O è carne, o è pesce. Poi ci sono io (e sicuramente anche qualcun altro lì fuori) a cui le combinazioni piacciono, e anche tanto. L’importante è che siano fatte bene. Il problema è che, quando hai questi gusti, potresti rischiare di ritrovarti a mangiare da solo. È quello che sta accadendo nell’ultimo periodo al mondo dei giochi di ruolo. In particolare, parliamo dei giochi di ruolo cartacei, fatti di manuali, set di dadi, battlemaps, miniature e soprattutto una smisurata dose di fantasia.
Questo settore da sempre strizza l’occhio al comparto videoludico: basti guardare a Baldur’s Gate, titolo che si impone come il migliore adattamento di Dungeons & Dragons per PC e console fin dal primo titolo della saga. Poi c’è il tanto osannato quanto criticato Cyberpunk 2077, figlio di Cyberpunk 2020 e Cyberpunk Red. E la lista potrebbe andare avanti per ore.
Parlando di titoli come questi, la differenza tra il mondo del gdr cartaceo e quello videoludico è ancora estremamente netta e percepibile. Sono, come detto, degli adattamenti. Poi ci sono dei nuovi sistemi (che in realtà tanto nuovi non sono) che vogliono veramente unire le due realtà: parliamo delle Virtual Tabletop.
Virtual Tabletop
Chi è nel giro ha sicuramente provato o almeno sentito parlare di Roll 20 e Foundry VTT, per citare due delle piattaforme più famose. Per chi non le conoscesse, si tratta di app per PC che permettono al Game Master di creare scene, schede di giocatori, npc e mostri. Il master inoltre può inserire musiche; filmati; mappe di ambientazioni o battlemaps per i combattimenti. E questa è solo la base, perché si possono aggiungere add-on per rendere i combattimenti animati, oppure fare in modo che un personaggio, muovendosi con il proprio token in un determinato punto della scena, attivi una trappola i cui danni e malus vengono automaticamente registrati sulla sua scheda. Il tutto condito da una serie di effetti visivi e sonori che permettono al giocatore di capire immediatamente cosa è appena accaduto.
Ed è proprio qui che le due realtà si mescolano diventando una cosa sola. Infatti, se si ha la possibilità di sostituire la dettagliata descrizione fornita da un game master, cuore del mondo “gdristico”, con effetti palesemente appartenenti al comparto videoludico, dov’è che finisce il gioco di ruolo dal vivo e inizia il videogame?
Ora bisogna essere sinceri: forse è una domanda che si pongono solo in pochi, ma, come accade per ogni cosa, è giusto farsela. Gli artisti si chiedono se le intelligenze artificiali potranno mai un giorno cancellare la loro professione (spoiler: no). Chi ama i gdr e i videogiochi è giusto che si interroghi su qual è la strada che stanno prendendo i due settori. Soprattutto dopo la pandemia, periodo in cui chi era abituato a ritrovarsi al tavolo con gli amici per una sessione di D&D e affini ha dovuto cercare delle alternative valide.
Il boom delle VTT (Virtual Tabletop) è arrivato proprio in quel momento, ma esse esistevano già prima e hanno continuato ad affermarsi con prepotenza anche dopo, al punto che è difficile trovare oggi un ruolista che non abbia mai partecipato ad almeno una sessione davanti ad uno schermo, connesso con gli amici su Discord mentre il monitor era piantato su Roll 20, Foundry e chi più ne ha, più ne metta.
Tornando al discorso iniziale: rendere un gdr dal vivo sempre più simile ad un videogioco è un male? Assolutamente no, per diversi motivi. Il primo è che c’è sempre il sacrosanto diritto alla scelta: nessuno impone l’utilizzo di questi strumenti. E ciò è tutt’altro che scontato, visto che le regole del gioco le fanno i produttori, spesso contestati per le scelte editoriali. Si può giocare al tavolo, al pc, o addirittura in entrambe le modalità alternandole.
Secondo: le piattaforme sono aperte, libere e vengono disegnate dai giocatori affinché si adattino meglio al loro stile di gioco. Se a qualcuno dà fastidio snaturare il gdr puro può comunque farsi un paio di ore di sessione la sera sulle VTT, magari con amici lontani, utilizzando lo scheletro delle piattaforme senza riempirle di addon che le renderebbero sempre più un videogioco anziché un gioco di ruolo dal vivo.
È l’algoritmo dei nostri tempi: le possibilità aumentano e gli strumenti sono sempre più multimediali, ma fortunatamente possiamo utilizzarli un po’ come ci pare. E meno male.
Così come i libri, i film, le serie TV e tutte le altre forme d’arte, anche il mondo dei videogiochi è fatto da artisti: professionisti che con il proprio ingegno creano opere che saranno ricordate nella storia. Uno di questi, classe 1970, è Todd Andrew Howard, attualmente executive producer diBethesda Game Studios.
Howard da quasi trent’anni crea videogiochi che hanno formato generazioni di gamer e cambiato il concetto stesso di videogame. Fino ad oggi, la sua carriera è stata monolotica: ha mosso i primi passi nel 1994 proprio presso Bethesda Softworks scalando tutta la catena di comando fino a diventare, nel 2001, il capo dello studio interno della compagnia.
Ritengo che valga la pena raccontare la sua vita lavorativa e penso che raccontare le sue opere migliori sia il modo migliore per farlo.
The Terminator: Future Shock
Howard inizia la sua avventura in Bethesda Softworks come videogame producer – figura che si occupa di visionare il lavoro svolto da tutti gli sviluppatori – con The Terminator: Future Shock, first-person shooter uscito nel 1995 su PC.
Future Shock è ricordato come uno dei primi veri giochi con un mondo realmente a tre dimensioni e nemici poligonali. Nello specifico, la prima opera di Howard accompagnava a un’ottima grafica anche un comparto sonoro incalzante e un mondo di gioco di elevata qualità, ma òa più grande rivoluzione fu nel gameplay: The Terminator Future Shock è uno primissimi FPS in cui ci si spostava con la tastiera e ci si guardava intorno con il mouse.
Le migliori riviste del settore lo hanno recensito con voti decisamente alti (Gamespot: 84; PC Gamer UK: 92%).
6. The Elder Scrolls II: Daggerfall
Nell’eterna lotta per il titolo di miglior Elder Scroll tra Morrowind e Skyrim, c’è ancora qualche veterano che aggiunge questo outsider, che per Todd Howard sarà l’ultima esperienza come producer.
Daggerfall ebbe un enorme successo sin dal 1996, anno di rilascio, sia in termini di vendite che di critica. Oggi è facile pensare la serie di Elder Scrolls come la massima espressione di libertà in un gioco di ruolo, ma fu proprio il secondo capitolo della serie che permise di ottenere questa etichetta grazie alla possibilità di viaggiare tra due province composte da 15.000 tra città, villagi e dungeon (libertà mai superata).
The Elder Scrolls II: Daggerfall vendette per anni: dalla sua uscita fino al 2000, Bethesda ha dichiarato che Daggerfall abbia venduto oltre 700.000 copie.
5. The Elder Scrolls IV: Oblivion
Tra Morrowind e Skyrim vi è una gemma del 2006 che è stata (parzialmente) dimenticata nonostante abbia una delle caratteristiche più rare in assoluto: un’intelligenza arficiale fantastica.
Oblivion ebbe voti altissimi da parte della critica, ma paga lo scotto di essere stato poco memorabile. La community videoludica ha sempre dato più peso alle troppe similarità con Morrowind e troppa poca importanza a Radiant AI, l’intelligenza artificiale usata successivamente anche su Skyrim e Fallout 3.
Personalmente ritengo Oblivion un’opera fondamentale: avvincente, ricco e pieno di libertà, ma anche punto di partenza per opere ancora più ambiziose come Fallout 3 e Skyrim.
4. The Elder Scrolls III: Morrowind
Nel 2002, Todd Howard diventa project leader del nuovo capitolo di Elder Scrolls, uno dei più amati di sempre soprattutto se si pensa che per molti aspetti vi fu un passo indietro rispetto al suo predecessore.
Morrowind è sempre stato definito come un gioco imperfetto: Daggerfall ha maggiori aree da visitare; il sistema di combattimento è peggiore di altri videogame dell’epoca (per esempio: Star Wars Jedi Knight II: Jedi Outcast). Nonostante questo però nessun videogioco dell’epoca è stato in grado di fornire un’atmosfera così intensa, unita a una libertà così elevata da rendere quasi superflua la quest principale.
In Morrowind puoi fare qualunque cosa e quindi anche vivere in un mondo fantastico senza fare assolutamente nulla, nemmeno portare avanti la trama principale se lo desideri.
3. Starfield
Starfield è l’ultima opera di Todd Howard. Uscito nel 2023, poco dopo l’acquisizione di Microsoft, Starfield mirava a essere la killer app di Xbox Series X/S. Dati alla mano, non possiamo definire Starfield il più grande successo economico degli ultimi anni. Parlando invece di qualità, Starfield ha alzato l’asticella del concetto di open world, definendo nuovi standard per gli open world e per l’esplorazione, non necessariamente apprezzati da tutti.
L’ambientazione spaziale di Starfield è il luogo perfetto dove far crescere un open world. Howard ha così creato un mondo di gioco che volesse essere senza confini, anche a costo di annoiare i giocatori meno propensi all’esplorazione; infatti, Starfield ha il pregio di essere ampio, ricco di cose da fare e posti da vedere. Però, molti di questi luoghi sono vuoti e lenti da visitare, così come lo sono molti dei pianeti del nostro universo.
Con questo videogioco, al netto di un trama e quest secondari comunque avvincenti, Todd Howard ha voluto riprodurre l’universo per come lo conosciamo. Il risultato è un’avventura divertente, appagante ma che alla lunga può annoiare chi avesse aspettative maggiormente votate all’azione.
2. Fallout 3
Nel 2008, dieci anni dopo il secondo capitolo e quattro anni dopo che Bethesda ottenesse i diritti della serie, Fallout 3 vede la luce e Todd Howard diventa per la prima volta game director di un’opera videoludica.
Il terzo capitolo di Fallout è totalmente diverso dai suoi predecessori, ma ha saputo evolvere la saga verso la giusta direzione trasformando un gioco di ruolo isometrico in un open world in cui funziona bene sia la parte FPS che quella da Action RPG.
