ancora di più la mia teoria.

Il fortunato evento è accaduto esattamente un mese fa, quando, SuperCell, casa di produzione del franchise “Clash”, si apprestava a lanciare la nuova stagione di “Clash Royale”, famosissimo e pluripremiato Android e iOS game al quale giocano ogni giorni milioni di utenti in tutto il mondo.

Il video di presentazione fu rilasciato, come al solito, sul canale ufficiale YouTube del gioco e mostrava uno dei personaggi storici, un barbaro, venire risucchiato da una sorta di buco nero che scopriamo poi essere un tunnel temporale che lo trasporta nel passato dove, udite udite, tutto, compreso il barbaro, sono un ammasso di pixel. Il nome della stagione? “Ritorno al passato”. Tutta la stagione, nelle sue sfide a tempo e nei suoi minigiochi, è stata un rimando, molto ben fatto, a “Ritorno al Futuro”, al primo “Mad Max” e ai giochi anni ’80.

Clash Royale: Clash From The Past

Conclusione

Il mondo dei videogame, dunque, continua a sperimentare e a vivere la sua naturale evoluzione tecnica e stilistica (lasciate però che un vecchietto come me possa avere un colpo a cuore nel vedere la grafica del tanto atteso “Return to Monkey Island”) ma è indubbio che ci sia una ricerca del passato, di quelle atmosfere e di quei “profumi” tipici del tempo che fu.

Non un nostalgico tentativo, però, di insegnare ai giovani quanto fossero belli gli anni 70,80 e 90 dello scorso secolo ma una vera e propria ripresa di quel mood che può, tranquillamente, coesistere con la tecnologia di ultima generazione.

E di questo, ammettiamolo, siamo tutti molto felici…