Il franchise Yu-Gi-Oh! ha una delle storie più particolari e confusionarie che si siano mai sentite, e se oggi ne stiamo ancora parlando, il merito va soprattutto a Konami che ha permesso al gioco di carte di sopravvivere alla prova del tempo con estremo successo. Stiamo parlando del terzo gioco di carte più famoso e giocato di sempre dietro solo a Pokémon GCC e Magic: l’Adunanza.
Il successo europeo di Yu-Gi-Oh! GCC nasce principalmente dall’anime, dalla semplicità del gioco e da creature illustri come le divinità egizie, che sono i protagonisti dei due nuovi mazzi strutturati: Obelisk il Tormentatore e Slifer il Drago del cielo, che troveranno sicuramente il plauso degli amanti della serie televisiva, ma poco entusiasmo da parte dei giocatori del competitivo.
Bestiario divino
Buona parte di chi è nato negli anni ’90 ricorderà sicuramente l’infinita sfida tra Drago Bianco Occhi Blu e Drago Nero Occhi Rossi, ma i veri intenditori troveranno maggior gusto nel provare deck con protagonisti due delle tre divinità egizie che hanno reso celebre il cartone animato. Non sappiamo perché la terza divinità, il Drago Alato di Ra, non sia stato preso in considerazione, ma riteniamo verosimile che la sua larga presenza nel recente passato del gioco di carte collezionabile non richiedeva ulteriori deck precostruiti.
Deck Divinità Egizie: Slifer il Drago del Cielo
Il mazzo di Slifer il Drago del Cielo si presenta con una lista contenente. non casualmente, le carte più rappresentative del personaggio di Yugi Muto, come la trappola Forza Riflessa e la magia Spada Rivelatrice. Il deck si basa su una delle regole più classiche del gioco: l’evocazione per tributo. L’idea generale è sacrificare tre creature per evocare la potente divinità egizia il prima possibile, che guadagnerà 1000 di attacco e difesa per ogni carta in mano, mentre i mostri evocati dagli avversari perderanno 2000 attacco, e saranno eventualmente distrutti, se la loro forza raggiungere lo zero.
La presenza in campo di Slifer permette di usare la magia non annullabile Attacco Forza del Tuono che distrugge tutte le creature avversarie, mentre in caso di morte della divinità, essa può essere recuperata dal cimitero con la trappola Divinità-Bestia Finale.
Deck Divinità Egizie: Obelisk il Tormentatore
Obelisk è la definizione dell’archetipo control riunita in un’unica carta. Questa divinità egizia non è targettabile da nessun effetto e pagando un sacrificio di due tributi pulisce la board dai mostri dell’avversario. Esattamente come il mazzo precedente, anche il deck di Obelisk il Tormentatore contiene una carta utilizzabile solo quando la divinità è presente nel campo di battaglia: Pugno del Fato. Questa magia annulla gli effetti di un mostro nemico e, se giocata nella Main Phase, distrugge anche tutte le magie e trappole dell’avversario. La lista contiene anche Evoluzione Divina, che aumenta di 1000 attacco e difesa di una Divinità-Bestia.
Fusione
I due mazzi applicano la stessa logica di utilizzo basata sul sacrificio di particolari mostri a basso costo (token) per evocare quanto prima le due divinità egizie, identificate nel gioco come Divinità-Bestia. Questa parola è particolarmente interessante se pensiamo di acquistare entrambi i mazzi e fonderli in un unico, cosa particolarmente facile in Yu-Gi-Oh! GCC, che non possiede alcun concetto che limiti il deck-building del giocatore. Infatti, potremmo avere un unico mazzo di almeno 40 carte contenenti Slifer il Drago del Cielo, Obelisk il Tormentatore e le carte che si attivano sulle divinità-bestia: Evoluzione Divina e Divinità-Bestia Finale.In più, potremmo aggiungere in doppia copia, perché presente su entrambe le liste, la magia Incrocio di Anime, che permette di usare le creature dell’avversario per evocare le proprie Divinità-Bestia.
Incompetitiva nostaglia
I due mazzi delle divinità egizie hanno uno scopo ben preciso nella strategia di marketing di Konami: attirare i vecchi amanti dell’anime all’interno di un ventennale gioco di carte. Del resto, è la stessa strategia applicata dal cartone animato sul manga.
Chi vi scrive ricorda la profonda delusione di aver letto il fumetto di Yu-Gi-Oh! solamente dopo aver amato la serie televisiva. In particolare, il manga racconta del (sadico) protagonista Yugi Muto, che sfrutta antiche forze egizie per punire persone nel mondo reale sfruttando giochi di vario genere. Tra questi, a un certo punto e solo per una minima parte, c’è anche il gioco di carte che poi diventerà la base e il motivo del successo della serie televisiva.
Allo stesso modo, Konami ha deciso di prendere due delle creature più influenti del franchise per invogliare gli appassionati a provare il gioco di carte collezionabili. Un’idea decisamente azzeccata, ma che potrebbe avere anche degli effetti collaterali, perché i due mazzi sono semplicemente poco competitivi in generale e decisamente non giocabili in una vera partita di Yu-Gi-Oh!, che si basa ormai su un meta decisamente dirompente.
Conclusione
Yu-Gi-Oh! GCC ha solo tre tipi di carte: creatura, magia e trappola che possono essere mischiate come si preferisce (tranne rari casi) e le uniche regole sono sul limite minimo (40) e massimo (60) di carte per deck. Questo implica un prezzo delle carte generalmente più alto della media e creature con poteri distruttivi, che rendono obsolete le strategie dei due nuovi mazzi structure. In altre parole, i deck divinità egizie di Yu-Gi-Oh! GCC possono interessare solamente le partite for fun di tutti quei giocatori che combineranno i due mazzi e potenzieranno il deck con carte che sfruttino l’evocazione per tributi e le divinità-bestia, magari includendo anche Drago Alato di Ra.
Purtroppo, queste meccaniche oggi non hanno alcuna possibilità di sopravvivere in competitivo e ci auguriamo che Konami possa prendere coscienza che quello che veramente volevamo da questi deck era riesumare le divinità egizia con carte di supporto molto più forti e competitive anche nei grandi match, perché un torneo mondiale con Obelisk il Tormentatore e Slifer il Drago del Cielo avrebbe avuto tutto un altro gusto.
Dettagli e Modus Operandi
Ho riprodotto il deck sul gioco digitale svolgendo decine di partite e ho insegnato il gioco “in real” grazie al materiale gentilmente inviato dal publisher.
Baldur’s Gate: Dark Alliance è stato riproposto in una versione praticamente uguale all’hack and slash di venti anni fa. Nonostante a tratti sia ancora divertente, il titolo è un’opera storica ormai fuori dai nostri tempi che sarà apprezzata solamente dai nostalgici o da chi vuole studiare il fenomeno dei souls-like di cui Dark Alliance è un vero precursore.
5.5
Gli ultimi dodici mesi sono stati un gran periodo per gli amanti dell’iconica serie Baldur’s Gate. L’avvento del terzo capitolo, l’uscita di Dungeons & Dragons Dark Alliance (Wizards of The Coast) e il ventesimo anniversario dello spin-off stesso sono tutte motivazioni valide per vedere una rimasterizzazione di Baldur’s Gate: Dark Alliance di Interplay Entertainment.
Se questi tre scenari vi sembrano dettati dalla voglia di cavalcare l’onda sperando in un ritorno economico a costo zero, purtroppo devo confermarvi che avete ragione. Prima di giungere alla conclusione però vorrei che mi seguiste nella curiosa avventura di valutare un ottimo gioco del 2001 riproposto venti anni dopo senza alcuna rilevante novità e capire insieme se è ancora divertente.
Reami Perduti
Baldur’s Gate: Dark Alliance è lo spin-off della leggendaria serie basata su Forgotten Realms, uno dei più famosi universi di Dungeons & Dragons, e si regge sulle regole della versione 3.0 del gioco da tavolo, che non tutti hanno avuto modo di giocare. Infatti, l’ottimo hack and slash di Snowblind Studios passò un po’ in sordina probabilmente, perché sviluppato per le neonate console di sesta generazione, tagliando quindi fuori tutti i giocatori PC che avevano amato i capitoli principali.
Oggi la trama è quanto di più semplice si possa immaginare, mentre per l’epoca si trattava di una costruzione tipica usata anche da videogiochi che avevano definito uno standard. Il titolo si dirama in tre atti in cui nel primo vivremo il piacere di viaggiare attraverso le fogne di Baldur’s Gate e faremo la conoscenza della locanda più tranquilla del mondo. Chiunque abbia giocato ai capitoli originali, ricorderà il senso di confusione della città, completamente assente in questo titolo e in cui i personaggi non giocanti con cui poter dialogare saranno circa una decina in tutto il gioco. Pochi anche per il genere, se pensiamo che Diablo 2 uscì l’anno precedente (giugno 2000).
Fortunatamente, ogni atto contiene più di una location e una storia che si espande fino a un universo parallelo. Passeremo dunque solamente nel primo atto per fogne, covi di ladri e antiche catacombe che celano un enorme e oscuro potere che abbiamo deciso di combattere in solitaria, anche perché è stata rimossa la modalità cooperativa presente nella versione originale. Inoltre, chi ha amato la serie originale apprezzerà il bestiario degli atti successivi zeppi di gnoll, troll, ma anche di creature maggiormente mostruose come, solo per citarne alcune, golem, gargoyle e addirittura elementali quando saremo catapultati in un altro Piano.
In altre parole, la lore di D&D è stata ampiamente usata in Dark Alliance e risulta abbastanza variegata ancora nel 2021, anche se i dungeon risulteranno già dal secondo atto eccessivamente ripetitivi sia in termini di diversificazione dei dettagli scenici sia per tipologia di mostri al proprio interno.
Prepare to die
Baldur’s Gate Dark Alliance ha tre difficoltà, di cui quella normale è non a caso già particolarmente tosta. Infatti, anche se i giochi di quel periodo avevano un’elevata difficoltà, il gioco soffre una scarsa longevità, appena otto ore, che può aumentare notevolmente in caso di morti ripetute. Di fatto, questo rende l’opera non adatta a tutti i videogiocatori del 2021, che troveranno in Dark Alliance un vero e proprio precursore di Dark Souls, sia in termini di difficoltà che nella scelta del gameplay.
Non so quanto questa sia stata una scelta ponderata, poiché l’esperienza di gioco cambia completamente in base alla classe scelta. Kromlech (guerriero) e Vahn (arciere) avranno sicuramente vita più facile della stregona Adrianna che paradossalmente dovrà curare le statistiche di destrezza e costituzione se vorrà sopravvivere nelle fasi finali del gioco. In particolare, con questa classe basterà anche un solo colpo per essere messi KO e sarà fondamentale sia curare i riflessi per passare dall’attacco (con il pulsante X) alla parata (R2) sia il corretto posizionamento, perché un attacco alle spalle non sarà protetto dallo scudo. Questo significa che il pull dei nemici sarà fondamentale e non ci saranno mai mostri facilmente affrontabili in uno-contro-molti in stile Diablo.