1. The Elder Scrolls V: Skyrim
The Elder Scrolls V: Skyrim ha rivoluzionato il concetto di open world e di senso di libertà all’interno di un gioco di ruolo.
Il quinto capitolo della saga principale di Todd Howard ha l’enorme pregio di garantire massima libertà, al limite del glitch; infatti, abbracciando il concetto di sandbox, Bethesda ha dato ai videogiocatori degli strumenti e una mappa totalmente aperta da esplorare a proprio piacimento. Il risultato finale sta nella volontà del giocatore. Qualcuno ha preferito completare la quest principale e poi esplorare il mondo. Altri sono arrivati alla fine della trama soltanto dopo centinaia di ore.
In Skyrim puoi fare letteralmente quello che ti pare. Il gioco ti lascia la possibilità di seguire il percorso principale oppure rompere il gameplay tutte le volte che ne hai voglia. Questo senso di libertà ha permesso ai videogiocatori di amare gli open world non per la loro grandezza, ma per il più profondo senso di libertà che dovrebbero concedere. E per tanti anni, cioè dal 2011 a oggi, The Elder Scrolls V: Skyrim è stato, ed è, fonte di ispirazione per tanti altri videogiochi, anche di altissimo livello (due su tutti: The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Tears of the Kingdom).
Baldur’s Gate 3 ha risvegliato in molti, e fatto scoprire a tanti altri, la voglia di giocare ai videogiochi di ruolo. Ormai è stato detto e ridetto: il titolo ha sconvolto tutti, grazie da un gioco completo già al day one, senza dlc (se ce ne saranno, in futuro, sarà per espandere il gioco) e soprattutto dimostrando che un gioco senza microtransazioni funziona bene e invoglia all’acquisto.
Insomma, una vera e propria lezione di stile, impartita con una forza tale che, probabilmente, ora le grandi case saranno costrette a rivedere qualcosa sulle modalità di lancio dei propri titoli. Ma c’è chi questo lo faceva già prima di Baldur’s Gate, senza però aver ottenuto la stessa risonanza che ha avuto l’ultimo titolo di Larian Studios.
L’esplosione di BG3 ha aperto sicuramente una nuova stagione per gli rpg a turni, con movimento tattico, esplorazione, personalizzazione dei personaggi e possibilità di “piegare” la storia a proprio piacimento, grazie alle decisioni del giocatore e alle abilità dei personaggi con cui si decide di comporre il proprio gruppo. Per questo abbiamo deciso di rispolverarne qualcuno, neanche troppo datato, che finora hanno portato alta la bandiera del genere.
10 – Solasta: Crown of the Magister
Solasta: Crown of the Magister è stato un buon tentativo di trasposizione delle regole della 5 SRD (System Reference Document), ossia delle linee guida per la pubblicazione di contenuti sotto la OGL. Il videogioco di ruolo, prodotto da Tactical Adventures, si propone come una trasposizione del classico rpg da tavolo di quinta edizione, in un mondo originale.
Tira iniziativa, fai attacchi di opportunità e stabilisci la posizione dei personaggi, ma non solo: devi anche compiere scelte e decidere il tuo destino.
La peculiarità del gioco è la pubblicazione periodica di Dlc che offrono vere e proprie campagne tutte nuove, tra loro indipendenti, offrendo ai giocatori avventure sempre rinnovate.
Resta però il problema di un party pregenerato, con personaggi troppo silenziosi e con zero interazioni.
9 – Enchased: A Sci-Fi Post Apocalyptic RPG
Cambia l’ambientazione e cambiano tutte le regole (rispetto a BG3) ma restano la componente isometrica, il combattimento a turni e le scelte che determinano la storia.
Si tratta di Encased: A Sci-Fi Post-Apocalyptic RPG, gdr tattico e fantascientifico che è ambientato in un mondo distopico, dove si combattono nemici, si esplorano grandi aree “aliene”, si livella il proprio personaggio e si sceglie a quale fazione di sopravvissuti strizzare l’occhio e a quale tagliare le gambe.
Tra pistole laser e le immancabili armi da mischia, anche il carisma fa la sua sporca figura: a volte la lingua ferisce più dell’acciaio.
Fabbricare oggetti, combattere e negoziare sono le parole d’ordine di questo gioco che ha tanto da offrire.
8 – Tyranny
Il titolo di Paradox e Obsidian, pubblicato nel 2016, catapulta il giocatore in un mondo in cui la grande guerra tra il bene e il male è appena finita. E ad aver vinto è stato il male.
Il nostro personaggio si troverà di fronte ad un mondo che reagisce attivamente alle sue decisioni, viaggiando per un regno dove potrà ispirare lealtà o terrore.
Insomma, la piega che la storia può prendere è tutta in mano al giocatore, con un sistema di combattimento tattico, ma in tempo reale con pause.
La vera innovazione è che qui, più che in ogni altro gioco di ruolo, non solo le scelte contano, ma è proprio su questo aspetto che si focalizza il titolo, che grazie a questa meccanica presenta un’alta rigiocabilità.
7 – Disco Elysium
Qui parliamo di un piccolo gioiello, tanto caotico quanto affascinante. Figlio d’arte di titoli come Planescape: Torment, a cui è fortemente ispirato, si presenta come un gioco di ruolo non tradizionale: i combattimenti sono praticamente assenti.
Il videogiocatore si troverà a interagire con il mondo moderno e distopico attraverso un detective che ha perso la memoria, in un mondo moderno e distopico, affrontando la maggior parte dei casi tramite i dialoghi e test di abilità, muovendosi in un quartiere di una città che si sta ancora riprendendo dalla guerra.
Non mancano elementi che strizzano l’occhio all’horror e la modalità open world lascia grande spazio di manovra ai giocatori.
6 – Wasteland (2 e 3)
Dura la vita dei Desert Ranger: tra banditi, mostri, macchine impazzite e quant’altro, girare tra l’Arizona e il Colorado è un inferno. Fortunatamente, ormai non ci sono più regole: anzi, le regole le fate voi.
Succede questo in Wasteland 2 e 3, rpg isometrici con combattimenti a turni e dove “choice matters”, in cui coordinerete una squadra di Desert Ranger (tra personaggi da voi generati e png che potrete scegliere di portare con voi) in un mondo post apocalittico, dove potrete essere i buoni, i cattivi, i menefreghisti… quello che volete.
Il gioco permette anche una modalità multiplayer e, come segno distintivo del terzo capitolo, inserisce la possibilità di personalizzare il veicolo utilizzabile per viaggiare, immagazzinare scorte e anche per combattere.
Pillars of Eternity è stata una sfida: è un gioco tutto nuovo, che a parte i pilastri del gdr isometrico a turni, presenta una serie di novità anche complesse da digerire.
Un esempio è il sistema di regole, non esattamente intuitivo, che potrebbe allontanare più di qualche giocatore non così devoto alla causa dei giochi di ruolo da mettersi a “studiare”.
Eppure, entrambi i titoli portano sullo schermo due storie, tra loro collegate, tra le più avvincenti ed originali di sempre. Tanto basterebbe per divorarli tutti e due, ma bisogna ammettere che, una volta capito, il sistema di regole funziona e permette anche di sbizzarrirsi in build divertenti.
Inizialmente il gioco non era pensato per essere un turn based combat: la modalità è stata inserita in un secondo momento (almeno per il primo capitolo), e ciò permette anche di giocare i combattimenti di entrambi i titoli in real time.
Inoltre, per non farci mancare nulla, se nel primo titolo sarete chiamati a ricostruire una fortezza perduta e piena di mistero, nel secondo potrete solcare i mari a bordo del vostro vascello (personalizzabile e gestibile nei dettagli, anche assumendo i membri dell’equipaggio).
4 – Pathfinder Kingmaker e Wrath of the Righteous
Nato come un’alternativa a Dungeons & Dragons 3.5 (e poi proseguito per conto suo), Pathfinder si è imposto nel mondo del gdr cartaceo come grande competitor del titolo di Wizard of the Coast, puntando molto anche sul comparto videoludico.
I titoli Kingmaker e Wrath of the Righteous, arrivarono in un momento (2018 e 2021) in cui c’era forte carenza della trasposizione dei manuali sullo schermo di pc e console. Anche qui, la ricetta è quella già citata: personalizzazione del proprio personaggio e del party, i combattimenti sono a turni, la visuale è isometrica, le scelte determinano il destino dei personaggi (e del mondo) e così via.
Cos’hanno di diverso dagli altri rpg? Entrambi i giochi presentano delle aggiunte singolari e difficilmente individuabili in altri giochi del genere: mentre esplorate dungeon o città e vi perderete in una chiacchiera con png interessanti, in Kingmaker sarete chiamati a gestire un regno e le città che costruirete entro i suoi confini, mentre in Wotr sarete a capo di una crociata (sì, di un vero e proprio esercito) contro i demoni pronti a devastare il mondo. Anche qui, è possibile scegliere se combattere in real time o a turni.
3 – Baldur’s Gate (1 e 2)
Con questi titoli ci siamo allontanati molto dall’incipit: i primi due capitoli di Baldur’s Gate non hanno nulla a che vedere con l’ultimo capolavoro di LarianStudios, se non l’ambientazione. A separare i titoli di Black Isle dal terzo capitolo della saga ci sono ben 23 anni, tre edizioni di Dungeons & Dragons (in questo caso parliamo della 2°), manca completamente la modalità a turni.
Nonostante ciò, questi sono due gioielli, tra i primi videogiochi ad aver portato su pc la possibilità di plasmare la storia a proprio piacimento, grazie ad una vasta possibilità di scelte a disposizione del giocatore. I personaggi che accompagnano il protagonista sono molti, bisognerà decidere chi portarsi, mentre chi viene lasciato dietro non starà comodamente ad attendere in un accampamento accessibile tramite un pulsante nell’interfaccia.
Inoltre, ognuno dei companions ha propri obiettivi e desideri che, se non assecondati, li porterà addirittura a lasciare il party. La storia è da 10 e lode (BG2 è un proseguo del primo capitolo in questo caso) ed entrambi sono giochi che devono essere recuperati da chi non li ha mai giocati.
