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La localizzazione di videogiochi è una cosa seria

Tradurre o non tradurre? O meglio, quali sono gli elementi che bisogna tenere in considerazione per prevedere la localizzazione di videogiochi o un qualsiasi altro prodotto multimediale? È una questione annosa e, ciclicamente, torna sotto i riflettori. Come nel recente caso di Baldur’s Gate III.

Questa volta il problema torna alla ribalta con un titolo attesissimo, Baldur’s Gate III, per il quale più generazioni di fan e videogiocatori aspettano impazientemente di metterci mano. Purtroppo però, per gli utenti italiani non è prevista la localizzazione al rilascio in Accesso Anticipato, previsto per il 6 ottobre dopo l’ennesimo posticipo.

Ad aggravare la situazione, un errore di comunicazione commesso dalla Larian Studios, che in precedenza aveva fornito indicazioni diverse riguardo la traduzione del gioco. Questa ammissione di responsabilità, di per sé lodevole, è stata da molti interpretata come una “ritrattazione” e ha fomentato gli animi in generale e le malelingue in particolare. Di fatto, “giocare” con una lingua significa in questo caso occuparsi di quasi 46.000 righe di dialogo e, fidatevi, non è affatto uno scherzo.

Larian Studios ha capito che era il caso di cambiare nome su Twitter

War never changes: lotte intestine… da sempre

Facendo un passo indietro, l’eterna guerra dei “puristi” è sempre esistita, in tutti gli ambiti e piattaforme e sulle questioni più disparate: Windows o Linux? Internet Explorer o Netscape? PC o Console? Xbox o Playstation? Hulk o La Cosa? E infine, si fa per dire: videogiochi in italiano, sempre e comunque, o meglio giocarli in lingua originale?

In questo ambito, le due tipiche posizioni estreme, spesso espresse con toni di piccata sufficienza se non addirittura di offesa, sono le seguenti:

  • “do dei soldi per comprare un gioco e lo voglio in italiano, senza dover impazzire con l’inglese”.
  • “Io l’inglese lo so e non ho problemi nel giocare in lingua, sono gli altri a doversi adattare”.

Poi esistono altri punti di vista, ben argomentati, più tolleranti e dai toni neutri; ma solitamente passano in secondo piano.

Prima di esprimersi sulla questione, può valere la pena riflettere su alcuni elementi che ruotano attorno alla localizzazione di videogiochi…

Browser War: Internet Explorer vs Netscape

Dipendenza dalla lingua

Semplificando molto, potremmo dire che la quantità di testo e dialoghi definisce quella che è la dipendenza dalla lingua. Più testo c’è, più la dipendenza dalla lingua è elevata, maggiormente sentita sarà l’esigenza di una localizzazione per fruire al meglio del prodotto.

Più o meno direttamente, anche il genere del videogioco e il target di riferimento contribuiscono (o meno) alla dipendenza della lingua. Per intenderci, uno sparatutto dove spesso occorre blastare qualsiasi cosa ci si pari di fronte, potrebbe necessitare di due righe di ambientazione e trama per convincerci a imbracciare un’arma contro i cattivi di turno.

Unreal (1998), alcuni videogiochi non hanno bisogno di localizzazione
Unreal (1998), alcuni videogiochi non hanno bisogno di localizzazione

Completamente diverso è il caso di un videogioco di ruolo con ambientazione, storia, popoli, miriadi di missioni, personaggi e dialoghi. A titolo di esempio (storico), Unreal del 1998 è perfettamente giocabile anche senza localizzazione; non proprio la stessa cosa si può dire per Fallout del 1997, che peraltro ricorre largamente allo slang e utilizza particolari stili espressivi nei dialoghi con i supermutanti e i ghoul.