Il gameplay ha fatto la fortuna del titolo venti anni fa, ma non può sostenere il confronto con lo standard moderno. Di fatto, Baldur’s Gate Dark Alliance vi costringe a giocare da guerriero anche con un mago e vi toccherà passare svariate ore a ripetere sempre lo stesso stile di combattimento. Infatti, potrete scegliere di parare e attaccare seguendo tempi e hit-box del nemico oppure correre all’indietro e attaccare dalla distanza con frecce o magie, ma nulla di più.
Da sottolineare, esattamente come i più moderni souls-like, Baldur’s Gate Dark Alliance è difficile, ma mai sleale. Il titolo si basa sulle solide regole di DnD che vengono sempre rispettate, anche quando l’intelligenza artificiale dei nemici latita. In questo caso, potremmo essere noi a sfruttare i vantaggi degli scenari e nei momenti critici potremmo (tranne rare eccezioni) ritornare istantaneamente nel nostro rifugio dove poter acquistare armi, armature e tante, troppe pozioni di cura o mana.
L’originale, purtroppo
Il punto dolente di questa nuova versione è proprio l’assenza di rimasterizzazione. Questo Baldur’s Gate: Dark Alliance non ha alcuna novità nemmeno in termini grafici. L’opera di Black Isle Studios è tecnicamente vetusta con una qualità video che non ha alcuna miglioria palpabile e un audio a tratti fastidioso. Un gioco che oggi potrebbe essere appena sufficiente per i nostalgici della serie, ma che si ripropone al prezzo fuori mercato di 29,99 euro, che poteva trovare senso solamente se si fosse deciso di includere anche il sequel.
La sensazione generale è che Interplay Entertainment abbia scelto di riproporre il suo spin-off solo per sfruttare la risonanza mediatica che sta avendo il franchise in questo periodo e per rivendicare la paternità dell’opera dopo la decisione di Wizards of The Coast di produrre un nuovo gioco con lo stesso nome di uno spin-off di alta qualità per il suo tempo, ma che oggi vive di soli ricordi.
In un mondo corrotto dal potere e dalla sete di sangue, scegliere i propri nemici è un lusso che a volte non ci si può permettere. Una trama già sdoganata con Il trono di spade di George R. R. Martin prende vita in forma videoludica in The Last Spell, il nuovo Tactical defense RPG di Ishtar Games.
La fine dell’umanità
La magia ha reso potenti molti regni, ma i danni del suo abuso ha causato una tragedia che va ben oltre la fine di innumerevoli vite umane. Un eccesso di potere magico ha aperto un portale demoniaco che ha trasformato il mondo in un campo di battaglia già visto in alcuni giochi da tavolo come Zombicide. Per questo, i regni umani hanno decretato una pace per sconfiggere i mostri notturni che infestano le città. Adesso l’unica cosa che conta è sopravvivere all’orrore e per farlo bisogna eliminare completamente la magia dal mondo che alimenta anche questo tumore inarrestabile. Un modo c’è ed è proprio un incantesimo che i maghi hanno chiamato The Last Spell.
L’arte del comandare
La desolante trama di The Last Spell è la giustificazione che Devolver Digital pone come base per il suo nuovo gioco di ruolo con elementi roguelite decisamente interessanti e che ricordano altri recenti titoli del publisher come Loop Hero.
Nell’opera di The Arcade Crew impersoneremo un comandante che dovrà guadagnare del tempo prezioso (sotto forma di turni) che i maghi useranno per lanciare l’ultimo incantesimo in un ciclo giorno e notte. Durante le ore diurne, il gioco è composto da due fasi. La fase di produzione consiste nello spendere denaro e materiali per costruire nuovi edifici, migliorare quelli già esistenti, assegnare lavoratori alle costruzioni e spendere punti su abilità e perk dei nostri eroi. La seconda fase invece trasforma il titolo in un vero e proprio tower defense tattico in cui costruiremo le difese per l’ondata notturna. Infatti, durante la notte impartiremo ordini ai nostri eroi (inizialmente tre o quattro in base al livello di difficoltà scelto) che difenderanno i maghi dall’ondata di mostri, magari non lasciandoci le penne.
Consolida e attendi
La fase di notturna è indubbiamente la parte più divertente e carica di tensione, perché è durante le tenebre che il gioco saprà dimostrarsi impegnativo. Infatti, i danni sferrati dai nemici ci obbligano a studiare il campo di battaglia, i nemici e ovviamente le caratteristiche dei nostri personaggi. All’interno di una griglia tattica in pieno stile Intelligent Systems (ma con visuale isometrica), gli eroi infliggeranno danni importanti, molto spesso ad area e decisamente spettacolari grazie a (quattro) abilità uniche. Per questo motivo, la maggior parte del tempo sarà speso nel curare la fase difensiva della nostra strategia, anche perché i personaggi recuperano solo una parte della loro vita e mana.
Questa scelta voluta dagli sviluppatori farà felici i giocatori appassionati del genere, ma rende il titolo decisamente poco fruibile per i novizi che rischieranno di morire ripetutamente prima di comprendere le meccaniche base del titolo, che li porterà facilmente verso la frustrazione. D’altro canto, i più smaliziati avranno almeno una ventina d’ore di divertimento che si tramuterà pian piano in noia in questa fase di accesso anticipato. Infatti, una volta comprese le statistiche, le abilità e le difese più forti, il gioco risulta un po’ troppo ripetitivo.
Imparare a costo di morire
Come già abbiamo gustato in altri titoli con una sistema simile come Hades, la morte è parte integrante dell’esperienza videoludica. Perdere in The Last Spell significa fare la conoscenza della presunta benevolenza di entità divine che forniranno nuovi upgrade permanenti che ci renderanno più forti.
Questo significa che i giocatori che poco apprezzano l’idea di perdere e ripetere la stessa sequenza, difficilmente potranno beneficiare del buono lavoro fatto fino a questo momento da Ishtar Games. Per tutti gli altri, The Last Spell è un gioco dall’ottimo potenziale che merita l’attenzione dei giocatori PC a cui però si chiede, nella sua versione definitiva, maggiore varietà durante la fase centrale del gioco.
Pixel di qualità
Venti euro è un prezzo decisamente concorrenziale (17,99 euro nel momento in cui scriviamo) per un gioco in accesso anticipato che ha la qualità tecnica di The Last Spell. Infatti, raramente ci siamo imbattuti in un titolo che in una versione così primordiale possegga un qualità audio e soprattutto grafica praticamente già ultimata. La pixel art del gioco è bella, ma soprattutto pulita come la sua interfaccia grafica. Nonostante le tante statistiche da visualizzare, il gioco è decisamente intuitivo e ci fa pensare che la maggior parte del tempo che separa questo indie game dall’uscita ufficiale sarà speso dagli sviluppatori per aggiungere nuovi contenuti che possano rendere l’esperienza maggiormente variegata.
Pro
Contro
Pixel art bella e interfaccia pulita già in accesso anticipato
Edizione, rieditata nella parte grafica, di un classico, ancora apprezzabile ed attuale. Le dinamiche di gioco non sono invecchiate male, nonostante il prezzo abbastanza elevato, l’assenza di innovazioni nel gameplay e nei contenuti giocabili, non permettono di considerarlo un must-have come un tempo.
8
La saga di Mass Effect è conosciuta dai giocatori di tutto il mondo, grazie alla capacità avuta di rinnovare il genere GDR, senza snaturarlo. È stato, soprattutto per la mia generazione, uno dei giochi più influenti del genere, grazie anche alla casa che lo ha sviluppato, Bioware.
In quel periodo, grazie anche alla saga di Dragon Age, è stata una delle più importanti software house per i videogiocatori. Il suo ruolo nello sviluppo dei GDR moderni è innegabile, grazie ai dialoghi ed alle storie complesse architettate ed alla profondità delle trame offerte.
Tutto ciò dovrebbe far capire come le aspettative per questa riedizione di una pietra miliare del genere, per un appassionato dei GDR, siano altissime. Considerando le alterne fortune dei Remastered, insieme alla pesante eredità di questa saga, mi sono cimentato nella scoperta del risultato finale ottenuto.
Cercherò di spiegare dunque quello che ho provato, valutando come si raffronta la saga con i tempi ed i videogiocatori moderni.
Una grande trama non invecchia mai
La trama è il punto forte del gioco che non ha risentito del trascorrere degli anni. In tutti i capitoli della saga, senza eccezioni, si è coinvolti dall’inizio alla fine.
Uno degli elementi di spicco è dato dalla possibilità di poter importare le partite svolte da un capitolo all’altro, con importanti conseguenze nello svolgimento della storia e nel come siamo percepiti nel mondo circostante, sia da alleati e sia dai nemici. Ad oggi non è ancora comune trovare titoli che offrono questa opportunità, data la difficoltà nel garantire una storia uniforme, completa e coerente fra i diversi capitoli.
Questo elemento può annoverarsi dunque fra i “sempreverdi” ed attuali. Inoltre non c’è dubbio sulla capacità di Bioware nel garantire storie ricche, complesse e piene di colpi di scena, capaci di coinvolgere emotivamente il giocatore con ogni singolo membro della propria squadra. Fra i capitoli infatti si nota un crescendo di importanza delle relazioni con i compagni di squadra, cruciali addirittura in alcuni momenti per lo sviluppo futuro della trama.
Non mancano infatti le scaramucce ed i diverbi all’interno del nostro team, che possono culminare in scontri con risvolti letali. A causa di una guerra interstellare dei secoli precedenti ad esempio, le razze del Consiglio ed i Krogan non vanno assolutamente d’accordo. Questo in particolare ci porrà di fronte la possibilità di dover uccidere un membro della squadra, incapace di accettare un accordo che con buona probabilità potrà portare all’estinzione della specie di provenienza!
Insomma, le scelte da prendere sono assolutamente importanti e possono avere conseguenze addirittura fra capitoli diversi, contribuendo a garantire una modernità assoluta in termini di coinvolgimento e bellezza di storia e trama. Di certo la saga in questo modo si pone ancora fra quelle più innovative e coinvolgenti di sempre nel panorama GDR, al punto da apparire quasi un romanzo.
Battaglie interessanti, gameplay un po’ ingessato
Il ruolo dell’Intelligenza Artificiale nel gameplay è da noi considerato cruciale in un videogame e questa saga ha tanto da offrire per entrambi questi aspetti. L’IA ed i combattimenti non sono invecchiati male, capaci di essere interessanti e creare qualche grattacapo anche a distanza di anni.
Il gameplay, allo stesso modo, non è invecchiato particolarmente male, anche se in questo caso il peso degli anni si sente di più. Può rivelarsi frustrante adottare il sistema tattico-in tempo reale adottato, dove si alternano “pause tattiche” a sparatorie frenetiche.
Si devono infatti dosare le abilità dei singoli, biotiche, tecnologiche o militari, per affrontare al meglio la battaglia. In base a tipo di nemico e disposizione degli elementi di gioco, si devono scegliere abilità e disposizione dei membri della squadra. È possibile, inoltre, impartire ordini come lo spostamento dietro una copertura o l’utilizzo di abilità per immobilizzare o lanciare il nemico in aria.
I nemici a loro volta cercheranno di circondarci e di sfruttare al meglio le loro abilità. Un cecchino nemico cercherà di tenersi a debita distanza, coperto dagli assaltatori frontali come biotici o soldati.