E nel caso vi trovaste bene con BG I e II, è il caso di provare anche i “fratellini” Icewind Dale I e II: un gioco pressoché identico, ma questa volta ambientato nelle Terre del Vento Gelido (sempre nel Faerun, enorme continente del mondo di Dungeons & Dragons), a migliaia di chilometri di distanza dall’Amn e la sua capitale, Baldur’s Gate.
2 – Planescape Torment
Questo titolo poteva essere inserito nel paragrafo dedicato a BG I e II (e Icewind Dale I e II), in quanto prodotto negli stessi anni (1999) sempre dalla Black Isle Studios, seguendo le stesse regole della seconda edizione di Dungeons & Dragons e presentandosi graficamente come un’estensione dei giochi sopra citati.
Ma Planescape Torment è un gioco a sé, un piccolo capolavoro che emerge da tutti gli altri titoli. A fare da padrona in questo mondo è la storia, dove i combattimenti ci sono, ma possono essere evitati e soprattutto non sono prominenti.
Il personaggio non viene creato soltanto ad inizio gioco, ma anche durante il gioco stesso: prendendo il controllo di The Nameless One, un essere immortale che dimentica qualsiasi cosa se ucciso (per poi tornare in vita, ovviamente), camminerete tra le strade della città di Sigil e negli altri piani dell’esistenza, cercando di ricostruire la memoria del protagonista.
Il nostro protagonista incontrerà diversi personaggi molto particolari (teschi che volano e parlano, succubi e tante altre stranezze), che potranno accompagnarlo nel suo viaggio. Molti di questi lo hanno già incontrato in passato, alcuni sono stati influenzati dalle sue azioni in qualche modo, ma lui non se lo ricorda.
1 – Divinity Original Sin (1 e 2)
Non potevano che stare sul podio questi due capolavori che probabilmente hanno permesso alla Larian Studios di diventare la “prescelta” per la realizzazione di BG3. I giochi differiscono sicuramente per meccaniche, con il secondo capitolo in cui è stata migliorata e potenziata la già validissima giocabilità del primo, che ancora oggi merita di essere giocato e rigiocato più volte.
I due capitoli non sono uno il continuo dell’altro, ma ci sono temi che ritornano e che fanno capire al giocatore di essere immerso in un mondo complesso, ma affascinante. In entrambi i giochi le proprie scelte fanno la differenza e il mondo circostante cambierà in base ad esse, ma è nel secondo capitolo che si fa più imponente la presenza dei personaggi pregenerati (che, come in BG3, possono anche essere selezionati alla creazione del personaggio come protagonista).
Rispetto al mastodontico Baldur’s Gate 3 manca la meccanica del salto, che ormai ha assuefatto tutti, ma c’è una cosa che i Divinity hanno in più rispetto all’ultimo titolo Larian: non esistono classi (guerriero, stregone, warlock etc.), bensì ogni personaggio può essere modellato a proprio piacimento, andando ad investire punti in diverse scuole di magia o arti da guerra al level up. Volete un paladino che, oltre a spada e scudo, scaglia lance di ghiaccio? Un arciere necromante? Un ladro evocatore? Sì, potete farlo.
Di rado mi è capitato di dovermi prendere una pausa da un gioco perché ci sono troppe cose da fare. Poi è arrivato Baldur’s Gate 3, che per me è stata una grande scommessa: temevo che Larian Studios, autore di quei capolavori di Divinity Original Sin 1 e 2, avrebbe risentito del peso di un’eredità così grande, quella di dover dare un degno sequel ai titoli BioWare del 1998 e 2000. E invece, anche questa volta, hanno colpito nel segno.
Un mondo aperto
Dicevamo: Baldur’s Gate 3 è enorme, con un’infinità di cose da fare e di possibilità. Già al primo atto sembra di aver giocato due giochi anziché uno. Tantissime quest, tutte risolvibili (e fallibili) in svariati modi e che aprono a numerosi finali: si ha davvero la percezione di essere il protagonista di un mondo “aperto”, nel senso che tutto ciò che circonda il nostro personaggio e i suoi compagni (che si tratti di ambiente, npc e creature) reagisce alle nostre decisioni, sia nel breve periodo che a lungo termine.
E la cosa pazzesca, sicuramente una novità per chi non ha provato i precedenti titoli di Larian, è che si può veramente interagire con qualsiasi elemento nei modi più disparati. I dungeon hanno almeno un paio di entrate (se dice bene), se si hanno le magie o le pozioni giuste si può parlare con gli animali e aprire altre quest o scoprire segreti, si può provare a rubare ad un vendor e darsi alla fuga prima che si venga scoperti e così via.
Ma ancora più importante, è che il personaggio diventa realmente un’estensione giocatore. Anche i personaggi pregenerati, che hanno un loro background, vedranno la propria storia evolversi in base alle decisioni prese dall’utente. Volete essere dei paladini che aiutano i più deboli o dei ladri menefreghisti il cui solo interesse è il vil denaro? O addirittura dei malvagi warlock che si fanno gioco di innocenti? Sì, potete fare tutto questo, anche mescolando le parti.
Il peso di Dungeons & Dragons
La prima domanda che mi sono posto, quando ho iniziato il gioco, è stata: quanto bisogna conoscere la quinta edizione di Dungeons & Dragons per poter viversi questa avventura alle porte di una delle più grandi città del Faerun? La prima risposta è stata: se non conosci D&D, non ci capisci niente.
Ne parlavo con Alessandro, che era con me su Discord mentre ognuno giocava la sua partita in single player. Lui, della quinta edizione, ne sa molto più di me, visto che io ho virato su altri giochi di ruolo cartacei quali Pathfinder, per citarne uno. E infatti lui andava spedito. “Ai barbari l’armatura praticamente non serve”, mi ha raccontato, così come mi ha spiegato che un’arma versatile può essere impugnata sia a una che a due mani.
Insomma, se proprio vogliamo trovare un neo, bisogna ammettere che Larian è stata un po’ avara di spiegazioni, rendendo il tutorial una vera e propria sintesi delle regole del gioco cartaceo di cui Baldur’s Gate rappresenta una trasposizione estremamente fedele. La prima impressione è che si trattasse di un gioco di nicchia, solo per nerdoni da tavolo come me.
Poi è arrivato Sabba, un altro amico, anche lui su Discord per condividere la sua esperienza di gioco con noi altri. Era preso, anzi presissimo, e la cosa bella è che lui, di D&D, ne avrà sentito parlare per sbaglio mezza volta. Insomma, mi sbagliavo: Baldur’s Gate 3 può essere giocato da chiunque, anche se bisogna andarsi a leggere qualche spiegazione qua e là sul web, ogni tanto.
Paladino, sempre e per sempre
Ho passato un’ora buona a pensare al personaggio che mi sarei fatto. I pregen? Bellissimi, ma non mi convincono quanto Ifan, Principe Rosso o Fane (i personaggi di Divinity Original Sin). Allora ho puntato all’Oscura Pulsione, l’unico pregenerato personalizzabile di origine e classe. Spulcio tutte le classi, ma niente da fare: non riesco a non giocare il paladino.
Sono Kaldor, un dragonide d’argento, che segue la via della Vendetta. Armi a due mani, ovviamente, perché il Punire il Male deve arrivare chiaro e forte al nemico. Inizio a girare, speravo di ritrovarmi subito dentro Baldur’s Gate, come accadeva nel secondo capitolo della saga, ma niente: sembra che dovrò attendere un po’.
Non so se la cosa mi piace: l’idea di poter girare sin da subito nella metropoli, con la possibilità di uscire ed esplorare le terre selvagge mi stuzzicava alquanto, invece Larian ha deciso di mantenere la formula dei Divinity: grandi mappe, tra loro suddivise, ognuna delle quali rappresenta un diverso atto della storia. E se la cosa mi era piaciuta nei precedenti giochi della Larian, questa volta mi ha un po’ scombussalto.
Questo non significa, però, che il gioco non mi piaccia. E’ bello, bellissimo, enorme. Ero arrivato anche a buon punto nella prima run, quando ho deciso di ricominciarlo, perché pensavo che lo stessi rushando troppo (e sono tutt’altro che uno speed runner).
E quanto avevo ragione: mi ero perso un mondo di segreti e di dialoghi. Insomma, togliamoci dalla testa il “minmaxare” e qualsiasi altra forma di pro-playing: Baldur’s Gate 3 va goduto. E il tasto skip dovrebbe essere vietato.
Lunga vita ai gdr
È un po’ che gli amanti del genere aspettavano un nuovo titolo di questa portata. Dopo i già stracitati Divinity o i Pillars of Eternity, senza contare gli “extra fantasy” come per esempio Wasteland 3, gli amanti del turn based combat miscelato all’esplorazione libera e alla scoperta di segreti erano rimasti a bocca asciutta da troppo tempo.
Si tratta di una platea che adesso è sicuramente aumentata a dismisura: basti pensare che Larian Studios, che di gdr di questo tipo ne sa qualcosa, si aspettava un bacino di utenti pari a centomila giocatori al lancio, e invece se n’è trovata otto volte tanti.
L’effetto hype lo conosciamo tutti: è successo anche con Diablo IV (Recensione) dove però, a mio modesto avviso (purtroppo non solo mio, in realtà), si è spento subito, ancor prima della stagione 1.
Con Baldur’s Gate le cose cambiano, perché oltre all’hype c’è anche della sostanza. Un numero incredibile di possibilità, che rende ogni nuova run un’esperienza quasi del tutto nuova. Evviva Baldur’s Gate 3!
E anche quest’anno l’estate è finalmente arrivata! Dopo tanto duro lavoro, i caldi mesi estivi sono l’occasione perfetta per godersi un po’ di riposo e vivere allegre serate in compagnia. E quale occasione migliore per riscoprire il genere videoludico che più di ogni altro è pensato per le partite di gruppo? Sto naturalmente parlando dei videogiochi party, più comunemente chiamati party game.
Si tratta normalmente di titoli strutturati come un vero proprio insieme di sfide e minigiochi, in cui più che la profondità della trama o la complessità del gameplay a farla da padrone sono l’intuitività e il divertimento.
Ma quali sono i migliori party game attualmente disponibili? Il nostro articolo si occuperà proprio di proporre una carrellata di quelli che a nostro giudizio sono i titoli più belli e divertenti da giocare in gruppo. Prepariamo i nostri occhiali da sole e le nostre bibite e uniamoci alla festa!