È lecito però osservare che oggi le cose sono un po’ cambiate: la dipendenza dalla lingua ha iniziato a prescindere dal genere, visto che, per ottenere dei prodotti coinvolgenti e che “sappiano di cinema” (elementi che ripagano in termini di mercato), quasi tutti puntano su una buona storia su cui ancorare il videogioco. E la storia va raccontata in qualche modo… e in qualche lingua!

Fallout (1997)
Fallout (1997), alcuni videogiochi hanno bisogno di una localizzazione.

Mercato

Un altro elemento imprescindibile è il mercato. Il videogioco è un prodotto d’intrattenimento che ha i suoi clienti (giocatori), dipendenti (progettisti, sviluppatori, designer, artisti a vario titolo, gestori del marketing), aziende di settore nel loro complesso, più tutto un universo di professionisti che vi ruota intorno, dai legali ai recensori. In tutto ciò, le aziende non sono sempre disposte o non hanno sempre interesse a spendere parte del budget destinato a realizzare un videogioco per localizzarlo in un paese dove non prevedono un adeguato ritorno di utili.

Naughty Dog, i videogiochi sono fatte da tante persone.
Naughty Dog, i videogiochi sono fatti da tante persone

Altre volte l’intenzione ci sarebbe (a prescindere “dai soldi”), ma non sempre si trovano gli accordi commerciali e legali per localizzare il prodotto. Tralasciando il doppiaggio, prevedere delle localizzazioni relative alla “sola” parte testuale, richiede l’impiego di ulteriori figure professionali, e quindi aumentano le spese, i tempi, e si introducono svariati fattori di rischio. L’importante è capire che abbattere la barriera linguistica ha sempre e comunque un costo. Tipicamente non trascurabile.

Prima di presentare ulteriori elementi di riflessione, vale la pena riprendere in mano il report di LocalizeDirect. L’italiano risulta essere sempre meno richiesto da parte degli sviluppatori nella localizzazione di videogiochi in quanto vedono il nostro mercato poco allettante. Di fatto, le richieste per le traduzioni in italiano (8%) sono minori di quelle per il tedesco (10,3%), il francese (9,8%), il giapponese (9,7%), il russo (9%), il coreano (8,9%) e lo spagnolo (8,7%). Di per sé l’8% non è un brutto numero, ma per un’azienda che decide di localizzare il suo prodotto in quattro lingue, l’italiano non è di sicuro la prima scelta.

Report di LocalizeDirect sulla localizzazione di videogiochi.
Report di LocalizeDirect sulla localizzazione di videogiochi

Lingua originale non significa lingua Inglese

Molti videogiocatori identificano il giocare in lingua originale col videogiocare in lingua inglese. In diversi casi ciò potrebbe corrispondere al vero, di fatto, le due espressioni non sono la stessa cosa. La si pensasse così, equivarrebbe più o meno a sostenere che la cover di un brano musicale sia di fatto il brano originale stesso.

Per capire meglio come stanno le cose, senza alcuna pretesa di completezza, è sufficiente portare un esempio. Molti di voi avranno giocato a Wiedźmin e si saranno sicuramente divertiti. Se non avete capito di cosa stia parlando, forse potrebbe aiutarvi sapere che mi sto riferendo a The Witcher. In verità, l’autore polacco della saga letteraria gli ha preferito la traduzione inglese “hexer” (mantenuta in altre opere), ma di fatto, il nome del videogioco di CD Project Red è diventato “The Witcher” (incorporando l’articolo “the”). Per chi non lo sapesse, nelle opere letterarie italiane il termine ufficiale per indicare Geralt di Rivia e i suoi colleghi è “strigo”.

Le copertine dei libri di Wiedźmin, il nome polacco di The Witcher.
Le copertine dei libri di Wiedźmin, il nome polacco di The Witcher

Giocare (o leggere) in lingua originale significherebbe pertanto giocare in polacco, non in inglese. In conclusione, giocare in inglese prevede l’uso di una localizzazione completa a tutti gli effetti, con i suoi pregi e difetti, scelte di adattamento, termini, modi di dire, espressioni e, sicuramente, errori. Sfatiamo dunque il mito che giocare in inglese significa giocare in lingua originale o che è sempre e comunque “meglio”.