Le tattiche non sono gestite con un’interfaccia singola per ogni personaggio, risultando macchinose e inefficaci. Spesso ho preferito affrontare direttamente le battaglie, utilizzando i compagni come un mero supporto se non come una scocciatura. L’assenza di controllo dei singoli personaggi, impedisce lo studio di tattiche d’attacco diverse da quello frontale diretto e ciò rende il gameplay a tratti ingessato.
Finalmente una vera Remastered!
Con piacevole sorpresa la rimasterizzazione del titolo e l’intervento nell’aspetto grafico è riuscito alla perfezione. Non solo le texture sono davvero belle da vedere, ma i passi avanti anche nell’interfaccia sono una piacevole sorpresa. L’uniformità introdotta nei vari capitoli è ammirevole e fa sembrare l’esperienza di gioco davvero un “continuo”.
Certo, parliamo comunque di un intervento non a livello di motore grafico vero e proprio, e si vede. Effetti di luce e grafica sono migliorati, anche se non possono minimamente essere considerati al pari o vicino a quelli offerti dai videogame più recenti.
È importante considerare questo aspetto soprattutto tenendo conto del prezzo a cui viene venduto e come esso si confronta con i mostri sacri dei giochi di ruolo. Scene epiche e interattive, grafica e panorami sbalorditivi sono lo standard per i GDR cosiddetti “tripla A” e questa edizione non arriva a tali vette.
La comprensibile scelta di non correre rischi con una saga di una tale importanza storica, presta il fianco agli inevitabili limiti tecnici dovuti dall’età della saga. Non aggiungendo contenuti o modifiche sostanziali al gameplay, ci si è limitati ad un contenuto aggiornamento tecnico, seppur davvero ben fatto.
A tal proposito, la stabilità dei titoli è assoluta, con giusto qualche limitato problema di mancata sincronia audio-video durante il gioco e nel parlato delle scene. Sottolineo la cosa visti i non indifferenti problemi tecnici avuti, recentemente, da titoli ben più moderni.
Conclusione
La saga ha vissuto sicuramente una seconda giovinezza con questa remastered. Tecnicamente il lavoro è davvero ben riuscito, con una parte di rivisitazione di texture e comparto audio ottima e di buona fattura.
La riedizione tecnica non ha inoltre intaccato la qualità di trama e storia originale, che rimangono interessanti e moderni anche a distanza di quindici anni. Il gameplay è un po’ invecchiato e si sente, seppur i combattimenti riescono a rimanere interessanti.
L’approccio prudente di rivisitazione si è rivelato dunque a doppio taglio, garantendo apprezzabilità del lavoro svolto da una parte, ma relegando la saga da rivoluzionaria a carina dall’altra. Il prezzo elevato infine non è a mio avviso giustificato, dove a cifre inferiori si trovano i titoli ora considerati come pietre miliari del genere.
In conclusione mi sento comunque di consigliare la saga a chi non l’ha mai giocata e sicuramente agli appassionati di GDR, in attesa magari dei prossimi saldi.
Morimasa Sato è riuscito nell’intento di prendere tutto il meglio della serie evitando i capitoli meno apprezzati. Il livello artistico di Resident Evil Village permane ad altissimi livelli per tutto l’inizio del gioco per poi diventare più anonimo nella parte centrale, esattamente in corrispondenza della deriva action del titolo, che allontana nuovamente la serie dal genere dei survival horror.
8.5
I survival horror vivono su un’onda sinusoidale lunga quasi trent’anni, i cui picchi sono costellati di titoli della saga Resident Evil. Nonostante Biohazard non sia il creatore del genere (la lotta è ormai consolidata tra Alone in the Dark e Clock Tower), e il trono di miglior serie è da contendere con gli orrori di Silent Hill, Resident Evil detiene indiscutibilmente il record della serie horror più famosa e longeva, grazie ai suoi venticinque anni scanditi da enormi successi, che ovviamente aumentano le aspettative su ogni capitolo. Lo stesso vale per Resident Evil Village, séguito diretto di Resident Evil 7 che ha (parzialmente) allontanato il nome Biohazard dalla strada action battuta dai predecessori per ritornare nella famiglia dei survival horror, il genere inizialmente pensato da Shinji Mikami per il suo terrore.
Abbiamo lasciato il mondo di Resident Evil 7: Biohazard con un finale molto simile a quello di uno sparatutto in terza persona e con Ethan Winters che riesce a ricongiungersi con la sua amata Mia. E ripartiamo tre anni dopo proprio da qui.
La perfetta famiglia americana
Resident Evil Village esalta l’importanza della famiglia in tutti i sottogruppi della sua società, dalla famiglia statunitense Winters fino al remoto villaggio dell’est Europa. Le battute iniziali del nuovo titolo ci portano in Louisiana, tra le calde mura della famiglia di Ethan, Mia e la nuova arrivata Rosemary Winters. Come possiamo aspettarci dal genere, questo tenero quadretto familiare non è destinato a durare. Infatti, dopo poco vivremo in prima persona l’irruzione cinematografica di Chris Redfield, che fredda Mia e porta via Rose nel giro di pochi minuti.
La sorte di Ethan Winters invece prevede un trasporto verso una base militare che terminerà in un incidente mortale per tutti i componenti della squadra ad eccezione di Ethan e di sua figlia Rose, sequestrata da non meglio identificati delinquenti in un inospitale villaggio slavo.
Il luogo vive sotto il culto di Madre Miranda, divinizzata protettrice, a dire dei suoi abitanti, del villaggio, almeno fino ad oggi. Infatti, quando prenderemo finalmente le sembianze di Ethan faremo conoscenza degli ultimi abitanti del villaggio prima di vederli morire sotto i colpi di feroci licantropi. In altre parole, siamo nuovamente da soli in una remota zona del globo, circondati da efferati mostri e alla ricerca di un altro membro della nostra famiglia. Questa volta però non si tratta di Mia, come nel capitolo precedente, ma di nostra figlia Rose.
Cinque sotto un tetto
Se il nucleo familiare è ovviamente importante per i “buoni”, lo stesso si può dire per gli antagonisti della nuova trilogia. Esattamente come la famiglia Baker, che viveva il suo personale orrore con una distorta coesione, anche in Resident Evil Village gli affetti saranno parte fondamentale del male. Quest’ultimo è composto da cinque membri, quattro lord e una signora al di sopra di tutto, Madre Miranda per l’appunto. L’idea generale di Morimasa Sato, director del gioco, ruota attorno alla nascita del male a seguito di un amore non corrisposto e ogni signore avrà il proprio personale dolore. Alcina Dimitrescu, la prima che affronteremo e ampiamente pubblicizzata da Capcom, ama morbosamente le tre figlie Bela, Daniela e Cassandra, mentre gli altri tre lord vivono tutte le storture dell’amore: la solitudine compensata dall’affetto di dagide, la mancanza di attenzioni e autostima e la ribellione nei confronti di una dispotica divinità.
Una dolorosa fusione
Le nette differenze nelle emozioni dei lord si notano sia nella parte artistica dei quattro signori quanto nelle ambientazioni in cui li affronteremo. Il level design prescelto prevede la suddivisione in quattro aree ben distinte collegate dal villaggio, con stile artistico e nemici totalmente diversi tra loro.
Resident Evil Village prende a piene mani da Resident Evil 7 e addirittura estende gli omaggi collegando le trame dell’intera lore della serie, dal primo capitolo fino al settimo. Il villaggio, a meno degli stupendi picchi innevati, ricorda l’ambientazione spagnola di Resident Evil 4, mentre il Castello Dimitrescu è un chiaro riferimento alla casa del capostipite. In entrambi i casi, l’egregio lavoro artistico svolto da Tomonori Takano a livello visivo e da Shusaku Uchiyama sul comparto audio è così straordinariamente elevato che potrà essere preso da esempio per tutti i futuri giochi della saga. Purtroppo, gli alti standard della prima parte non sono mantenuti per tutti il gioco. Infatti andando avanti con il titolo tutto sembra molto più simile e piatto.
Come avrete intuito, il gioco si svolgerà in molte più aree rispetto al solo villaggio e castello mostrato dalle demo. Questo causa un senso di eterogeneità che catapulta il videogiocatore in qualcosa più simile a un titolo a piattaforme piuttosto che un survival horror, con troppe disconnessioni sorrette da un sottile filo non troppo convincente rappresentato dal villaggio. Non stupirà quindi avere un proprio nemico preferito che oscurerà gli altri e che non permetterà di valutare facilmente il gioco nella sua interezza. Infatti, i lord, e tutto ciò che è a loro legato, sono così diversi che daranno certamente vita a un dibattito su chi sia più interessante tra Alcina Dimitrescu, le bambole di Donna Beneviento, il kappa Salvatore Moreau e l’arrogante ingegnere Karl Heisenberg.
Contrasti sublimi
I forti contrasti sono alla base del gioco di tutte le componenti di Resident Evil Village, uno dei più riusciti è il design di personaggi e nemici.
La fusione prevede il mix tra neoclassicismo e arte giapponese. La prima è ben visibile già dall’inizio, quando faremo conoscenza dei volti dei pochi superstiti del villaggio, facce pesantemente scolpite dai segni della fatica e del dolore, rappresentati da nette linee nere che rievocano esponenti come Felice Giani. Lo stile nipponico invece riadatta alcuni dei più famosi miti e parte della tipica fauna. Questo prevede un’eterogeneità che spazia tra gli occidentali vampiri e gli orientali takaonna passando per l’inconsueta creatura nipponica nota come narke.
Una macchina da guerra
Sin dal primo incontro con il Duca, capiamo che il gioco ruota tutto intorno a delle meccaniche GDR in cui è possibile potenziare il proprio equipaggiamento. Una scelta non sempre troppo apprezzata sin da Resident Evil 4, ma che Capcom ha deciso di percorrere dopo gli orrori di Resident Evil 7, che premiavano la fuga sullo scontro. Tutto questo cambia in Village, perché i nemici lasceranno sempre un drop che può essere un materiale per le creazione dell’equipaggiamento, denaro o oggetti di valore scambiabili per la valuta corrente. Questo spingerà il giocatore ad affrontare i nemici con maggior frequenza, consci che c’è spesso un guadagno nel consumare le munizioni. Se inizialmente le nostre armi non saranno così potenti da giustificare un assalto frontale, già all’interno del castello capiremo che anche una pistola ben potenziata fornisce un giusto rapporto costo/benefici a vantaggio dell’abbattimento dei mostri.
Purtroppo, così come già successo in passato, questa scelta comporta una minor ansia rispetto ai capitoli più survival della saga a favore di una componente action che alimenta un vero e proprio climax culminante con il finale di gioco. Sotto questo punto di vista, il paragone con Resident Evil 7 è impietoso, perché quanto di buono ricostruito con la famiglia Baker, viene poi demolito dalla necessità di far imbracciare le armi ancora una volta. Non siamo ai livelli esagerati di interazione del quinto e sesto capitolo, ma più andremo avanti nell’avventura e più vedremo il nostro personaggio trasformarsi in una macchina da guerra.
Per questo ricordiamo con piacere la prima parte del gioco in cui non saremo abbastanza forti da essere senza paura e ameremo Donna Beneviento, un lord che affronteremo interamente senza armi, provando alcuni momenti di vero terrore dato dal palpabile esoterismo dell’abitazione. Con meno orgoglio invece narriamo le restanti boss fight, in cui i colpi d’arma da fuoco faranno passare in secondo piano qualsiasi strategia rendendole tutte troppo simili tra loro ed eccessivamente confusionarie.