Mario Party Superstars
Super Mario è da sempre una grande star dei Party Game
Prima menzione quasi obbligatoria per quella che è la saga di party games per antonomasia, ovvero la serie Mario Party. Iniziata nel 1998 su Nintendo 64, questa serie vanta ben 17 episodi, usciti praticamente su ogni console Nintendo, sia casalinga che portatile.
Ogni Mario Party tende a riproporre, con piccole varianti, la stessa formula. Quattro giocatori si trovano a sfidarsi su un enorme tabellone in cui muovono il loro personaggio in base al risultato del lancio dei dadi. Dopo che ogni giocatore ha tirato, viene attivata una sfida che coinvolge tutti e quattro i partecipanti. Vince la partita chi riesce a raggiungere il traguardo col punteggio più alto.
Con l’evolversi della saga, la grafica è divenuta sempre più definita e spettacolare e i vari minigiochi si sono fatti più vari e complessi. Abbiamo scelto di premiare l’ultimo capitolo della saga, ovvero Mario Party Superstars, uscito nel 2021 su Nintendo Switch.
Superstas contiene tutto il meglio che Mario Party abbia da offrire, con una caterva di minigiochi, una grafica colorata e piacevole, un roster di tutto rispetto e soprattutto tanto, tanto divertimento. Se amate Super Mario considerate seriamente di recuperarlo. Il divertimento sarà garantito!
Just Dance 2023 Edition
Just Dance è proprio quel che ci vuole per animare una festa.
Se c’è un gioco che più di ogni altro si è dimostrato in grado di catturare qualunque tipo di casual gamer, quello è senza dubbio Just Dance. L’utilizzo massiccio di questo gioco nei centri estivi e nelle feste ne è la prova più lampante.
Nata nel 2009 su Nintendo Wii, la fortunata saga musicale di Ubisoft è riuscita a spopolare tra gli amanti della musica e del ballo, in particolare tra il pubblico femminile.
Le premesse di Just Dance sono semplicissime: armati del nostro controller (che deve necessariamente essere munito di sensore di movimento) non dovremo fare altro che mimare i movimenti delle sagome colorate che animeranno le canzoni contenute nel gioco.
Più precisi saremo nei nostri movimenti, più alto sarà il punteggio. Oltre al tempismo, avrà grande importanza nella valutazione finale la nostra abilità di muoverci a tempo con la musica della canzone.
Questo concetto, di per sé semplicissimo, si è rivelato assolutamente vincente e ha garantito a Just Dance un successo incredibile, al punto che la serie vanta ben quattordici capitoli.
L’edizione 2023, disponibile su Switch, PS5 e Xbox Series X/S, svanta ben 40 canzoni, a cui si aggiungono 12 versioni alternative di esse. Pronti a scendere di nuovo in pista? O le vostre capacità di ballerini non sono all’altezza?
Mario Kart 8 Deluxe
Mario Kart 8 è davvero un evergreen che non può mancare in nessuna libreria Switch.
Come immagino tutti sappiate, Mario Kart 8 è principalmente un gioco di guida. Tuttavia, l’enorme mole di armi e power up, la follia delle piste e il grande divertimento che pervade ogni corsa hanno più di una caratteristica in comune col genere dei Party Game.
Tutti i circuiti del gioco, infatti, sono disseminate di bonus e potenziamenti, spesso in grado di ribaltare totalmente le sorti di una gara, sebbene alla fine l’abilità del pilota abbia sempre (o quasi) l’ultima parola.
Mario Kart 8 offre sicuramente il meglio di sé nella modalità multiplayer a schermo diviso, che ormai da anni regala sfide all’ultimo sangue in grado di rovinare anche le amicizie più salde (o chissà, magari di rafforzarle!).
Nonostante la versione switch sia uscita da ormai 6 anni, Mario Kart 8 è tutt’oggi il gioco Switch più venduto in assoluto, a dimostrazione dell’incredibile divertimento e coinvolgimento che sa offrire, soprattutto se giocato in compagnia.
Pronti a lanciarvi in incredibili sfide all’ultimo guscio?
Overcooked: All You Can Eat
Ecco un gioco per tutti gli amanti della buona cucina.
E dopo danze sfrenate e folli corse in kart cosa c’è di meglio di una bella sfida culinaria? Nata nel 2016 su PS4, Xbox One, Switch e PC, la saga di Overcooked propone una serie di divertenti minigiochi, tutti ambientati in cucina.
Nei panni del nostro chef, dovremo soddisfare le sfide più disparate, che riguarderanno sia il tipo di piatto da realizzare, sia la velocità con cui prepararlo, sia la gestione degli angusti spazi della cucina.
Come ogni Party Game che si rispetti, Overcoocked dà il meglio nella modalità multiplayer, pensata originariamente per essere una sfida cooperativa, anche se esiste pure una modalità competitiva.
Overcoocked ha goduto di un sequel, nel 2018, mentre nel 2020 è uscita la versione All you can eat, che raccoglie insieme tutte le sfide e i minigiochi dei primi due episodi. Questa versione è disponibile per praticamente ogni sistema presente sul mercato, quindi se siete amanti della cucina o semplicemente cercate un passatempo per divertirvi in compagnia non potete assolutamente lasciarvelo scappare!
Move or Die
Move or Die è un gioco davvero in grado di rovinare ogni amicizia.
L’idea alla base di Move or Die è semplicissima. Alla guida di piccoli blob colorati, quattro giocatori si trovano all’interno di uno stage. L’energia di ognuno dei blob inizia subito a calare inesorabilmente, a meno che il giocatore non si mantenga in costante movimento. Sebbene a parole sembri semplice, i livelli sono infarciti di ostacoli, piattaforme mobili e impedimenti di ogni genere, che vanno ad ostruire costantemente i movimenti dei giocatori.
Allo scadere del tempo vincerà il giocatore con il livello di energia più alto. Naturalmente ogni giocatore avrà la possibilità di ostacolare gli altri blob, dando vita a battaglie selvagge e frenetiche che spesso saranno decise da pochissimi pixel di energia.
Move or Die è uscito originariamente su PC, ma è ora disponibile anche per PS4, Switch e per i vari dispositivi Android. Se ve lo siete perso recuperatelo assolutamente, a patto di essere dotati di una bella dose di pazienza!
Nel profondo dei Caraibi, l’isola di Melee, al di là del Mare dei Ladri, nel limbo onirico del Mare dei Dannati…No, non sono ubriaco a causa di fiumi di Grog e non sto confondendo Sea of Thieves con la saga di Monkey Island.
Premessa
Rare Software, come promesso da Microsoft nell’ultimo Xbox Showcase, ci ha deliziati con un DLC per Sea of Thieves ambientato nientepopodimeno che nell’universo di Monkey Island. Un DLC in tre atti che verranno rilasciati a distanza di circa un mese l’uno dall’altro. Scommettiamo che l’attesa sarà spasmodica?
E relativamente importa che, purtroppo, non sia stato tirato in ballo Ron Gilbert, ideatore dei primi due capitoli della storia e dell’ultimo, Return to Monkey Island, targato Devolver Digital epilogo reale della saga (di cui abbiamo già parlato), avrebbe certamente dato quel tocco di classe in più, ma a conti fatti, Rare, è riuscita nel migliore dei modi.
La storia, a mio avviso infatti, è scritta molto bene e cosa ancora più “magica”, anche se, forse, il voodoo non c’entra nulla, è che Sea of Thieves, da gioco cooperativo e fondamentalmente di azione, viene reso a tutti gli effetti, un’avventura grafica, omaggio sia alla saga di Monkey Island, sia a tutte le avventure grafiche spuntate a cavallo tra gli anni 80 e 90.
Melee, Return to Monkey Island
Capitolo 1
Il 20 luglio è stato quindi il giorno di The Legend of Monkey Island, come dicevo, primo di tre DLC. Da appassionato della saga, ho approcciato al gioco con il giusto scetticismo, seppur con quella fibrillazione tipica di un bambino che scarta il suo regalo di Natale.
Sea of Thieves mi ha, sin da subito, lasciato con luci ed ombre. La mancata possibilità di salvare la partita, costringendo di fatto a ricominciare le missioni quasi sempre da zero, l’enorme libertà lasciata al giocatore che rende ostica (almeno per me) la comprensione di come accettare missioni e come seguire la mappa, la spiccata indole multiplayer e l’enormità delle cose da fare si scontrano con un’atmosfera piratesca unica, una navigazione di bordo davvero soddisfacente e tutta una serie di allusioni e ambientazioni che solo un appassionato di pirati può davvero comprendere.
Capitolo 2
Dopo l’abituale scenetta post scelta missione, in cui si capirà che Guybrush è rimasto intrappolato in una sorta di dimensione dei dannati per colpa del solito cattivone LeChuck e che proprio voi avrete l’arduo compito di salvarlo, eccoci a navigare quindi nel Mare dei Dannati alla volta di Melee Island.
Ancor prima di scorgere l’isola, una voce, quella di Guybrush…voce familiare, che riscopre antiche emozioni…Dominic Armato! Il doppiatore ufficiale di Guybrush Threepwood. Rare ha fatto le cose in grande penso. Ed eccola che spunta dalla nebbia, i colori diventano più scuri, lasciando finalmente vedere la bellissima volta stellata che sovrasta il mare dei Caraibi con la “classica” Luna, più grande del normale.
L’isola di Melee, in tutto il suo splendore, con le luci in lontananza al posto giusto, con il porto al quale finalmente, dopo tanto averlo vissuto in 2D, attraccherò. I dubbi svaniscono come un fantasma colpito da birra di radice e non vedo letteralmente l’ora di mettere piede sulla terraferma.
Guybrush Threepwood
Capitolo 3
Appena attraccato, non senza poche difficoltà nello stretto porto di Melee, mi guardo intorno e faccio quello che ogni rispettato fan di Monkey Island farebbe, cerco di scorgere i luoghi familiari e inaspettatamente li riconosco tutti e la sensazione è quella di ritornare a casa.
Rare ha fatto un gran lavoro, è come se si prendesse l’ambientazione originale di Monkey Island e la si rendesse 3D, è tutto lì, al posto dove tutti se lo aspetterebbero. Impagabile è stata la scalata fino alla vedetta, cosa che nel gioco originale avveniva nel tempo di un micro caricamento.