Coloro che giocano in lingua inglese, includendo tutti i giocatori di altre lingue che sono disposti a farlo, rappresentano sicuramente il bacino di utenza maggiore e pertanto sarà sempre prevista una localizzazione in tale lingua. Come però già osservato, diverso è il caso per l’idioma italiano.

Fonte e qualità della localizzazione

Qualora venga prevista una localizzazione, per esempio in italiano, quale fonte verrà utilizzata? Si considera l’opera originale, magari scritta in una lingua per cui è difficile e costoso reperire traduttori competenti e preparati, oppure si ricorre a una fonte secondaria, già localizzata in altra lingua (inglese), più semplice ed economica da gestire?

Va da sé che derivare una localizzazione da un’altra (o da altre, in cascata) comporta inevitabilmente un elevato rischio di degrado e di errore: un testo inglese adattato da altra lingua potrebbe avere poco senso (o peggio venir travisato) quando portato in italiano, pur avendo una traduzione ineccepibile. Pertanto, la scelta della fonte, come pure il tatto, la tecnica, l’esperienza e la professionalità di chi ci lavora, sono tutti elementi che determineranno sia la qualità che il costo del processo di localizzazione. Infine, ci sono i gusti personali che possono avallare o compromettere qualsiasi scelta di traduzione o adattamento: ognuno ha la sua testa e la sua sensibilità e ci mancherebbe altro.

Personalmente, nel cinema non ho mai capito come si siano potuti concepire titoli quali “Unbreakable – Il predestinato” o “Eternal sunshine of the spotless mind – Se mi lasci ti cancello”, ma così è.

Unbreakable – Il predestinato
Unbreakable – Il predestinato

Conclusioni

Come osservato, portare un videogioco o un qualsiasi altro prodotto multimediale da una lingua a un’altra comporta sempre dei costi, dispendio di tempo (e probabili ritardi) e inevitabili compromessi su stili, proverbi, modi di dire, giochi di parole e termini di glossario. Nonostante tutto però, l’intera operazione costituisce indubbiamente un valore aggiunto che, oltre ad allargare il bacino di potenziali giocatori e la diffusione del titolo, aumenta l’immersività, l’immedesimazione, la verosimiglianza e la profondità dell’atmosfera.

In un videogioco, la lingua è un fattore che, insieme alla grafica, al comparto sonoro e al gameplay, ne influenza sicuramente l’esperienza di gioco.

A mio avviso è quindi sempre auspicabile disporre di videogiochi multilingua (che comprendano la propria lingua madre, ovviamente); sarà poi l’utente finale a SCEGLIERE come impostare la propria esperienza: in inglese, in lingua originale, o nella propria.

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Playstation 5 Preorder ha senso solo per gamer dormienti

I preorder di PlayStation 5 sono iniziati e, su Amazon, sono terminati dopo circa cinque minuti per esaurimento scorte. Sembra che tutti vogliono una PS5, ma solo in pochi hanno vere ragioni per effettuare il preorder.

Bisogna premettere che l’esaurimento dei preorder di PlayStation 5 non significa necessariamente un successo. Infatti, sicuramente il numero di pezzi disponibili era molto basso. Inoltre, il preorder su Amazon può essere cancellato fino a pochissimi giorni prima dall’uscita fissata per il 19 novembre, senza spendere neanche un euro.

Di conseguenza, è presto per dire se PS5 sarà un boom di vendite al day one. L’unica certezza è che in molti sono stati presi dalla febbre della next-gen e dovrebbero riflettere sui pro e i contro di questa scelta.