Conclusione
Resident Evil Village racchiude in sé venticinque anni della serie con tutti i suoi picchi positivi, ma senza mai raggiungere le sue clamorose débâcle. Il nuovo capitolo della serie abbraccia il genere del survival horror per poi virare, non troppo gradualmente, in un’ottica decisamente action. Se siete amanti della serie, Resident Evil Village sarà una piacevole scoperta, che potrà non piacere a tutti gli amanti dei primissimi capitoli, ma che farà la felicità dei fan di Resident Evil 4. Il paragone con Resident Evil 7 vede come vincitore quest’ultimo perché Village esalta maggiormente una delle componenti più fastidiose della nuova trilogia, cioè la netta dicotomia tra la prima e la seconda parte dei titoli.
Se non avete mai giocato un Resident Evil, sarebbe opportuno recuperare il capitolo precedente, poiché il nuovo Biohazard chiarisce diversi punti della trama dell’intera saga, concentrando l’attenzione su Ethan Winters e fornisce un finale decisamente sorprendente che apre a scenari tutti da scrivere. Qualsiasi sia la vostra decisione, confermiamo la bontà del progetto. Resident Evil Village è un titolo di elevato spessore artistico, che vi terrà piacevolmente impegnati per poco meno di dieci ore, ma non sempre con l’ansia dei titoli più apprezzati ad attanagliare il vostro cammino.
Dettagli e Modus Operandi
Genere: survival horror (ma anche tanto sparatutto)
R-Type Final 2 è un tuffo nel passato e al tempo stesso un enorme omaggio a tutta la saga della navetta R9. Un titolo impegnativo, ma mai ingiusto, che propone un gameplay solidissimo, level design di alto livello e il ritmo ragionato tipico di R-Type, il tutto unito a una miriade di sbloccabili, la possibilità di pilotare le più famose navette della saga e tanto altro. Peccato per qualche incertezza sul versante tecnico, che comunque non mina il divertimento che lo shoot ‘em up Granzella saprà regalarvi.
8.5
La sala giochi, punto di ritrovo per tutti gli appassionati di videogiochi tra la fine degli anni ’70 d i primi anni del terzo millennio, con tutti i suoi cabinati che facevano a gara a chi avesse i colori più sgargianti o la forma più stramba, tra repliche di motociclette, mitragliatori, piattaforme di ballo e chi più ne ha più ne metta. Ed è proprio lì, tra gli immancabili cabinati di Metal Slug o Super Street Fighter 2, che il genere degli shoot ‘em up (da qui in avanti shmup) ha vissuto una vera e propria età dell’oro. Titoli spesso difficilissimi, a volte anche ingiusti, il cui unico obiettivo era testare i nervi del giocatore e spillare la maggior quantità possibile di monetine da 100 lire ai poveri malcapitati che osavano sfidarli, il tutto scandito dalla dannata schermata “Continue? 9-8-7…” che tanto, troppo spesso appariva su quegli schermi.
Eppure ricordo con nostalgia quei pomeriggi estivi passati tra amici sul cabinato di Aero Fighters 2, U.N. Squadron, Darius II, Gradius, la gara all’highscore, la conta delle monetine rimaste per capire se effettivamente alla fine del livello ci sarei potuto arrivare o no, l’immancabile richiesta di altre monetine ai miei genitori e infine l’accettazione: le monetine erano finite e i cabinati avevano vinto ancora una volta, l’ennesima volta, ma l’indomani il vincitore sarei stato io, quella sarebbe stata la volta buona. Inutile dire che no, la fantomatica “buona volta” non è mai arrivata, i cabinati hanno vinto e io ho speso molte più monetine del dovuto, ma torniamo a noi.
È in questo paesaggio idilliaco che nel 1987 nasce uno degli esponenti più celebri del genere, il leggendario sparatutto a scorrimento orizzontale R-Type, a opera dello studio Irem. Ciò che distingueva R-Type dalla miriade di altri shmups dell’epoca era sicuramente la veste grafica all’avanguardia, una direzione artistica ispiratissima e un gameplay innovativo, ma solido già dal primo istante, in un genere, quello degli sparatutto a scorrimento, dove innovare non era compito facile. Il successo fu istantaneo, tant’è che Irem sviluppò vari sequel per sistemi arcade e successivamente anche per console casalinghe, fino al 2003, anno d’uscita di R-Type Final su Playstation 2, ultimo vero capitolo della saga. Dopo quasi due decadi e un paio di campagne Kickstarter andate a buon fine è Granzella, con la supervisione di Kazuma Kujo, a raccogliere la pesante eredità di un titolo divenuto leggenda, ed è così che nasce R-Type Final 2, e specificatamente la versione per Nintendo Switch.
Come l’originale, ma in UE4
Sono passati più di 30 anni, ma il nostro obiettivo rimane sempre e solo uno, ovvero difendere l’umanità dalla minaccia dall’impero Bydo, rivale ricorrente per tutti gli episodi della saga (fatta eccezione per R-Type Leo). E starà al giocatore, a bordo del caccia transdimensionale R9 (e non solo), avanzare stage dopo stage fino ai titoli di coda. Come per i suoi precedessori, anche Final 2 relega la trama a un elemento totalmente accessorio, quasi del tutto assente, presentando l’unica breve scena di intermezzo presente proprio durante il primissimo decollo. Da lì in avanti l’intera partita viene scandita da azione nuda e cruda, con stormi di nemici da abbattere, piogge di proiettili da evitare e ostacoli da superare. I nemici sfoggiano il caratteristico design che ha reso celebre la saga, spaziando da comuni astronavi ad aberrazioni bio-meccaniche, tratto distintivo e aspetto che ha reso celebre il primo R-Type. Fanno il loro ritorno anche numerosi nemici comuni e boss presenti nei vecchi capitoli, tra cui il più rappresentativo dell’intera saga, Dobkeratops, celebre creatura che quasi ogni appassionato di videogiochi avrà quantomeno intravisto almeno una volta.
I vari stage presenti, 11 al momento (con dei DLC in arrivo che li amplieranno a 18), presentano una buona varietà; visiteremo spazioporti abbandonati, caverne sottomarine, laboratori, ambienti interamente composti di materia organica e così via, anche se è da precisare che non tutti risultano particolarmente ispirati, con un paio di livelli in cui si nota una minore qualità di realizzazione, ma nell’insieme è stato fatto un buon lavoro. Bydo, caccia transdimensionali e ambienti di gioco vengono portati alla vita grazie all’utilizzo dell’Unreal Engine 4, e il risultato finale è decisamente piacevole, con ambienti per buona parte ben particolareggiati, background mobili, esplosioni e tanti effetti a schermo. Chiariamo subito che non siamo di fronte a un capolavoro tecnico, e in effetti più di una volta capiterà di notare qualche modello poligonale un po’ troppo spoglio o poco definito, ma va anche specificato che difficilmente sarà possibile soffermarsi su questo o quel modello poligonale, vista la frenetica e continua azione a schermo che assorbirà completamente il giocatore. La colonna sonora svolge il suo lavoro, alternando pezzi frenetici o contemplativi in base allo stage affrontato, seppur non raggiungendo mai picchi troppo elevati.
Insomma, pad alla mano, è come se l’originale R-Type fosse stato trasportato avanti nel tempo: il feedback audiovisivo restituito da Final 2 è ottimo, peccato invece per alcuni sporadici rallentamenti presenti nella versione Switch al momento della stesura di questa recensione, e più precisamente durante lo scontro con il primissimo boss del titolo e nella fase finale dello stage 7.1. Una sbavatura che doveva essere evitata, visto il genere di appartenenza che richiede tassativamente performance stabili sempre e comunque, anche se mi preme sottolineare che entrambe le sezioni “incriminate” sono abbastanza semplici da portare a termine, pur con questi problemi. Altro aspetto da considerare è la resa in modalità portable, davvero bella, che cozza invece con una resa docked che a volte lascia davvero a desiderare.
Ma è tempo di passare al gameplay, nucleo centrale di qualsiasi shmup, e forse l’elemento più difficile in assoluto da replicare e migliorare, soprattutto in un periodo in cui gli sparatutto a scorrimento non sono proprio un genere di tendenza.
Che il Force sia con te!
Ciò che definisce il gameplay della saga di R-Type e lo differenzia da tantissimi altri shmups è un unico, singolo elemento, ovvero il Force, e Final 2 non fa eccezione, rendendolo elemento portante dell’intera esperienza di gioco, ma cos’è esattamente?
Si tratta di un nucleo formato da cellule Bydo, o in parole povere una sorta di sfera che, se ancorata al fronte (o retro) dell’astronave, fungerà da scudo antiproiettile potenziando al contempo la modalità di fuoco della R9, o da supporto indipendente qualora il giocatore volesse totalmente sganciarlo dalla nave, con alcuni modelli di Force che addirittura si comporteranno come veri e propri mini caccia, muovendosi autonomamente per lo schermo in cerca di nemici da crivellare. È inoltre presente un’ulteriore meccanica legata al Force, ovvero l’indicatore Dose, che potrà essere incrementato assorbendo i proiettili avversari tramite il Force, dando così accesso al giocatore al classico screenclear presente in qualsiasi shmup si rispetti, ovvero una “bomba” che ripulirà lo schermo da nemici e proiettili, infliggendo inoltre enormi danni al boss di turno.
La navetta disporrà inoltre di una modalità di fuoco secondaria, presente in ogni capitolo della saga, il Cannone a Onde, un proiettile da caricare, che può raggiungere stadi di potenza via via maggiori tanto più il giocatore terrà premuto il pulsante di fuoco secondario. In realtà la dicitura “cannone a onde” farebbe pensare a un’arma specifica, ma in realtà ne esistono di svariati tipi, da un enorme laser utile per distruggere formazioni di piccoli nemici, a vulcan fotonici, dal raggio piuttosto ristretto ma capaci di infliggere danni enormi. Anche qui la varietà è tanta e starà al giocatore valutare quale tipo di arma portare in missione, tenendo conto dei nemici che si incontreranno o della conformazione dello stage.
Anche qui, Final 2 restituisce il classico feeling che gli appassionati conoscono ormai da decenni, con posizionamento dei nemici, stage e boss specificatamente costruiti attorno a Force e Cannone a onde. Il lavoro di Granzella è davvero lodevole, la varietà d’approccio è tanta grazie a svariati tipi di force, cannoni a onde, armi primarie e secondarie, e sarà stimolante per il giocatore decidere quale sia la migliore accoppiata da portare da abbinare a ogni stage del gioco, aumentandone oltretutto la rigiocabilità.