Ci si gira intorno e già si sa cosa aspettarsi poiché è davvero tutto li, di nuovo, dopo più di trent’anni. In 3D. Con i personaggi sempre pronti, da anni ormai, a sparare battute pungenti, ligi al dovere (Chiedimi di Loom!).
Capitolo 4
Come dicevo all’inizio, Ron Gilbert non ha partecipato al progetto, ma ciò non ha impedito a Rare di cogliere sia l’atmosfera sia lo spiccato umorismo dei personaggi, calando il giocatore nel mood Monkey Island. Senza rivelare troppo della storia, posso dire che nonostante l’episodio sia corto e con enigmi alquanto semplici, è un piacere giocarlo.
Le musiche poi, cambiano da scena a scena in una sorta di nuova iMUSE. E, mentre i fan di vecchia data troveranno soddisfazione anche solo nel percorrere le strade di Melee, i nuovi giocatori potranno scoprire per la prima volta questo universo piratesco, molto, molto affine a Sea of Thieves.
LeChuck
Epilogo
Dispiace che in questo primo episodio i luoghi visitabili si limitino ad essere solo quelli della zona del porto fino alla casa del Governatore, ed è impossibile esplorare la restante parte dell’isola.
Anche se, dalla cima dove si trova la vedetta, si possono intravedere dall’alto i tendoni del circo dei fratelli Fettuccini).
Nonostante questo il DLC è un qualcosa di imprescindibile. Sea of Thieves sembra quasi come se sia nato con lo scopo, un giorno, di portarci qui, nell’universo di Guybrush Threepwood. Rare ha colto perfettamente nel segno, regalando a tutti gli appassionati di pirati una vera e propria perla. E non importa se siete fan di Guybrush o meno, la storia vi appassionerà.
Si è conclusa da poco la settimana più calda per il gaming internazionale. Dopo la dipartita dell’E3, il Summer Game Fest – coadiuvato dalle kermesse di svariati publisher – è ormai il massimo evento estivo in cui scopriamo i videogiochi che giocheremo nell’immediato futuro, o quasi. In questo articolo ho raccolto le impressioni, certezze, speranze e dubbi sugli eventi di maggior spessore: il Summer Game Fest, l’Xbox Games Showcase, l’Ubisoft Forward e il Capcom Showcase 2023.
Speranze e certezze
Le conferenze di queste ultime settimane non hanno mostrato tantissimi videgiochi superlativi, ma quando lo hanno fatto sono rimasto positivamente colpito.
Il videogioco su cui ho maggior certezze, nonostante siamo appena agli inizi, è Final Fantasy VII Rebirth. Il secondo capitolo della trilogia è ancora lontano – la data d’uscita è un generico 2024 – ma la sua presenza è pesante: Rebirth è l’unico gioco che già vedo con almeno una sfilza di nove nel suo background. Qualsiasi altro risultato sarebbe insoddisfacente. Il trailer del Summer Game Fest con Cloud, Tifa, Aerith ma soprattutto Sephiroth ha mostrato la volontà di Square Enix di continuare quanto ben fatto con il primo capitolo della triologia: Rebirth ha la mia completa fiducia.
Il secondo posto del meglio che ho visto va a Starfield. Ovviamente l’evento dedicato al gioco è di gran lunga migliore dei tre minuti di Final Fantasy, ma qualche dubbio ancora mi attanaglia: l’opera magna di Todd Howard è così bella da non sembrare reale. I diversi video di Starfield mi hanno detto che in questo videogioco si può fare letteralmente tutto: esplorare, combattere in prima e terza persona, costruire basi, avere dialoghi significativi e una personalizzazione unica del proprio personaggio. Sì, sembra il gioco definitivo non solo per gli appassionati di Xbox ma per qualsiasi videogiocatore. L’esperienza mi ha insegnato che fare qualcosa di così enorme, che non si limita a un open world ma bensì a intero universo, è veramente difficile; non sono ancora sicuro che sia veramente possibile. Ho bisogno di toccarlo con mano e per fortuna non mancata tanto: il 6 settembre potrò farlo.
Tra le solide certezze invece inserisco tre titoli che mi convincono sempre di più, trailer dopo trailer. Oggi voglio avere vita facile: al terzo gradino del podio metto Baldur’s Gate 3. Ormai in accesso anticipato da un bel po’ e in arrivo il 31 agosto, il gioco di ruolo di Larian Studios non è una novità, ma un videogioco che sicuramente giocherò. Scelta banale? Sì, ma sono sicuro che sarà vincente. Discorso simile, ma con meno certezze invece per Marvel’s Spider-Man 2 e Mortal Kombat 1. L’uomo ragno di Insomniac Games arriverà il 20 ottobre 2023 e credo che sarà un bel gioco. Durante il Summer Game Fest 2023 ho visto un gameplay solido e una resa grafica soddisfacente. Purtroppo ho qualche dubbio sull’innovazione che possa portare al genere, ma sarà un’opera da seguire e successivamente giocare. Sono del medesimo avviso per Mortal Kombat 1: la scelta di creare un universo parallelo non mi affascina e non mi aspetto grandi cambiamenti dal reboot: però è sempre MK e il trailer ha mostrato tutto quello che i fan vogliono: violenza, sangue e un macabro humor.
Anche se l’usato sicuro dei titoli appena citati ha avuto la meglio su di me, pongo comunque grandi speranze su Senua’s Saga: Hellblade 2. Sono uno dei pochi che non ha mai veramente amato il primo capitolo. L’ho giocato, l’ho trovato originale ma ho avvertito il senso di confusione della protagonista come un eccessivo ostacolo al gameplay. Discorso diverso per Hellblade 2; guardando il trailer ho provato un profondo senso di angoscia: non so se avrò voglia di provare queste sensazioni, ma ho percepito enormi passi in avanti nel suscitare emozioni, che alla fine è tutto quello che conta in un videogioco.
In fondo alla mia personale lista delle speranze, e in questo caso mi sento di dire “certezze”, posiziono Dragon’s Dogma 2: sono convinto che il nuovo capitolo del gioco di ruolo di Capcom ci sorprenderà. Un mappa più grande e un’intelligenza artificiale definita di “ultima generazione”. I fan avranno delle aspettative altre, ma al di fuori della propria nicchia non c’è tanta pressione: un enorme vantaggio perché questi ragionamenti hanno fatto passare in secondo piano un trailer convincente ma soprattutto ricco di parole importanti. L’intelligenza artificiale è fondamentale per i videogame. Ci potremmo svegliare al day one e scoprire che Dragon’s Dogma 2 ha rivoluzionato un pezzo di storia videoludica: sinceramente lo ritengo possibile.
Dubbi estivi
Può un open world su Guerre Stellari generare dubbi? In teoria no; in pratica voglio veramente andarci con i piedi di piombo con Star Wars Outlaws. Così come Starfield, l’open world di Ubisoft sembra essere il gioco definitivo. Nel video di presentazione all’Ubisoft Forward c’è tutto: esplorazione di pianeti, gunplay ricercato, viaggi nello spazio e combattimenti nello spazio. Se mi dovessi basare solamente sui video gameplay, Star Wars Outlaws finirebbe sul podio. Purtroppo però Ubisoft annacqua ormai da anni i suoi giochi con mondi aperti privi di carisma: temo che anche Outlaws venga sacrificato sull’altare dell’accessibilità a tutti i costi. Spero di sbagliarmi, ma oggi non mi voglio impegnare.
Un discorso simile mi sento di fare per Prince of Persia: The Lost Crown. In questo caso però ho voglia di credere nella rinascita del franchise. I miei dubbi nascono soprattutto dallo stile artistico scelto: a me piace, tanto, ma ricorda clamorosamente il ritorno di Crash Bandicoot con il quarto capitolo. E questo mi preoccupa: Prince of Persia non ha bisogno di prendere spunto da nessuno se non sé stesso. Il trailer non dice ancora molto, quindi per adesso è un interessante ma importante dubbio.
Prima di aprire l’antro delle paure personali, provo a respirare e parlare di un limbo che non mi dice ancora molto e che purtroppo temo non finirà bene. Vado sul sicuro affermando che il trailer di Avatar: Frontiers of Pandora è stato tremendamente scialbo. Mi è sembrato di tornare indietro di 20 anni e rivedere opere anonime come Harry Potter e La Camera dei Segreti. Un ragionamento simile ma più complesso invece va fatto per Lies of P. Il soulslike di Round8 Studio è sulla carta una gemma piena di carisma. In ogni trailer mostra il suo fascino ma puntualmente qualcosa mi dice che non sarà un’opera indimenticabile. Bioshock, Final Fantasy, Elden Ring: Lies of P mi ricorda i più grandi, ma le fasi di combattimento stanno sempre passando in secondo piano. Stiamo già mettendo mani alla demo, ma nonostante la resa stilistica, il carisma dei personaggi e le ambientazioni mozzafiato, preferisco prendere questo titolo con le pinze, ancora per un po’.
Dopo 10 anni di sviluppo, assenze importanti e rinvii lunghissimi, Ubisoft ha annunciato una closed beta di Skull & Bones, che si terrà dal 25 al 28 agosto 2023. Non è quantomeno curioso che un videogioco con queste vicessitudini si presenti in sordina a fine estate? Una decade di lavoro si presenta a Natale, se proprio vogliamo andarci leggeri possiamo pensare di venderlo in primavera. Ma agosto può significare solamente che anche Ubisoft ha forti dubbi. E anche io la penso come loro perché Skull and Bones, durante il Forward, è stato presentato con un trailer alle spalle di una band che cantava canzoni piratesche. Tutto si è visto e sentito fuorché il gioco, in una conferenza sui videogiochi. Strano? Decisamente.
Ora passiamo ai dolori: quei due videogame che ho visto e che mi fanno temere che l’attesa non sarà ripagata.
Partiamo dal primo: Alan Wake 2non mi ha convinto. L’opera di Remedy dovrebbe essere un mix bilanciato tra i survival horror di fine anni 90, Stephen King e film e telefilm cult tra horror e investigazione. Il risultato del breve gameplay del Summer Game Fest invece mi ha ricordato una versione annacquata di un qualsiasi remake di Resident Evil. Non è necessariamente un male, ma non è neanche un bene perché ho sentito mancare tante, troppe sfumature angoscianti che il primo Alan Wake mi ha saputo dare. Ripongo in Remedy ancora delle speranze, ma il 17 ottobre 2023 è vicino: spero solo che si tratti di una cattiva scelta di marketing, ma le premesse non mi hanno fatto impazzire.