Prezzi PlayStation 5

Effetto WOW

Rispetto alla generazione precedente, la next-gen 2020 non porterà un salto tecnologico così evidente, quantomeno in termini prettamente grafici. Sicuramente i caricamenti saranno molto più brevi e, forse, sarà possibile sfruttare nuove feature per avere veri open world senza tempi di attesa. Però, siamo ben distanti dall’effetto WOW di PlayStation 4.

Questo rende PS4, e soprattutto PS4 Pro, un hardware ancora molto valido che può trainare le vendite per almeno un altro anno. Infatti, tutti i giochi più attesi del 2020 saranno cross-gen e titoli come God of War 2 saranno probabilmente disponibili solo alla fine del 2021.

God Of War 2
God Of War 2

Difetti di fabbrica

Un altro dettaglio da tenere in mente è che, storicamente, le prime versioni delle console di nuova generazione hanno sempre presentato difetti, corretti solo successivamente. Alcune PlayStation 3 avevano un guasto che le rendevano inutilizzabili, noto come yellow ring of death. Playstation 4, invece aveva problemi sulla porta HDMI.

In altre parole, gli svantaggi possono essere pesanti per una spesa di 500 euro. Di conseguenza, chi ha già una console di ottava generazione, o soprattutto una mid-generation a scelta tra PlayStation 4 Pro o Xbox One X, dovrebbe riflettere se ne vale veramente la pena.

Ho comprato un Nintendo Gamecube al day one e soffriva di un problema hardware serio, che lo portava al crash una decina di minuti dopo l’accensione. L’assistenza Nintendo mi ha sostituito la console, ma sono rimasto quasi due mesi senza poter giocare a causa dei lunghi tempi di attesa dell’assistenza e di Poste Italiane.

PlayStation 3 yellow ring of death
PlayStation 3 yellow ring of death

Ciao, nuovo abbonato!

Quindi, chi dovrebbe pensare seriamente all’acquisto di PlayStation 5, o Xbox Series X? Semplicemente, chi non ha una console di ottava generazione Sony o Microsoft.

Prima di parlare di esclusive, è importante premettere che un PC gamer, se può permetterselo, dovrebbe continuare a esserlo, perché è una fascia di gaming estremamente più flessibile. Detto questo, le line-up al lancio della nona generazione sono state definite e i titoli in esclusiva per PlayStation 5 sono (escludendo PC):

  • Destruction AllStars (PS5)
  • Demon’s Souls (PS5)
  • Godfall (PS5)

Un parco titoli che colpisce i sentimenti, ma abbastanza scarno per in lancio di una next-gen.

Giochi al lancio della next-gen

Per questo motivo, gli unici che possono veramente beneficiare di un acquisto immediato sono i gamer che non hanno avuto modo di provare i titoli di punta dell’attuale generazione. E possono farlo grazie a PS Plus Collection.

Il PlayStation Plus Collection è un’aggiunta all’abbonamento di PlayStation Plus (8,99 €) annunciato durante l’ultimo showcase di Sony, che permette di giocare, su PlayStation 5 a tantissimi titoli:

  • God of War
  • The Last of Us Remastered
  • Uncharted 4: A Thief’s End
  • InFamous: Second Son
  • The Last Guardian
  • Ratchet & Clank
  • Persona 5
  • Detroit: Become Human
  • Bloodborne
  • Until Dawn
  • Batman: Arkham Knight
  • Fallout 4
  • Battlefield 1
  • Until Dawn
  • Monster Hunter World
  • Final Fantasy XV
  • Mortal Kombat X
  • RESIDENT EVIL 7

Sicuramente il PS Plus Collection si evolverà, ma attualmente la sua unica utilità è quella di permettere a chi non ha vissuto questa generazione di recuperare dei grandissimi capolavori, magari (leggermente) migliorati per sfruttare la potenza di PlayStation 5.