Difficoltà d’altri tempi
Chiunque conosca o abbia quantomeno provato uno sparatutto a scorrimento saprà benissimo che la sfida offerta da questi titoli è davvero, davvero alta, ma va precisato che nel caso di R-Type Final 2 non ci troviamo dinnanzi al classico titolo bullet hell o, in lingua originale. Se state pensando a quelle schermate piene zeppe di proiettili dai colori sgargianti, tipiche di titoli come i vari capitoli Touhou o l’omonimo Danmaku Unlimited3, per vostra fortuna (o sfortuna, in base a ciò che state cercando) non è questo il caso. La difficoltà di R-Type risiede nella composizione degli stage, nel posizionamento dei nemici, nella padronanza dei vari tipi di arma a vostra disposizione. Final 2 segue un ritmo più compassato, quasi ragionato, e ogni stage è più una sorta di grande puzzle da risolvere, dove sta al giocatore capire dove posizionarsi in quel determinato passaggio o come evitare che dei nemici chiudano la navetta in una porzione di schermo in cui risulta impossibile destreggiarsi tra i proiettili in arrivo. Badate bene, compassato non equivale a lento o semplice, e anzi, Final 2 è un titolo molto impegnativo e va ragionato, soprattutto in certi frangenti.
Il sistema di checkpoint è un ulteriore grado di difficoltà che potrebbe non piacere a tutti. Di solito negli sparatutto a scorrimento al contatto con un qualsiasi nemico o proiettile si perde una “vita” e si respawna subito dopo, fino all’esaurimento delle “vite”. Ecco, in R-Type ciò non accade, alla morte il giocatore verrà riportato a uno dei checkpoint disseminati per gli stage, ma privo di qualsivoglia potenziamento d’attacco, Force compreso. Ciò renderà alcune sezioni davvero ostiche, qualora il giocatore dovesse morire per poi dover ripetere una sezione di stage di semplice risoluzione se provvisto di una navetta ben armata, ma a tratti frustrante se sprovvista di Force o armi potenziate.
All’avvio di ogni partita è possibile selezionare uno tra 5 livelli di difficoltà, tutti ben bilanciati nella sfida offerta, che andranno a influire su numero e posizionamento dei nemici, cadenza di tiro di questi ultimi e altri piccoli dettagli. I primi due, Addestramento e Bambino, risultano esperienze impegnative ma comunque approcciabili anche da chi non si è mai seriamente cimentato in uno shmup. Le difficoltà intermedie, Normale e Bydo, sono probabilmente il miglior compromesso per chi cerca un alto grado di sfida, senza mai risultare troppo frustranti. Poi c’è la modalità R-Typer, ma quella è una bestia a sé stante, e in parole povere l’esperienza “hardcore” che R-Type Final 2 offre agli appassionati. Granzella ha svolto davvero un ottimo lavoro nel bilanciamento delle difficoltà con livelli adatti a praticamente qualsiasi tipo di giocatore, dal neofita all’appassionato, sebbene ripeto, anche al grado più basso occorrerà comunque impegno qualora si volesse portare a termine il titolo.
È però nella modalità R-Typer che Final 2 esprime tutto il suo potenziale, imponendo al giocatore l’utilizzo pressoché perfetto di Force, cannone a onde, scelta dell’armamento iniziale e del potenziamento da raccogliere al momento giusto. Va detto che questo non è un grado di sfida approcciabile da chiunque, e il sistema di checkpoint renderà spesso necessario il riavvio totale della partita, poiché a volte risulterà banalmente più semplice tornare a quella sezione armati di tutto punto piuttosto che ricominciare da un checkpoint che vede la navetta sprovvista di qualsivoglia potenziamento e alla mercé dei Bydo, incredibilmente agguerriti in R-Typer.
Non solo R9
Come avrete intuito dalla copertina del titolo, la mitica R9A Arrowhead, disponibile sin da subito, verrà affiancata da tante altre navi, e per la precisione altre 53 al momento, portando il totale dei caccia pilotabili alla sorprendente somma di 54 velivoli. Ognuno di essi sarà acquistabile (e osservabile anche in fpv) nel Museo R, previa raccolta delle tre risorse necessarie ottenibili tramite il completamento degli stage di gioco. Tra i più importanti esponenti del museo è doveroso citare la Leo, la Albatross, la Cerberus… Insomma, praticamente ogni navetta protagonista dei precedenti titoli sarà presente, un sogno per gli appassionati che potranno tornare a pilotare i velivoli più iconici della saga.
Le navi risultano profondamente diverse tra loro, con tipi di force differenti, armi secondarie e bit selezionabili, cannoni a onde di vario tipo provvisti di più o meno cicli di carica e chi più ne ha più ne metta. Inoltre ogni navetta sarà provvista di una breve descrizione che la posizionerà all’interno dell’universo narrativo (in realtà abbastanza esteso negli spinoff della saga), o che fornirà semplici curiosità. Non vi nascondo che la voglia di scoprire cosa si nasconde sotto il prossimo unlock è davvero tanta, e il Museo R risulta a tutti gli effetti un ottimo incentivo per quanto concerne la rigiocabilità del titolo. È possibile inoltre personalizzare le proprie navette, cambiandone il colore della fusoliera e del cupolino, e applicando una miriade di decalcomanie (anch’esse acquistabili) sul velivolo, grazie a un editor spartano ma efficace.
Insomma, Final 2 offre davvero tanti contenuti, soprattutto considerando il genere di appartenenza, e farà felice qualsiasi fan di vecchia data, dando al tempo stesso una motivazione per giocare e rigiocare i vari stage, qualora la ricerca dell’highscore non basti più.
Conclusione
R-Type Final 2 è uno strano titolo da valutare, è come intraprendere un viaggio nel passato del medium. La veste grafica, non tecnicamente eccezionale a esser sinceri, comunica al nostro cervello che no, questo non è un cabinato e no, non ci troviamo in quella sala giochi di quel pomeriggio d’estate. Eppure il gameplay è quello, tale e quale a 34 anni fa, e funziona dannatamente bene. I fan della saga ameranno senza alcun dubbio Final 2, con tutte le sue autocitazioni e, al netto di un paio di stage sottotono e di una versione Switch non proprio al top, non si può che lodare Granzella per il lavoro svolto. D’altronde reputo abbastanza coraggiosa la scelta di sviluppare uno shmup nel 2021 e con un gameplay che neanche ci prova a innovare il genere, perché è già perfetto così com’è. Uniamo questo a un buon level design e una miriade di sbloccabili e il risultato è un titolo dal sapore rétro che non teme di mostrarsi per ciò che è, una grande celebrazione di uno degli sparatutto a scorrimento più famosi di tutti i tempi. Se non temete un buon grado di sfida e avete voglia di tornare a blastare alieni, R-Type Final 2 è il titolo che stavate aspettando!
Se ritenete che in un rompicapo il gameplay debba sempre essere l’elemento portante dell’opera, Relicta è proprio quello che state cercando. Il titolo vi terrà compagnia per tantissime ore con meccaniche semplici ma che danno vita a ingegnosi puzzle, a patto che abbiate la pazienza di muovervi vaste aree.
7.5
Nel lontano 1993 una coppia di fratelli, Robyn e Rand Miller, creano Myst, titolo che dall’ alto delle sue oltre 10 milioni di copie, rimarrà per nove anni il titolo PC più venduto di sempre. Un videogioco che ha grossomodo segnato la nascita dei puzzle game in prima persona. Nel 2007 è poi arrivato Portal, che ha portato nuovamente alla ribalta questo genere videoludico, trasformandolo in quello che è oggi.
Da quel momento in poi abbiamo assistito a tante opere più o meno ispirate al modello già tracciato dal capolavoro di Valve, tra cui figurano esponenti di spicco quali The Witness o The Talos Principle, ed oggi, seppur il genere non goda più della popolarità dei bei tempi andati, tanti studi, principalmente indie, tentano di seguire le orme lasciate da quei grandi capolavori del passato.
E così giungiamo al titolo che quest’oggi porremo sotto esame, ovvero Relicta, rompicapo sviluppato dallo studio indipendente spagnolo Mighty Polygon e distribuito da Koch Media, che tenta di riproporre le formule già citate, ovvero tante sfide che metteranno alla prova la nostra logica (e spesso pazienza) ponendo però il focus non solo sul gameplay, ma anche sulla narrativa che farà da contorno alle ore passate a dannarci su questa o quella stanza da risolvere.
Il fascino del mistero
Anno 2120, la Terra è stata dilaniata da più e più guerre, la caduta di innumerevoli stati ha fatto nascere nuovi grandi poli di potere perennemente in conflitto tra loro, l’umanità è finalmente riuscita a conquistare lo spazio fondando colonie nei vari pianeti del Sistema Solare, seppur i viaggi verso altri sistemi siano ancora un sogno lontano. Questo è il futuro, a tratti distopico, in cui si svolgeranno le vicende narrate in Relicta.
Noi vestiremo i panni di Angelica Patel, esperta in fisica e membro di una squadra di ricercatori inviati sulla Luna, e più precisamente di stanza alla base Chandra, teatro della nostra avventura. Sarà suo il compito di testare un paio di guanti, dalla tecnologia avanzatissima, in grado di manipolare magnetismo e gravità di determinati oggetti.
Fin qui sembrerebbe una “classica” spedizione scientifica, ma c’è di più. La base Chandra nasconde un segreto, un misterioso cristallo violaceo di origine sconosciuta (e presumibilmente aliena) chiamato “Relicta”, che sarà di fatto il punto di origine e fulcro della storia di Mighty Polygon.
Insomma, gli ingredienti per un’ottima trama ci sono tutti: un background delle vicende interessante e ben scritto, un’ambientazione suggestiva, un manufatto alieno ed una protagonista tutto sommato piacevole. Cosa può andare storto?
La trama di Relicta è un elemento riuscito a metà. Nelle prime ore tutto funziona alla grande, dai dialoghi tra personaggi (rigorosamente via radio, di fatto non incontreremo mai nessuno per l’intera durata del titolo) al senso di mistero, la voglia di scoprire cos’è effettivamente il Relicta, la sensazione di inquietudine e minaccia già presente dalla primissima sequenza di gioco.
Però arrivati a circa metà gioco, la vicenda prende una piega abbastanza banale e tutto il fascino descritto, la sensazione di minaccia, il mistero, semplicemente svaniscono. Nonostante tutto, la vicenda rimane quantomeno godibile, seppur non raggiunga mai l’atmosfera creata durante le prime ore di gioco.
Per quanto concerne la componente narrativa, essa sembra essere totalmente distaccata dalle sezioni di gameplay vero e proprio, creando così una strana dissonanza tra ciò che accade durante la vicenda e ciò che invece si andrà a fare per la stragrande maggioranza del tempo, ovvero risolvere puzzle rooms. Se in Portal risolvo enigmi poiché tutto quel che sto facendo è essenzialmente un enorme test di laboratorio, in Relicta non vi è traccia di una vera e propria ragione per cui Angelica Patel debba risolvere gli enigmi posti sul suo percorso, soprattutto visti alcuni risvolti di trama.
Questo, in un titolo che tenta di porre in primo piano l’aspetto narrativo dell’opera, risulta una grave mancanza che inevitabilmente porterà il giocatore più riflessivo a chiedersi: “perché sto perdendo tempo a spostare cubi se dovrei fare quest’altra cosa?”.