Dulcis in fundo, o quasi: Avowed è ben lontano dall’essere pronto. Lo sapevo, ma non mi aspettavo nemmeno un trailer così mediocre. Da grande appassionato di Pillars of Eternity, l’idea di vedere una specie di The Elder Scrolls ambientato nel mondo di Eora è un sogno che si avvera, ma da quanto si è visto, Avowed sembra letteralmetne una mod di Skyrim, cioè un videogioco di 12 anni fa. Texture scarne, animazioni povere e ambientazioni disadorne. Sono cosciente che il piatto forte della casa è la trama, ma essa passa anche attraverso un mondo che la sappia valorizzare. In questo momento Eora è anonima, adesso come non mai il 2024 sembra troppo vicino.
“Bioshock”. Avrei potuto anche scrivere questa unica parola, chiudere qui l’articolo e non aggiungere altro. Già, perché per qualunque amante dei videogame di qualità Bioshock è storia, anzi, è leggenda.
Quello che leggerete d’ora in avanti sarà il variopinto elogio di una saga, “Bioshock”, “Bioshock 2” e “Bioshock – Infinite”, che mi ha appassionato come quasi nessun’altra e che mi ha piacevolmente costretto a giocarla e rigiocarla fino a scoprire ogni più piccolo segreto, ogni sfaccettatura, ogni singolo passaggio. Con “Bioshock” e i suoi sequel, infatti, non si vive semplicemente una storia, non si vestono soltanto i panni del protagonista di turno ma si affrontano i propri demoni, ci si interroga, spinti dalla trama, a fare i conti con sé stessi e ad interrogarsi su cosa, fino in fondo, sia la nostra natura umana.
La nascita del mito
Ma andiamo con ordine. Nel 2007, sviluppato da Irrational Games e pubblicato da 2K Games, arriva “Bioshock”, un FPS destinato a cambiare la storia degli sparatutto in prima persona e non solo. Il titolo ebbe l’effetto deflagrante di una bomba atomica in un mondo video ludico che attendeva con ansia un nuovo capolavoro di cui cibarsi con voracità. Il lavoro dei ragazzi dello “Scoiattolo Cieco” si rivelò subito un gioiello preziosissimo, sia per il comparto tecnico e la programmazione perfetta sia per il design dei livelli e degli straordinari personaggi. Fu così che tutte le riviste di settore non poterono far altro che dare votazioni altissime tanto da raggiungere la media di 97/100. L’acclamazione di “Bioshock” fu unanime, così come la soddisfazione dei videogiocatori di tutto il mondo che si trovarono per le mani uno dei migliori titoli mai realizzati.
Quando si dice il colpo di fulmine!
Successore “spirituale” di System Shock 2, Bioshock venne ideato per stupire la platea videoludica e trasportarla in una realtà distopica in cui il giusto e lo sbagliato vanno a fondersi in un’ipocrisia generale e folle.
Il capostipite della serie inizia con il protagonista Jack intento ad affrontare il dramma di un disastro aereo rimanendo miracolosamente illeso. Precipitato al largo nell’Oceano Atlantico, scorge un faro poco distante. Entrato poi in una batisfera, viene trasportato suo malgrado all’ingresso della città di Rapture obbligato così a scoprire i tremendi segreti di un mondo sommerso intriso di pazzia, disumanità e degrado sociale da cui dovrà evitare di essere inghiottito.
La prima avventura si dipana proprio all’interno di questa stupefacente e affascinante città sottomarina in cui, prima del decadimento, si erano riunite menti illuminate e geniali che avevano come discutibile scopo quello di poter sperimentare senza freni, slegati dalla morale e dalle leggi terrestri.
Scopriamo, ben presto, che l’inizio della fine fu la scoperta di una sostanza estratta da alcune lumache di mare, l’Adam. Tale sostanza agisce sull’organismo umano come una sorta di tumore benigno che sostituisce le cellule presenti con cellule staminali potenziate e instabili. Risultato? Tanti poteri ma anche demenza e follia. Questi poteri vengono chiamati “Plasmidi” e donano a chi li possiede (i ricombinanti) le capacità, tra le altre, di congelare, bruciare, fulminare e generare api assassine. Tali poteri vanno costantemente rimpinguati dalla droga Adam che, come ogni sostanza stupefacente, causa dipendenza. Ed ecco che Rapture, nata come città utopica con lo sguardo rivolto al futuro e alla tecnologia, diventa in breve tempo un enorme calderone di morte e pazzia in cui umani dissennati vagano senza meta per procurarsi una dose.
E già così, ammettiamolo, potremmo parlare di un’idea originalissima alla base di Bioshock. Già così potremmo parlare di capolavoro. Per fortuna, però, Bioshock non si limita ad essere uno sparatutto in soggettiva tecnicamente e visivamente splendido ma anche un gioco in cui la trama ci lascia a bocca aperta e che ci regala chicche splendide come i Big Daddy e le Sorelline a cui non possiamo che dedicare una sezione più in basso.
Un Big Daddy ci sta caricando…
Tralasciando i risvolti di trama, per i quali il sottoscritto vi consiglia caldamente di recuperare i titoli e giocarli, i due sequel procedono nel solco tracciato da “Bioshock”, regalandoci in Bioshock 2 la possibilità di vestire i panni di un possente Big Daddy senziente e, nel terzo, di vivere un’avventura splendida tra l’onirico e il magico, il tutto sapientemente curato da una regia politica che ne fa, probabilmente, il titolo più maturo dei tre.
Big Daddy & Sorelline, terrore e genialità
Come abbiamo detto, gli abitanti di Rapture sono ormai perduti, vittime dei loro stessi vizi e perennemente alla ricerca di Adam. E la loro ricerca si estende, in modo macabro e purulento anche nei cadaveri disseminati qui e lì per una città senza freni. Già, perché con uno strumento terrificante simile ad una pistola con un lungo aculeo finale è possibile estrarre i residui di Adam che scorrono nelle vene del defunto. I cadaveri, però, restano incustoditi e a disposizione di tutti solo per pochissimi minuti perché, a pochi minuti dalla morte, ecco arrivare le visioni più agghiaccianti e terribili che Rapture proponga: i Big Daddy e le Sorelline. I primi sono dei robot corazzatissimi e armati di trivella meccanica che hanno un solo scopo: difendere le bimbe che li accompagnano. Queste creaturine a prima vista sembrano delle dolci e innocenti bambine che però si rivelano esseri mutati geneticamente e riprogrammati per “fiutare” l’Adam ed estrarlo dai cadaveri con i loro arnesi.
Ecco una sorellina in tutto il suo macabro e tremendo splendore
Non nascondo che quando le incontrai per la prima volta restai pietrificato e provai una sensazione di terrore misto a fascinazione. È indubbio che, pur silenti, i Big Daddy siano personaggi straordinari, non a caso diventati ultra-famose icone pop più volte rappresentate e ben presenti nell’immaginario videoludico attuale.
Quando le parole “bene” e “male” non hanno più senso
Non starò qui a raccontare minuziosamente le trame di questi capolavori senza tempo a distanza di così tanti anni dalla loro uscita ma è necessario trovare all’interno di essi un filo conduttore dell’intera l’epopea di Bioshock: la difficoltà di distinguere il bene dal male. Cosa è giusto e cosa è sbagliato. Durante tutti i tre i giochi, infatti, saremo spesso chiamati a fare delle scelte difficili che potranno o non potranno rendere il nostro personaggio più forte e, di conseguenza, l’incedere tra i livelli più agevole. Saremo chiamati a scegliere se liberare le sorelline del loro mostruoso fardello regalando loro una nuova infanzia umana oppure ucciderle prosciugandole del tutto del prezioso Adam. Detta così, potrebbe essere semplice dire quale sia la scelta giusta ma, in realtà, siamo ben oltre i limiti dell’ovvio.
Le sorelline non sono biologicamente umane, anzi, sono completamente prive di umanità nel loro stato e ciò, convenzionalmente, non le porta allo status di esseri umani. Non sappiamo i risvolti reali della loro “redenzione” che, per mano nostra, potrebbe lasciarle in una sofferenza perenne e con enormi problemi di carattere psicologico e sociologico. Neanche la dottoressa che le ha create, Brigit Tenenbaum non sa realmente cosa le sorelline siano in realtà né tantomeno conosce la loro origine. Vale la pena rischiare la propria vita per salvare questi soggetti che potrebbero essere stati creati artificialmente in laboratorio? Sta a voi deciderlo… dilemmi etici di tale portata saranno ben presenti anche nei sequel in cui potremo o non potremo forzare la legge di Rapture e quella etica per andare avanti, oppure partecipare ad un golpe che possa favorirci. E’ tutto nelle nostre mani e i vari finali disponibili, che cambiano in base alle nostre scelte, rappresentano il giudizio finale sulle nostre azioni. Provare per credere.
Sono ambidestro e ve lo dimostro!
Spero che a questo punto via sia passato il messaggio che “Bioshock” e fratelli siano dei capolavori visionari e senza tempo ma non potevi esimermi dal parlarvi di una delle meccaniche di gioco più importanti nonché più iconiche e riconoscibili del gioco: il doppio attacco combinato.
Abbiamo detto in incipit che a Rapture abbiamo la possibilità di acquisire poteri straordinari chiamati Plasmidi e che questi siano alla base di tutti e tre i titoli. Ciò non implica, però, che i nostri protagonisti non possano farsi largo tra selve di nemici a colpi di armi da fuoco, anzi. L’innovazione della saga di Bioshock è proprio rappresentata dal doppio attacco Plasmide/Arma da fuoco che possiamo sfruttare anche in base all’ambientazione. Per fare un paio di esempi banali, ma si può eliminare il nemico con enorme eleganza e in tanti modi diversi, se il nostro avversario si trova con i piedi nell’acqua sarà certo una buonissima idea utilizzare la scarica per fulminarlo per bene prima di finirlo con fucile o pistola mentre se si trova a camminare sul cherosene o sulla benzina, la fiamma ci aiuterà ad arrostirlo a puntino.
Boom e poi bang-bang!