PlayStation Plus Collection

Conclusione

È ovvio che se siete stati dei gamer attivi, questi titoli li avrete già giocati, oppure non aspettavate la PS5 per farlo. Se invece avete saltato questa generazione per concentravi su altro, come Nintendo Switch nel mio caso, il PS Plus Collection vi permette di recuperare l’attuale generazione a un prezzo praticamente regalato.

Il PlayStation Plus Collection strizza l’occhio ai gamer dormienti e prova a fare concorrenza all’Xbox Game Pass durante i primi mesi di vita di PlayStation 5. Per Sony non è una soluzione definitiva, ma per chi ha saltato questa generazione o vuole buttarsi sul mondo delle console solo adesso, è una grande occasione. Per tutti gli altri, meglio aspettare per il preorder di PlayStation 5.

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Pokémon GCC, perché è stupendo dal vivo e noioso online

Giocare dal vivo a Pokémon GCC, il gioco di carte dei Pokémon, è stupendo e la passione per i mostriciattoli giapponesi sembra lontana dall’esaurirsi. Purtroppo, l’idillio termina con Pokémon TGCO, la versione online che meriterebbe molta più attenzione da parte di The Pokémon Company.

Penso che chiunque al mondo conosca il franchise Pokémon, e chi, come me, lo segue sin dagli albori, ha probabilmente giocato al suo card game. Nel mio caso, ho giocato a Pokémon GCC dal Set Base fino alla seconda generazione con l’espansione Neo Destiny. Dopo aver abbandonato il gioco per un po’ di tempo, ho deciso di ricominciare online con Pokémon TCGO lo scorso anno.

Pokémon GCC Spada e Scudo – Fiamme Oscure

Purtroppo, la versione online di Pokémon GCC non è affascinante come la sua controparte fisica. Tanto da spingermi ad abbandonarlo, e riprenderlo, più volte. Almeno fino a quando non ho preso in mano le carte di Pokémon GCC Spada e Scudo – Fiamme Oscure. L’espansione è uscita lo scorso mese e mi ha invogliato a tornare a giocare assiduamente, ma dal vivo.

Proprio mentre scorrevo le carte fisiche, mi sono reso conto che il motivo della mia noia non è causato dal gioco di carte, ma dalla sua pessima versione online. Vi spiego le differenze.

Pokémon GCC “fisico”

Pokémon GCC ha dimostrato di sapersi evolvere divenendo estremamente dinamico e con una propria identità. Mi ricordo che quando il gioco arrivò in Italia, tra il 1998 e il 1999, il card game era orientato a un pubblico molto giovane. Infatti, i partecipanti dei campionati ufficiali potevano essere al massimo adolescenti. Per me è stata un’esperienza unica.

Appena arrivato in fumetteria, ho ricevuto un libretto dell’allenatore che mi consentiva di raccogliere punti tramite sfide ufficiali. E addirittura, vere medaglie, esattamente come nel videogioco. Oggi, Pokémon GCC è giocato da tantissimi giocatori di tutte le età e i gadget di chi partecipa ai tornei più importanti dimostrano che la cura dei dettagli della Pokémon Company per gli eventi reali è ancora vivida.

Chiunque voglia cominciare a giocarci inizia solitamente dai mazzi tematici, che posseggono un buono bilanciamento delle tre tipologie di carte. Infatti, le carte possono essere Pokémon, Allenatore, divise in Strumenti, Stadio e Aiuto, ed Energia. I mazzi tematici sono volutamente lenti, in quanto pensati per chi ha appena cominciato, ma il gioco competitivo è tutta un’altra cosa.

Pokémon di tutti i tipi, di tutte le generazioni

Esattamente come in Magic: L’Adunanza, o il digitale Hearthstone, anche in Pokémon GCC vi è una rotazione del set di espansione. In Pokémon, la rotazione avviene ogni anno. Nel caso delle partite in Standard, formato che contiene anche l’ultima espansione Spada e Scudo – Fiamme Oscure, il gioco è molto dinamico. Infatti, i mazzi sono ideati su uno sbilanciamento che rende il gioco più veloce.