Una Luna diversa
Se pensate che, essendo il tutto ambientato in una base lunare, ciò che vi aspetta sono bianche lande desolate ed un vuoto siderale a fare da sfondo vi sbagliate di grosso. La luna è stata parzialmente terraformata, e la base Chandra presenta diverse cupole al cui interno si potranno trovare biomi decisamente più terrestri e meno fantascientifici. Così il nostro viaggio ci porterà tra foreste dal clima mite, aridi canyon, ghiacciai e giungle tropicali, tutti ambienti ottimamente realizzati e dal colpo d’ occhio notevole. Gli spostamenti tra i vari biomi avverranno invece attraverso la vera e propria base lunare, un insieme di tunnel e sale dal design futuristico ed asettico, dove sarà possibile reperire vari oggetti collezionabili che arricchiranno l’universo narrativo del titolo, dandoci accesso ad email, veri e propri manifesti di propaganda, risultati delle ricerche della Dottoressa Patel e dei suoi colleghi e tanto altro.
Per quanto le ambientazioni esterne siano piacevoli, ovvero quelle in cui di fatto si passerà la maggior parte del tempo di gioco, la vera e propria base lunare è poco curata ed anonima. Inoltre, la scelta di porre gli oggetti collezionabili proprio all’interno di queste sezioni d’ intermezzo non aiuta perché costringono il giocatore a noiose ricerche tra corridoi e stanze tutte uguali e dimenticabili.
Per quanto riguarda la qualità del porting su Nintendo Switch, siamo di fronte ad un buon lavoro. Performance stabili, con qualche incertezza nei livelli più avanzati, soprattutto nel bioma della giungla, ma nulla che possa compromettare la godibilità del titolo. Ovviamente la resa grafica, a differenza delle versioni PC, PlayStation 4 o Xbox One, deve sottostare a qualche compromesso, ma il risultato è più che soddisfacente.
Rosso, blu, rosso, blu…
Il punto forte di Relicta è anche l’aspetto più importante di qualsiasi puzzle game che si rispetti, ovvero il gameplay. Il gioco adotta la tipica struttura a “percorso” così come già visto in Portal, offrendoci una serie di stanze stracolme di enigmi, per poi inframmezzarle ad una breve fase esplorativa e narrativa, fino ai titoli di coda.
L’intero titolo si basa proprio sulla possibilità di manipolare i poli magnetici e le proprietà gravitazionali di vari oggetti, tra cui i più importanti sono senza ombra di dubbio i cubi, che saranno utilizzati nelle maniere più disparate, da semplici pesi da poggiare per attivare una piastra a pressione sino a trasformarsi in piattaforme su cui spostarsi. Tutto questo è reso possibile da tre azioni principali, ovvero conferire polarità positiva(rosso), negativa(blu) e annullare la gravità del cubo. Sarà quindi possibile far attrarre due cubi impostando polarità opposte tra loro, o respingerli impostando la medesima su entrambi.
Quello che sembrerebbe a prima vista un sistema di gioco semplice e poco complesso apre invece ad un’enorme rosa di possibilità grazie a un level design dei vari puzzle eccellente, che durante tutta la durata della partita (di circa 15 ore) rimane sempre ad altissimi livelli, proponendo pian piano nuovi elementi che andranno ad arricchire il gameplay, come piattaforme mobili, interruttori temporizzati, droni che al loro passaggio disattiveranno tutte le polarità da noi impostate, robot che trasporteranno i cubi qualora questi ultimi siano posti sul loro percorso prestabilito e stanze ulteriormente più ricche che preferiamo non svelarvi.
Altro grande pregio del titolo è l’offerta di un alto livello di sfida (soprattutto nelle fasi finali del gioco), ma paradossalmente alla portata di tutti, anche di chi non è avvezzo al genere. Infatti, l’intero sistema di gioco, per quanto man mano si arricchisca di vari elementi, è pur sempre governato da quelle tre semplici azioni, risultando intuitivo anche durante le sfide più complesse.
Relicta offre un comparto gameplay di prim’ordine, pur con qualche piccola sbavatura come la scelta di “nascondere” elementi quali cubi o interruttori in posizioni in cui difficilmente il giocatore andrebbe a controllare, inserendo così una difficoltà artificiale di cui l’ottimo level design non necessita. Fortunatamente questi episodi di moderna caccia al pixel si possono contare sulle dita di una mano, anche perché sarebbero risultati eccessivamente tediosi considerando la presenza di alcune sezioni davvero troppo lunghe ed estese, con il risultato che spesso la vera sfida sarà capire da dove cominciare, piuttosto che risolvere l’ enigma che si ha davanti. Infine, è un peccato constatare che il bioma in cui si sta risolvendo il puzzle non abbia alcuna meccanica caratteristica o qualsivoglia impatto sul gameplay vero e proprio, relegando l’ ambientazione ad una mera cartolina.
In conclusione
Relicta è un titolo che viaggia tra alti e bassi, o per restare in tema, picchi positivi e negativi. Una trama interessante, quantomeno sulla carta, che sfortunatamente perde di mordente con il passare delle ore, risultando al tempo stesso totalmente slegata dalle fasi di gameplay vero e proprio. Dall’ altra parte abbiamo un ottimo comparto gameplay, con qualche minuscola sbavatura, che risulta stimolante e godibile da grandi appassionati del genere e non solo. Va inoltre segnalata la longevità sorprendente, che si attesta sulle 15-20 ore circa, valore non da poco per un titolo del genere e le ambientazioni, davvero ben realizzate, pur con qualche caduta di stile, come la base lunare stessa, e soprattutto totalmente ininfluenti ai fini del gameplay.
L’acquisto è quindi decisamente consigliato, considerando anche il prezzo budget a cui viene venduto, a patto che non diate troppa importanza al lato narrativo del gioco.
Crash Bandicoot 4: It’s About Time è il sequel che tutti i fan del marsupiale aspettavano. Crash 4 è bello, colorato, fluido e divertente, mostra rispetto per il passato e svecchia un gameplay ormai problematico senza stravolgerlo, caratteristica che può rappresentare anche un difetto per i neofiti che si troveranno di fronte un gioco oggettivamente ostico.
8.5
Prima di Uncharted e The Last of Us, la famosa software house che conosciamo come Naughty Dog si è fatta un nome grazie a uno stravagante marsupiale nato dalla tanto malata quanto sproporzionata testa di Dr. Neo Cortex. Grazie a una certa dose di casualità e carisma, Crash Bandicoot è ricordato come la mascotte della prima storica PlayStation e dopo 22 anni dal terzo capitolo e, vari passaggi di consegne tra diverse case di sviluppo, la cavia più folle del mondo dei videogame torna con un nuovo capitolo canonico che nelle mani di Toys for Bob riscopre il suo glorioso passato con Crash Bandicoot 4: It’s About Time di cui recensiamo la versione next-gen per Xbox Series X.
In giro per le dimensioni
Il quarto capitolo riprende dove abbiamo lasciato Crash Bandicoot 3: Warped, con gli acerrimi nemici Neo Cortex, N. Tropy e la malvagia maschera Uka Uka esiliati all’alba dei tempi, che tentano invano di uscire dal loro immobile inferno. Come sappiamo, la pazienza è la virtù dei forti e finalmente Uka Uka riesce ad aprire un varco dimensionale che permette ai due folli scienziati di tornare a seminare il panico tra il tempo e lo spazio.
La maschera maggiore Aku Aku avverte un tremito nella forza e avvisa Crash dell’imminente pericolo. Non troppo convinto, il marsupiale ricomincia la sua avventura che lo porterà a incontrare diverse vecchie conoscenze e nuovi alleati, le maschere quantiche. Lo scopo dei nostri sforzi sarà evitare che questi lontani parenti di Aku Aku finiscano nelle pericolose mani degli antagonisti, perché i loro poteri potrebbero provocare danni irreparabili tra le dimensioni dell’universo di Crash.
Fortunatamente non saremo soli nella nostra complessa missione. Infatti, oltre a Crash e Coco, che potremo impersonare indistintamente scegliendo chi usare all’inizio del livello, durante la nostra avventura avremo la possibilità di giocare con altri tre personaggi della lore di Crash, ognuno con le proprie caratteristiche e mosse speciali, che vi possiamo rivelare in quanto già presenti in tutti i trailer di gioco: Tawna Bandicoot, Dingodile e Neo Cortex.
Tutta la trama è basata su ciò che farete in-game e sui video d’intermezzo brevi, ma decisamente accattivanti, che mostreranno al videogiocatore le ottime caratterizzazioni di tutti i personaggi del titolo.
Follia allo stato puro
Il platform è suddiviso in dimensioni che contengono un predeterminato numero di livelli e boss. Ogni dimensione ha le sue caratteristiche in termini di bestiario, macchinari, vecchie conoscenze del passato e maschere quantiche, che come potete immaginare bisognerà combinare verso la fine del gioco. In totale le maschere sono quattro e aggiungeranno un particolare potere ai bandicoot premendo il tasto Y del joypad:
Lani-Loli comanda lo spazio e permette di far comparire, o scomparire, determinati oggetti dello stage.
Akano potenzia la rotazione di Crash e Coco, permettendo salti più lunghi e immunità a determinati attacchi.
Kupuna-Wa è una simpatica nonnina che rallenterà il tempo e di conseguenza gli oggetti circostanti.
Ika-Ika capovolgerà letteralmente il mondo di gioco invertendo la gravità.
L’annosa questione sulla qualità dei primi Crash Bandicoot è stata discussa per molto tempo e ancora oggi non si può dire conclusa. Uno dei principali punti deboli dei primi tre capitoli è stato il gameplay legnoso che rendeva la trilogia troppo spesso più impervia di quanto effettivamente pianificato dagli sviluppatori. Il nuovo Crash, invece è fluido, dinamico e divertente, anche se la frustrazione ci accompagnerà per tutta l’avventura.
Il vintage non è per tutti
I ragazzi di Toys for Bob hanno pensato a due modalità per venire incontro tanto ai neofiti quanto ai veterani. I primi tre capitoli di Crash si basavano su quella che ora è denominata modalità retrò: un numero limitato di vite a disposizione, pochi checkpoint fissi e una marea di parole poco professionali ci accompagneranno durante tutta la campagna. La modalità moderna, invece ci permette di morire tutte le volte che vogliamo, perché cominceremo sempre dall’ultimo checkpoint. Inoltre, nel caso in cui moriremo troppo spesso in un determinato punto, il videogioco ci prenderà per mano fornendoci maschere Aku Aku gratuite, che come al solito ci permetteranno di assorbire un colpo, e checkpoint dinamici e ravvicinati.
Forte della mia recente esperienza con Oddworld: New ‘n’ Tasty, pensavo che la modalità moderna mi avrebbe permesso un’agevole camminata di piacere. Mai pensiero fu più sbagliato, perché ancora oggi mi chiedo come sia possibile terminare Crash Bandicoot 4 in modalità retrò data la vergognosa quantità di fallimenti collezionati durante gli ultimissimi stage a causa di un livello di cattiveria degli sviluppatori troppo elevata e anche ingiustificata, in quanto incoerente con il resto del titolo.
Only the brave
Crash Bandicoot 4 si termina in circa una decina di ore, con ritardi più o meno lunghi in base alle difficoltà soggettive che incontrerete in alcune piattaforme. Considerando che solo l’11% circa dei videogiocatori Xbox ha sbloccato l’achievement di fine gioco, si può dire che anche questa è una sfida impegnativa, che rasenta l’impossibile se vogliamo terminare Crash 4 al 100%.