Ecco, la possibilità di utilizzare la mano destra per sparare e la sinistra per utilizzare il potere fu un vero colpo di genio dei creatori che regalarono, così, ai posteri una saga da cui, successivamente, hanno attinto un po’ tutti a piene mani.
Una saga oltre il tempo e la tecnica
Degrado sociale, psicologia, cieca follia e lucida crudeltà sono gli ingredienti che, uniti ad un comparto tecnico di altissimo rilievo e da un level design degno di essere studiato nelle università di settore, fanno della saga di Bioshock una delle più importanti e ricordate dell’intera storia videoludica. Tre titoli che non sentono quasi per nulla il peso degli anni e che possono essere tranquillamente giocati anche al giorno d’oggi senza il timore di vivere un’esperienza vintage e poco appagante. Provare per credere.
Gli spokon – manga ambientati nei contesti sportivi – sono molto popolari in Giappone. In Italia, i manga – o per meglio dire gli anime – sportivi solo di rado sono riusciti a rubare la scena, ma quando lo hanno fatto il successo è stato clamoroso. Tra gli anni 80 e 90, L’Uomo Tigre, Holly e Benji e Mila e Shiro sono stati i cartoni animati nipponici ambientati nel mondo dello sport che di diritto sono entrati nella nostra cultura pop. Nella decade dei 2000 invece il padrone incontrastato è stato Slam Dunk, spokon sul basket del maestro Takehiko Inoue.
La maggior parte di voi conosce l’anime, trasmesso per la prima volta in Italia su MTV; ovviamente sapete dell’esistenza del manga, che probabilmente avete anche letto per conoscere la fine della trama; forse avete visto i quattro OAV (film), ma sono quasi certo che in pochi sanno che sono usciti anche diversi videogiochi ispirati alle avventure di Hanamichi Sakuragi e di tutto lo Shohoku.
Non disperate se non avete mai giocato a nessun videogioco su Slam Dunk: tutti i videogame dello spokon di Takehiko Inoue sono usciti solo per il mercato giapponese e la maggior parte di questi durante gli anni 90; di conseguenza, l’unico modo per videogiocare questi titoli risiedeva nelle conoscenze dirette con persone che vivevano nel Sol Levante oppure intrufolorsi nel sottobosco degli emulatori, che hanno il pregio di aver reso accessibili opere altrimenti introvabili in Europa.
Ecco a voi quindi la lista, in ordine cronologico, di tutti i videogiochi di Slam Dunk.
From TV animation – Slam Dunk: Yonkyo Taiketsu
Sviluppato da TOSE e pubblicato da Bandai,il 26 marzo 1994 approda su Super Nintendo il primo videogame dedicato a Slam Dunk. Il titolo è un vero e proprio gioco di basket con due modalità principali: Story, che ripercorre la prima parte del manga di Inoue sotto le vesti dello Shohoku; Exhibition in cui il videogiocatore può scegliere tra le quattro squadre più iconiche dell’opera: Shohoku, Kainan, Shoyo e Ryonan.
Yonkyo Taiketsu è unvideogioco semplicistico: si corre da una parte all’altra del campo passando, tirando e schiacciando quando si attacca e si blocca o si va a rimbalzo quando si difende. Un gioco invecchiato male, ma che presenta delle scene di intermezzo prese direttamente dall’anime che piaceranno agli appassionati di Slam Dunk.
L’opera è nota anche con il nome di From TV animation – Slam Dunk: Dream Team Shueisha Limited.
From TV Animation Slam Dunk – Shikyou Gekitotsu!!
Su questo titolo c’è un enorme confusione ulteriormente accentuata dal web. Molto spesso il titolo di questo gioco è usato come nome alternativo di Yonkyo Taiketsu!! per Super Nintendo, che ha anche un terzo nome: From TV Animation Slam Dunk – Dream Team.
In realtà, Shikyou Gekitotsu è anche il nome ufficiale del primo videogame di Slam Dunk per Sega Saturn, praticamente uguale alla versione SNES con l’unica importante differenza sulla vesta grafica, meno caricaturale e più “adulta” rispetto alla versione Nintendo.
Gakeppuchi no kessho League (1994)
L’11 agosto 1994 arriva su Game Boy quello che dovrebbe essere il porting di Yonkyo Taiketsu. In realtà, Gakeppuchi no kessho League è stato così tanto semplificato rispetto al gioco per SNES da risultare un’opera abbastanza diversa e a mio parere anche migliore dell’originale.
Slam Dunk per Game Boy è un videogioco della sua epoca. In quegli anni molti titoli nipponici presentavano una struttura JRPG-like: in Gakeppuchi no kessho League il videogiocatore si muove in una mappa del campo con visuale dall’alto e affronta gli avversari che si avvicinano in scontri uno contro uno. La sfida consiste nello scegliere da un menu testuale l’azione da intraprendere.
Slam Dunk 2: IH yosen kanzenban!! (1995)
Il 24 febbraio 1995, i gamer giapponesi ricevono su SNES il sequel di Slam Dunk, sviluppato ancora da TOSE e prodotto da Bandai. Quest’opera è un more of the same di Yonkyo Taiketsu con novità prese direttamente dalla versione Game Boy.
Slam Dunk 2 ha un comparto grafico cartoon che sfrutta le iconiche caricature dello spokon di Inoue. Il gameplay è praticamente uguale alla versione precendente, ma adesso è possibile intercettare i passaggi e sono state aggiunte le sfide uno contro, che a differenza della versione Game Boy si affrontano spostando la croce direzionale o premendo il pulsante di tiro o passaggio.
Zenkoku e no TIP OFF (1995)
Il 17 marzo 1995, Slam Dunk 2 arriva anche su Game Boy. Rispetto al precedente capitolo per la console portatile, Zenkoku e no TIP OFF non presenta alcun menu testuale da cui scegliere. L’adattamento per Game Boy riutilizza la mappa con visuale dall’alto del precedente capitolo, ma tutte le scelte di gioco sono delegate al giocatore con scelte live e time event.
Slam Dunk SD Heat Up!! (1995)
Il 27 ottobre 1995 il nuovo capitolo arriva solo su Super Nintendo. Heat Up è di fatto Yonkyo Taiketsu con una nuova veste grafica più pulita e aggiornata.
From TV Animation Slam Dunk: Super Slams (1995)
Ovviamente gli amici del Sol Levante non potevano farsi mancare una versione arcade di Slam Dunk. Il 27 ottobre 1995, oltre al già citato Heat Up per SNES, arriva nelle sale giochi anche From TV Animation Slam Dunk: Super Slams.
Il titolo di Banpresto è un orribile porting – in tutti i suoi aspetti – della modalità Exhibition del primo gioco di Slam Dunk per Sega Genesis: Slam Dunk – Shikyou Gekitotsu!!. La grafica è pessima anche per il suo tempo, mentre il gameplay non ha alcuna sfaccettatura che lo possa redenre memorabile.
SLAM DUNK from TV Animation (2020)
Il 25 novembre 2020, dopo 25 anni di attesa per un titolo decente, Slam Dunk riceve finalmente una versione mobile al passo con i tempi. SLAM DUNK from TV Animation è un gioco di basket arcade online con meccaniche da gioco di ruolo sviluppato dalla società cinese DeNA, che ha di recente iniziato una join venture con Nintendo.
Gli utenti si confrontano online con team formati da tre personaggi che provengono dal roster del manga. Rispetto a tutti i videogiochi di Slam Dunk visti fino ad ora, il titolo mobile contraddistingue i personaggi grazie ad abilità uniche, potenziabili grazie a un albero dei talenti e un sistema di leveling tipico dei gatcha per smartphone.
Ufficialmente SLAM DUNK from TV Animation non è disponibile per il pubblico europeo (nello specifico non è scaricabile dallo store Google), ma dal sito ufficiale è possibile scaricare il file APK installabile su qualsiasi smartphone.
Extra
Oltre ai titoli già citati, ci sono altre due videogiochi che non è facile collocare in un momento ben preciso perché privi di qualsiasi informazione ufficiale: From TV Animation: Slam Dunk: Shouri heno Starting 5 e Slam Dunk: I love basketball. Come potete notare voi stessi guardando i gameplay disponibili online, questi giochi sono chiaramente dei rifacimenti dei titoli che vi ho già presentato con qualche piccola modifica o semplicemente trasportati su un’altra console.
From TV Animation: Slam Dunk: Shouri heno Starting 5
In particolare Shouri heno Starting 5, sviluppato da SIMS, dovrebbe essere uscito per Game Gear il 16 dicembre 1994. Slam Dunk: I love basketball, sviluppato d SEC, ha come data di rilascio l’11 agosto 1995 su Sega Saturn.
I personaggi di Slam Dunk compaiono anche in altri due videogiochi per Nintendo DS usciti rispettivamente nel 2005 e nel 2006: Jump Super Stars e Jump Ultimate Stars: due picchiaduro con un roster formato da 160 personaggi dell casa editrice Jump. Non hanno mai varcato i confini asiatici a causa di problemi di copyright: in Giappone, i diritti dei i famosissimi personaggi del roster – oltre all’intero team dello Shohoku troviamo anche personaggi di Dragon Ball, One Piece e Naruto solo per citarne alcuni – appartengono a Jump, ma nel resto del mondo tutto diventa più frammentato e complicato.
Conclusione
Purtroppo, così come è avvenuto in passato per diversi giochi ispirati a manga e anime, anche Slam Dunk è stato vittima del ritardo di pubblicazione tra Giappone e Occidente tipico degli anni 90. Nella prima metà degli anni 90, nel Bel Paese, in pochi conoscevano lo spokon di Inoue, che è divenuto famoso solo dal 2000 in poi grazie all’anime su MTV. Nel nuovo millennio però SNES e Game Boy non erano più in produzione. Fortunatamente non ci siamo persi nulla: i videogiochi di Slam Dunk degli anni 90 erano veramente mediocri, anche se li ho personalmente giocati tutti e li ho amati nella loro bruttezza.
D’altro canto, non riesco invece a capire i motivi per cui il recente SLAM DUNK from TV Animation non sia mai arrivato in Europa dato che oggi l’opera di Takehiko Inoue è molto popolare anche in Occidente come si denota dall’uscita anche nelle sale italiane del film The First Slam Dunk.