Oltre ai livelli base, il platform è adornato di una quantità ingente di modalità extra che vi potrà impegnare per il doppio del tempo necessario per terminare l’avventura principale. Ogni stage contiene diverse gemme nascoste che permetteranno di ottenere nuove skin per Crash e Coco. Alcune le sbloccherete completando il livello sotto determinate condizioni, mentre altre sono nascoste nel livello stesso. In più, ogni zona ha la sua prova a tempo che sbloccherà ulteriori elementi collezionabili, le reliquie.
A questi extra, dobbiamo aggiungere i livelli opzionali da giocare con i personaggi secondari, le linee temporali, e la modalità N. VERTITA in cui dovremo affrontare il livello secondo uno stile grafico sempre diverso. Uno di quelli che ho provato iniziava con lo scenario in bianco e nero per colorarsi dopo ogni rotazione. Suggestivo e geniale allo stesso tempo.
Inoltre, sarà possibile rivivere alcuni livelli iconici della trilogia originale grazie all’acquisizione di alcuni nastri VHS presenti negli scenari. Per ottenerli bisognerà però arrivare fino a quel punto senza mai morire. E non è poco.
Infine, se condividerete Crash Bandicoot 4: It’s About Time con altri videogiocatori, sappiate che è disponibile la modalità multiplayer locale con alcune modalità non particolarmente originali, ma che possono permettere a due giocatori di pari livello di sfidarsi. Le modalità consistono in scontri a tempo o di raccolta. Nulla di eccezionale, ma che aumentano ulteriormente la longevità di un videogioco decisamente pieno di cose da fare.
Maledettamente colorato
I motivi principali del successo della serie Crash Bandicoot sono la caratterizzazione dei personaggi e le colorate aree di gioco. It’s About Time mantiene inalterati questi principi con un restyle che rende la serie ancora più matta e vivace. Le dimensioni strizzano l’occhio al passato, ma aggiungono anche nuove aree tanto diverse quanto godibili. Qualcuno lamenterà un po’ di incoerenza, ma essa è più che giustificata da una trama che ha permesso piena libertà agli artist designer.
La localizzazione italiana è decisamente curata, mentre musiche e colonne sonore ci accompagneranno con carica durante il gioco, ma sono decisamente dimenticabili.
Versione Xbox Series X
La versione next-gen provata su Xbox Series X offre un’esperienza di gioco ottimale, ma che non aggiunge nulla di sconvolgente al titolo già assaporato sulla generazione precedente.
Crash Bandicoot 4 era già graficamente delizioso e rimane ancora tale su Xbox Series X. La combo 4K-60FPS non mostra i muscoli, ma l’esperienza di gioco è praticamente perfetta con colori vividi, fluidità eccezionale e mai nessun rallentamento. In definitiva una bella esperienza di gioco, che si migliora in maniera significativa soltanto nei caricamenti su cui la next-gen punta particolarmente e che può risultare determinante per vivere con meno fastidio le ripetute cadute. Infatti, il ri-caricamento dei livelli di gioco dopo una sconfitta si assesta intorno ai 5 secondi contro i circa 15 delle versioni precedenti. Un significativo miglioramento dovuto più all’hardware che a un’ottimizzazione personalizzata, ma che apprezziamo.
Difetti del passato
Arrivati a questo punto, avrete capito che Toys for Bob ha svolto un ottimo lavoro con Crash Bandicoot 4, ma qualche vecchio grattacapo del passato è ancora presente.
La difficoltà, anche in modalità moderna, è orientata verso l’alto, ma diventa decisamente eccessiva durante gli ultimi stage. Non è facile definirlo come un vero e proprio difetto, ma i neofiti potrebbero non terminare il titolo a causa di alcune scelte di level design che strizzano troppo l’occhio ai veterani e che potrebbero portare a una frustrazione evitabile.
Così come la trilogia canonica, il titolo non ci viene incontro sui salti che dovranno essere precisissimi. Premettiamo che lo svecchiamento rende il gioco più fluido e alcuni aiuti (come il minimale cerchietto che ci fa capire dove atterreremo) saranno fondamentali per affrontare questo capitolo del marsupiale, ma purtroppo non sempre basta. Infatti, Crash Bandicoot 4 soffre di un problema di profondità di campo in alcuni livelli. La telecamera è totalmente gestita dal videogame e in certi stage, quando sarà dietro le spalle di Crash o Coco potrà risultare difficile capire quanto saltare per non fare una brutta fine. Un problema bypassabile in modalità moderna, ma decisamente snervante in retrò.
Conclusione
Crash Bandicoot 4: It’s About Time è il sequel che tutti i fan del marsupiale aspettavano. Dopo varie ricerche, Activision ha trovato in Toys for Bob il degno erede di Naughty Dog nella prosecuzione della serie. Crash 4 è bello, colorato, fluido e divertente, mostra rispetto per il passato e svecchia un gameplay ormai problematico senza stravolgerlo.
Questo nuovo capitolo è il more of the same per eccellenza che nessun veterano vorrà perdersi per alcuna ragione al mondo e che permetterà ai più giovani di conoscere il mondo della mascotte della prima PlayStation con i suoi pregi e difetti. Infatti, il livello difficoltà rimane ancorato agli anni ’90 e potrebbe scoraggiare molti nuovi videogiocatori. Sotto questo aspetto, Activision dovrà fornire in futuro maggiore libertà alla casa di sviluppo che ha bisogno di abbandonare il passato per rilanciare una serie che potrà vivere un nuovo periodo d’oro grazie alle radici piantate in “It’s About Time”.
Il gioco è una promessa dell’universo indie. Le musiche ne rappresentano il pezzo forte, accompagnate da una trama non banale, interessante, artistica. Gli manca quel tocco di gioco di massa per entrare di diritto fra i titoli top. Genesis Noir non ha bisogno di allungare il brodo per tenere incollati allo schermo, ma qualche ora in più di gioco avrebbe reso il titolo maggiormente profondo.
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I giochi artistici sono sempre più rari al giorno d’oggi. Quei giochi che provano a stimolare l’animo umano, senza ricorrere solo a frasi di comodo e azione frenetica. Iniziando a giocare, il primo pensiero avuto è quello di avere per mano un’opera di qualità.
Sul tema del gioco non solo come sfogo, ma visto come meccanismo di riflessione, si è già parlato abbastanza (e bene) nell’interessante articolo “Videogiochi un altro modo di raccontare” di Antonino. Sono fermamente convinto che sia così, anche per questo ritengo il prodotto in esame sia una perla fra i giochi indie.
Il titolo creato dal minuscolo studio Feral Cat Den e pubblicato da Fellow Traveller, merita di essere preso in considerazione per davvero tanti motivi e sarà mia premura fare in modo di farvi provare, seppur in maniera limitata, parte delle emozioni che ho provato io.
Partirò con il trailer, che mi ha subito stregato.
Anche piccoli sketch del video riescono già a fornire un’idea della freschezza del titolo, che rappresenta letteralmente una boccata d’aria fresca per il suo genere, nel piccolo, e per la categoria dei videogiochi in generale.
Io stesso non sono un’amante dei puzzle game dove si rimane incastrati per buona parte del tempo, nel risolvere enigmi senza fine. Questo tipo di titoli possono portare facilmente alla noia. Allo stesso modo vengo ancora meno intrigato dalle avventure grafiche e dai videogiochi dallo stile “investigativo”. Ogni gioco in cui si devono mettere insieme gli elementi per ricostruire una sorta di “puzzle” (ovvero la trama), mi urtano.
Mi sono dovuto ricredere con Genesis Noir.
Vai con il Jazz!
Il perché del titolo sopra è lampante dopo la prima mezz’ora di gioco: le musiche di “accompagnamento” (le virgolette servono) sono davvero fantastiche. Questo titolo ha il suo principale punto di forza proprio nel comparto audio, le cui tracce ci accompagnano durante l’avventura e sono forse la vera attrattiva.
Si può infatti passare da momenti in cui c’è una rilassante melodia Jazz ad altri in cui l’azione si fa frenetica e le musiche diventano più assordanti, mettendo una sorta di agitazione addosso al giocatore stesso. Rimane difficile spiegare questa sensazione in quanto è intima, personale, complessa, di certo davvero ben riuscita. Non è comune trovare nelle canzoni e melodie di un videogioco i suoi punti di forza, rappresentano in genere un semplice elemento di contorno, e in questo caso mi sento davvero di fare i complimenti agli sviluppatori.
Mi spingo oltre fino a dire che se il titolo fosse uscito qualche mese prima, se la sarebbe potuta giocare per il titolo di migliore colonna sonora dell’anno.
Interessante è la possibilità di interagire con il mondo di gioco, anche negli intermezzi musicali. In questo modo si diventa partecipi dell’azione, sentendosi in generale molto più a contatto con la trama. Questo, scandito dal ritmo fornito dalle canzoni, rende la componente gameplay di contorno (in accezione assolutamente NON negativa). Tengo molto a sottolineare che non è affatto banale mettere in secondo piano il gameplay, che considero cruciale in qualunque gioco che si rispetti.
La stessa trama è scandita, all’inizio di ogni capitolo, da frasi relative al mondo della fisica sull’origine dell’universo, che contribuiscono a definire un’atmosfera misteriosa e sorprendente, a tratti difficoltosa da cogliere. Tutto ciò contribuisce nel dare un tocco piacevolmente artistico al gioco.
Il secondo elemento azzeccato secondo me è il mix di qualità grafica e trama, di cui scriverò a breve.
Interattività e arte visuale
L’elemento grafico, come detto, è degno di nota e fornisce varie prospettive durante l’esplorazione dei capitoli. Spesso si viene catapultati in azioni travolgenti in cui si devono fare le cose più disparate. Per esempio si può dover suonare insieme a un musicista, componendo così una sinfonia unica e particolareggiata, che possiamo modificare a nostro piacimento.
Le componenti visive inoltre sono sempre diverse e si possono infatti notare pattern, figure e disegni mutevoli con il passaggio del cursore o lo svolgersi delle nostre azioni. Lo stile visivo noir, seguito da scene piene di colori e significato in cui l’utente interagisce come parte attiva, è davvero ben definito e curato nei particolari.
Questo miscuglio di arti visive, trattati scientifici sull’universo e musica jazz, fanno da “lente d’ingrandimento” alla trama, esaltandone qualità e pathos.
Altra cosa da non dimenticare sono gli enigmi, ben realizzati e quasi mai tediosi (solo uno nel mio caso è stato duro da risolvere). Di sicuro gli elementi grafici e l’audio aiutano molto nel renderli piacevoli, trasformandoli in un valore aggiunto per il gioco.
Dovessi passare infine a trattare delle note dolenti, ho qualche perplessità sull’accezione volutamente artistica data al gioco e alla trama. Può rimanere oscuro il significato delle frasi di introduzione ai capitoli e anche lo svolgimento della trama potrebbe apparire a tratti insensato. Se infatti non si è capaci di cogliere le sfumature, sembra a volte di muoversi quasi a caso nei vari capitoli, compiendo azioni che appaiono senza uno specifico fine. Seppur l’estetica del titolo è la sua componente meglio riuscita e originale, potrebbe rivelarsi una lama a doppio taglio: una storia particolarmente “astratta” e poco accessibile, allontana l’utenza da un prodotto di sicura qualità.
Minuscolo altro neo è rappresentato dalla durata non particolarmente estesa del titolo, anche se tale fattore è davvero un elemento marginale in questo caso.
Conclusioni
Genesis Noir è una perla, non c’è dubbio. Considerando il budget dello studio che lo ha realizzato e la sua assenza di esperienza, il gioco non delude affatto, anzi stupisce.
L’interattività e la necessità di dover usare tutti i “sensi” per venire a capo dei vari capitoli lo rendono un titolo originale e unico. Inoltre il comparto audio e video è eccellente, con la colonna sonora che rappresenta forse il vero punto cardine del titolo per la sua qualità.
Uniche pecche sono l’eccessiva artisticità del titolo e la scarsa durata, dove il primo elemento è marcatamente quello su cui si poteva cercare di fare di più. La trama a volte complessa può infatti allontanare parte del pubblico, forse incapace di carpirne gli elementi essenziali e sentirsi un po’ smarrito, abbandonando il titolo.
Resta comunque un titolo secondo me da giocare per qualità e originalità, considerando anche il prezzo appetibilissimo.
Two Point Hospital è molto di più del perfetto remake di Theme Hospital. Infatti, il nuovo gestionale sanitario è in grado di soddisfare tanto i fan di Bullfrog Productions quanto tutti gli appassionati e i curiosi neofiti del genere gestionale. La JUMBO Edition fornisce un’imperdibile esperienza che può durare oltre un centinaio di ore.
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C’era una volta Bullfrog Productions. Fondata nel 1987 da Les Edgar e Peter Molyneux, per esperienza personale, le generazioni odierne non ricordano molto di questo nome, ma l’importanza della software house britannica riecheggia nei nomi di giochi come Syndicate, Theme Park, Dungeon Keeper e naturalmente Theme Hospital.
Pubblicato nel 1997, Theme Hospital è stato semplicemente il gestionale sanitario più folle e divertente di tutti i tempi, che mi ha dato la possibilità di curare bizzarre malattie come l’iperlingua e acquistare macchinari dai nomi quantomeno controversi come la “Sala Pompa”.
Purtroppo, la prematura fine di Bullfrog dopo la fusione con Electronic Arts UK del 2004 spense un motore pieno di grandi idee e le speranze morirono definitivamente nel 2007 dopo l’uscita del mediocre Hospital Tycoon di EA. Fortunatamente, però le belle sorprese arrivano all’improvviso e alcuni ex sviluppatori di Bullfrog decidono di ripartire dalle loro origini fondando Two Point Studios e regalandoci l’erede spirituale, ma estremamente reale, del pazzo gestionale di ospedali.
Why so serious?
In Two Point Hospital inizieremo la nostra lunga avventura come un manager aziendale squattrinato, che dovrà fare esperienza nel mondo della sanità cercando di fare meno danni possibili. Nonostante la pandemia del Covid-19 ci abbia reso, per fortuna e purtroppo, tutti di gran lunga più sensibili all’argomento, Two Point Hospital riesce ancora a farci sorridere con lo spietato cinismo tipico del titolo originale.
Il gioco ci farà viaggiare per la vasta contea di Two Point, inclusi i luoghi più remoti e strambi grazie alle espansioni della JUMBO Edition, con lo scopo di curare le malattie più assurde e quelle più normali rese comunque allucinanti. Chi ha già giocato a Theme Hospital, ricorderà il reparto psichiatrico invaso da provetti Elvis Presley. In Two Point Hospital, il Re ha lasciato spazio ai novelli Freddie Mercury e John Travolta in versione Grease.
Dottore, chiami un dottore
I primi ospedali sono dei tutorial pratici che mostrano le principali feature di un videogioco che dietro una grafica colorata e divertente nasconde un’importante complessità gestionale tipica degli anni ’90. In Two Point Hospital: JUMBO Edition dovremmo gestire letteralmente tutto, ma andiamo con ordine.
Lo staff sarà amministrato non solo in termini di assunzione, ma anche nella sua felicità che passa attraverso lo stipendio, la formazione e il benessere dato dai servizi extra come sala staff, bevande, cibo e persino termosifoni e condizionatori.
Le strutture da acquistare prevedono tanto l’ampliamento dell’ospedale con l’acquisto di nuovi lotti quanto la progettazione di ogni singola stanza preposta alla diagnosi e cura delle malattie. Stanza del medico generale, farmacia, psichiatria, chirurgia, ma anche malattie decisamente meno usuali come la clownite, che farà credere al paziente di essere un clown o la testa di bulbo, in cui arriveranno pazienti con delle lampadine al posto della testa. Queste sono solo alcune delle avversità da affrontare e scusate se mi dilungo, ma curare un tizio con una padella attaccata in testa con uno spadellatore è qualcosa di unico.
Ovviamente, non basterà far tornare i pazienti in salute. Infatti, dovremmo prenderci cura di loro per tutta la permanenza nell’ospedale con un serie di comfort che aumenteranno la nostra reputazione, spesso obiettivo fondamentale per proseguire nel gioco.
Rispetto al suo antico predecessore, in cui superare ogni singolo livello poteva essere incredibilmente arduo, questa volta gli sviluppatori hanno ben pensato di dividere ogni ospedale in tre stelle. Per sbloccare il livello successivo ne basterà una, ottenibile raggiungendo più o meno abbordabili obbiettivi, ma la vera sfida inizia quando si vorranno guadagnare tutte le stelle del titolo. In questo caso, la difficoltà aumenta in modo esponenziale con obiettivi sempre più ardui che richiedono una pianificazione praticamente perfetta.
“Che bella cera”
Two Point Hospital parte dalla grafica vivace del primo Theme Hospital, la rende ancora più esagerata e cura i dettagli nei minimi particolari. Le malattie sono riconoscibili a colpo d’occhio, ma quando i pazienti non avranno dei costumi bizzarri, si può notare una piacevole varietà tra i modelli. La stessa ricchezza è presente anche nei vari livelli, che rappresenteranno alla perfezione la breve, ma dettagliata descrizione di ogni singolo ospedale.
Se il primo Theme Hospital conteneva un’unica voce parlante, cioè l’annunciatrice che ci accompagnava per tutto il gioco, ora Two Point Hospital alterna annunci, suoni ambientali e addirittura una radio d’ospedale a volte calda, a volte vivace, ma sempre ironica e cinica.
Antico come il caos
Two Point Hospital è un titolo riuscito, ma alcune problemi vecchi di 24 anni rimangono ancora adesso irrisolti. La parte più ardua del gioco consiste nella micro-gestione dello staff all’interno dell’ospedale, soprattutto quando le strutture aumenteranno e i pazienti arriveranno a frotte. Infatti, ogni membro dello staff, dal medico fino all’inserviente, hanno dei bonus su una determinata caratteristica che imporrà gli esperti di medicina generale a stare in quella stanza, mentre sarà decisamente consigliato far somministrare le medicine soltanto a un infermiere specializzato nella gestione della farmacia.
Nonostante sia possibile dire a ogni membro del personale le attività che può svolgere, quando le cose diventeranno troppo caotiche, sarà facile perdersi dei pezzi in giro e l’intelligenza artificiale non sarà d’aiuto. Non sarà per nulla raro vedere il nostro unico psichiatra lavorare in medicina generale, mentre i pazienti vanno via arrabbiati o persino con i piedi davanti a causa delle mancate cure. Non ho mai ben capito se questa sia una determinata scelta degli sviluppatori, ma dare la possibilità di scegliere se rendere meno stupidi i medici, e soprattutto i ben più dannosi infermieri, sarebbe stata cosa ben gradita.
Parere negativo per le sfide online, che aggiungono una lieve competitività con gli amici che stanno giocando Two Point Hospital, ma le cui sfide si limitano a una serie di mini-obiettivi durante la partita che non incideranno mai in maniera significativa. Considerando che il gioco ci mostra sempre una classifica di ospedali “fittizi” della contea, la possibilità di scontrarci online con altri utenti che stanno affrontando lo stesso livello, sarebbe stato plausibile e decisamente più interessante.
In compresse o joypad
Mai avrei pensato di giocare un gestionale old-style su console, invece l’ho fatto ed è stata un’esperienza incredibilmente soddisfacente. La mappatura dei pulsanti è ottimale e nel giro dieci minuti pensavo di avere tra le mani mouse e tastiera. Se siete prevenuti come me, vi capisco, ma mi sono dovuto ricredere e vi consiglio di dargli un’occasione.
Il gioco non ha ancora un’ottimizzazione per Xbox Series X, ma è tecnicamente perfetto. Rispetto alla versione PC e soprattutto Nintendo Switch, che soffrivano di alcuni cali di frame rate, la versione per la console next-gen è sempre fluida anche nei momenti più concitati, come può essere l’esplosione di un macchinario oppure l’incredibile calca di pazienti e personale sullo schermo nei livelli più avanzati.
JUMBO Edition
Two Point Hospital: JUMBO Edition contiene quattro espansioni (Bigfoot, Pebberley Island, Incontri Ravvicinati ed Evviva l’ambiente) e due pacchetti oggetti: vintage e mostra d’arte. Questa versione differisce dalla console edition uscita circa un anno fa per le espansioni “Incontri Ravvicinati” ed “Evviva l’ambiente”, e per i pacchetti d’oggetti extra. L’upgrade è disponibile al prezzo di 16,99 euro mentre la versione completa costa 39,99 euro.
Le espansioni non rivoluzionano il gioco, ma aggiungono decine di ore a un titolo pressoché ottimo. La mia preferita rimane Bigfoot per la sua ambientazione glaciale, ma non è di certo imperdibile. Lo stesso vale per “Pebberley Island” ed “Evviva l’ambiente”, mentre “Incontri Ravvicinati” contiene una nuova modalità di gioco ad “ondate”. Si tratta di una nuova modalità di gioco, che può piacere per la sua complessità, ma anche frustare i giocatori a causa del micro-management a tratti eccessivo.
La JUMBO Edition è un’edizione perfetta per tutti quelli che vogliono iniziare questa stupenda avventura, perché i DLC allungano senza stancare un gioco già di per sé divertente e molto longevo. Personalmente, non consiglio l’upgrade alla JUMBO Edition solo ai possessori di Xbox Game Pass, che possono attualmente giocare la console edition. Piuttosto li invito a giocare Two Point Hospital e decidere di acquistare i DLC mancanti solo dopo le oltre 50 ore della console edition.
Conclusione
Two Point Hospital: JUMBO Edition è la versione console definitiva di un gioco che è letteralmente un must per tutti i fan di Bullfrog Productions e per gli amanti dei gestionali in generale. Questa edizione del titolo offre tantissimi contenuti mai banali sia tanto per la direzione artistica quanto per la graduale difficoltà del gioco. Infatti, rispetto al suo antenato, Two Point Hospital permette un accesso anche ai neofiti grazie a un sistema di progressione che perdona anche qualche errore di gioventù.
Non stiamo parlando solo di un seguito di Theme Hospital, ma di un’opera che consiglio veramente a qualsiasi videogiocatore che vuole provare l’ebrezza di mettersi alla prova su un titolo anni ’90 in salsa decisamente contemporanea e che grazie alla sua ironia riesce a rendere gradevole un gestionale con un tema delicato come quello sanitario. In altre parole, Two Point Hospital è un remake con la erre maiuscola che soddisfa a pieno le ormai perdute speranze di qualsiasi fan della serie e avvicina i nuovi videogiocatori a un genere spesso troppo punitivo.
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