Se si guarda all’attualità del mondo dei videogiochi, il nome diLara Croft non figura certamente tra quelli dei personaggi più popolari. La stessa saga di Tomb Raider, nonostante la buona qualità degli ultimi episodi usciti, non è certamente tra le IP più “forti” e rilevanti del momento. Tuttavia, tutti coloro che, come il sottoscritto, hanno vissuto la fine degli ormai mitici anni novanta, ricorderanno che la bella archeologa era diventata uno dei volti più famosi e riconoscibili dell’intera industria del videogioco.
Pubblicità, apparizioni su numerose riviste, merchandising, serie a fumetti, cartoni animati e persino varie apparizioni durante i concerti degli U2 del PopMart Tour del 97. Il nome di Lara sembrava davvero sulla bocca di tutti e non era esagerato definire la bella eroina una vera e propria icona pop. Questo successo, oltre che al carisma e al fascino di Lara, fu senz’altro dovuto all’incredibile qualità del gioco di cui l’archeologa era protagonista. Il primo Tomb Raider, infatti, fu un titolo davvero sorprendente, sia per la sua altissima qualità che per le innovazioni che seppe portare nel panorama dei giochi di avventura.
In questo articolo andremo a riscoprire questa piccola gemma e cercheremo di spiegare perché il primo Tomb Raider è stato tanto amato, come abbia saputo lasciare ricordi così indelebili nei cuori di numerosi giocatori, compreso il sottoscritto, e perché ha fatto la storia dei videogiochi. Recuperiamo le nostre pistole e lanciamoci alla riscoperta di questo classico!
Un fulmine a ciel sereno
Al momento della sua uscita ben pochi avrebbero potuto prevedere il successo di Tomb Raider
Quando Tomb Raider uscì, tra il 1996 e il 1997, lo fece in punta di piedi. Il gioco, sviluppato dalla veterana Core Design e prodotto da Eidos per Saturn, Playstation e PC, non fu infatti accompagnato da una campagna pubblicitaria particolarmente forte. Tuttavia, non appena i giocatori misero le mani su Tomb Raider, compresero subito di essere di fronte a qualcosa di davvero speciale.
Tomb Raider ricevette un’accoglienza estremamente positiva da parte delle riviste del settore, cosa che rese il gioco estremamente popolare tra gli appassionati. Anche le vendite iniziarono ben presto a lievitare, al punto che l’avventura di Lara divenne uno dei giochi più venduti in assoluto per la prima Playstation.
La strada per il successo
Tomb Raider propose un mix di elementi vincenti che decretarono il suo successo
Le ragioni del successo di Tomb Raider furono molteplici. Anzitutto, il setting e le ambientazioni. La trama del gioco vede l’avventuriera e archeologa Lara Croft venire assoldata dall’infida Natla per rintracciare lo Scion, un misterioso artefatto dalle origini ignote. La ricerca dello Scion porterà Lara a visitare antiche rovine sudamericane, un tempio sotterraneo di ispirazione greco-romana, l’antico Egitto e una misteriosa piramide, legata all’antica Atlantide.
Il gioco si sviluppa attraverso quindici immensi livelli, ambientati all’interno delle macro-aree nominate in precedenza. La trama viene sviluppata attraverso una serie di filmati, che si sbloccano all’inizio o al termine di determinati livelli.
Pur senza far gridare al miracolo, la storia di Tomb Raider era interessante e coinvolgente, soprattutto grazie all’incredibile carisma di Lara, che seppe subito conquistare i cuori dei videogiocatori.
Il gioco inoltre seppe subito catturare l’attenzione dei giocatori grazie al suo comparto grafico. Certo, ai giorni nostri la grafica di Tomb Raider appare molto datata e “cubettosa”. Negli anni in cui il gioco uscì, tuttavia, le ambientazioni completamente tridimensionali e le eccellenti animazioni fecero letteralmente gridare al miracolo.
Una vera avventura tridimensionale
I livelli di Tomb Raider rappresentano il principale punto di forza del gioco
Il più grande punto di forza di Tomb Raider, tuttavia, si rivelò essere la natura stessa del gioco. Intendiamoci, non stiamo certamente parlando della prima avventura 3D ad uscire sul mercato (basti citare giochi come Alone in the Dark o Myst, usciti ben prima di Tomb Raider). Ma nessun gioco fino a quel momento aveva saputo creare quella sensazione di assoluta libertà di movimento che l’avventura di Lara sapeva regalare.
Fin dal primo livello di gioco, il giocatore non avvertiva mai la sensazione di trovarsi su un binario, ma veniva letteralmente immerso in un enorme e realistico ambiente tridimensionale. Stava a lui e alle sue capacità di orientamento e osservazione trovare la soluzione per raggiungere l’uscita del livello.
Altro punto di forza del gioco era il gran numero di azioni a disposizione di Lara. La nostra archeologa infatti era in grado di camminare, correre, saltare in ogni direzione (sia da ferma che in corsa), spostarsi lateralmente e persino nuotare in profondità. Oltre a questo, naturalmente, Lara poteva utilizzare le sue fide pistole, alle quali si sarebbero affiancate altre tre armi.
Nel corso dei livelli, infatti, Lara era chiamata ad affrontare un gran numero di combattimenti. Si trattava principalmente di animali feroci, ma non sarebbero mancate le sorprese (qualcuno ha detto dinosauri?). Durante gli scontri Lara puntava automaticamente i nemici nelle vicinanze, in modo che il giocatore potesse concentrarsi solo sul movimento e le schivate. Le munizioni delle pistole di Lara non si esauriscono mai, mentre le armi aggiuntive andranno ricaricate tramite apposite munizioni sparse per i livelli.
Questa scelta, apparentemente molto semplicistica, rendeva gli scontri estremamente dinamici e divertenti, evitando un sistema di combattimento troppo complesso e macchinoso.
Ogni livello di Tomb Raider proponeva sfide davvero varie ed originali
L’altro aspetto che sancì il successo di Tomb Raider fu sicuramente la struttura dei livelli. Questi ultimi, con pochissime eccezioni, erano infatti stati pensati e progettati alla perfezione. Attraverso l’uso di blocchi da scalare, gallerie, porte segrete e passaggi acquatici, gli stage di Tomb Raider si sviluppano in ogni direzione, sia in altezza che in profondità.
Quasi mai il giocatore doveva affrontare un percorso lineare, ma si trovava all’interno di enormi ambienti aperti, che andavano visitati in ogni angolo per poter essere superati. Questo rendeva l’esplorazione davvero varia, coinvolgente e divertente.
Oltre a questo, i livelli erano estremamente diversificati tra loro. Le ambientazioni di ognuno di essi, infatti, risultavano quasi sempre molto differenti l’una dall’altra, riuscendo a risultare ogni volta fresche ed interessanti.
Il brivido della scoperta
Alcuni momenti dei livelli di Tomb Raider sono divenuti davvero iconici
Per rendere le cose ancora più interessanti, ogni livello, per essere superato, proponeva una sfida particolare. In St. Francis Folly, per esempio, Lara ad un certo punto raggiungeva un’enorme stanza con un pilastro centrale. Nelle varie estremità dello stanzone erano posizionati quattro templi, dedicati ad altrettante divinità antiche. Per superare il livello occorreva esplorare tutti i templi, superare le prove al loro interno e raccogliere quattro chiavi nascoste all’interno del tempio.
Nelle miniere di Natla, invece, Lara iniziava il livello priva delle sue armi. L’obiettivo primario del giocatore era rintracciare tre fusibili sparsi per la miniera che davano a Lara l’accesso ad una stanza in cui erano custodite le sue fide pistole.
Questa varietà di situazioni, unita ai numerosi combattimenti, rese Tomb Raider un’esperienza di gioco davvero ricchissima, in grado di accontentare sia i fan dei giochi di azioni che gli amanti degli enigmi e dell’esplorazione ragionata.
Come ciliegina sulla torta, i livelli di Tomb Raider proponevano spesso momenti davvero forti ed iconici, in grado di lasciare i giocatori a bocca aperta o di farli letteralmente saltare dalla sedia.
Senza dare troppi spoiler a chi non ha mai giocato a questo gioco, mi limito a citare il raggiungimento dell’enorme sfinge nel santuario dello Scion o la scoperta della mano del re Mida, ma potrei fare davvero decine di altri esempi.
L’eredità di Tomb Raider
Il numero dei sequel di Tomb Raider è davvero impressionante
Visto il successo ottenuto, era inevitabile che le avventure di Lara proseguissero. Eidos tuttavia fece la scelta di spremere la sua gallina dalle uova d’oro oltre l’inverosimile. Tra il 1997 e il 2001 uscirono addirittura quattro nuovi Tomb Raider, tutti su Playstation e PC.
Sebbene la qualità di questi titoli fosse generalmente molto buona (Tomb Raider 2 in particolare venne molto ben accolto), questi giochi risultarono davvero troppo simili tra loro e aggiunsero davvero troppo poco alla formula vincente del primo gioco. Questo causò, a lungo andare, un certo disinteresse per la saga.
Dopo il terribile Angel of Darkness, del 2003, Eidos realizzò due nuove trilogie dedicate a Tomb Raider. La prima fu inaugurata da Tomb Raider: Legend del 2006 e terminò nel 2008 con Tomb Raider: Underworld. Nel 2013 uscì Tomb Raider, vero e proprio reboot della saga, che ebbe a sua volta due sequels, Rise of the Tomb Raider e Shadow of the Tomb Raider. Per il 2023 è prevista l’uscita di un nuovo capitolo della serie, su cui sembra che Crystal Dynamics e Amazon stiano puntando davvero forte.
Finora però tutti questi seguiti, pur ottenendo sempre buoni risultati in termini di vendite e ricevendo vari apprezzamenti dal pubblico, non sono stati in grado di replicare l’incredibile successo dell’avventura originale. Chissà, probabilmente Tomb Raider è stato l’equivalente di una cometa, un fenomeno tanto bello ed emozionante da vedere quanto difficile da replicare. Quello che è certo, però, è il fatto che la prima avventura di Lara ha regalato ore ed ore di divertimento a migliaia di giocatori, che ancora oggi la ricordano con piacere e nostalgia. Ed è stato un piacere anche per il sottoscritto condividere con tutti voi i ricordi e le emozioni che Tomb Raider ha saputo regalarmi. Alla prossima avventura!