Su 60 carte, quelle allenatore sono solitamente più delle metà, una decina sono le energie, mentre il resto sono i nostri Pokémon. Il motivo nasce dall’enorme forza delle carte Allenatore, che permettono di ciclare continuamente, cioè guardare il mazzo alla ricerca delle carte utili per quella determinata situazione.

Le carte Allenatore sono fondamentali

Pokémon TCG Online

Per questi motivi, ritengo Pokémon GCC molto divertente in competitivo, con un grande potenziale tanto dal vivo quanto online. Pokémon TCG Online è basato sulle stesse regole della versione fisica, ma l’user-friendly tipica del franchise è inesistente. Infatti, l’interfaccia grafica ricorda i primi software di inizio 2000 forniti insieme ai bundle delle carte fisiche, ben lontani dalla cura dei dettagli dell’ultimo Pokémon Spada e Scudo.

Pokémon TCG Online esce su PC nel 2011, come supporto ai giocatori che si scontrano dal vivo. Infatti, ogni bustina fisica contiene una carta con un codice che permette di avere anche una bustina digitale. Stranamente, The Pokémon Company non ha mai mostrato interesse nel trasformare la versione online da mero aiuto per i giocatori in-real a una piattaforma che possa competere con i migliori giochi di carte digitali come fatto, ad esempio, da Magic con il suo Magic: The Gathering Arena (MTGA).

Pokémon Spada e Scudo

Ritengo già questa decisione incredibile, perché la notizia di Pokémon GCC Online aveva fatto il giro del web in poche ore. Però, The Pokémon Company non ha colto la palla al balzo. Anzi, ha deciso di rendere disponibile il gioco su iOS e Android solo dopo molti anni, rispettivamente nel 2014 e nel 2016.

Non mi aspetto che la versione digitale del gioco di carte dei Pokémon sia sviluppata da Game Freak, ma esattamente come già succede per gli altri franchise Nintendo come Super Mario, pensavo che l’azienda di Kyoto ponesse dei vincoli alla qualità artistica, che in Pokémon TCG Online è veramente bassa.

Pokémon TCG Online e la sua scarna interfaccia

L’economia di Pokémon TCG Online

Inoltre, il videogioco ha un’economia molto conveniente per chi gioca in-real, ma totalmente inopportuna per un gioco di carte digitale. Hearthstone e Magic Arena sono costosi, ma il primo con la polvere arcana e il secondo con le wildcard, mostrano un minimo di vicinanza al giocatore. Ovviamente, non possiamo proprio fare il paragone con Legends of Runeterra, che è un vero e proprio free-to-play.

Pokémon TCG Online permette di scambiare carte con altre carte o pacchetti. In altre parole, i pacchetti sono la moneta ufficiale del videogioco, ma c’è un grosso vincolo. I pacchetti scambiabili sono quelli provenienti dai token presenti dentro le bustine fisiche o quelli vinti con i tornei in-game, che si possono giocare con dei ticket speciali. In estrema sintesi, il gioco scoraggia il free-to-play e il gioco online in generale.

Conclusione

Ritengo questa scelta insensata perché Pokémon nasce proprio come videogame per diventare solo successivamente un franchise. Di conseguenza, mi sarei aspettato un porting del gioco anche per Nintendo Switch, ma la casa giapponese si guarda bene dal rilasciare una versione così approssimativa per la sua console di punta.

Tra l’altro, mi chiedo cosa spinga Pokémon Company a puntare su esperimenti molto criticati come Pokémon Unite, il nuovo MOBA del franchise, o il fallimentare Pokémon Rumble Rush, il gioco mobile che ha chiuso i battenti dopo un anno, ma non pensi ai giocatori di Pokémon TCG Online, che continuano a supportare un software ben lontano dagli standard Nintendo.

Pokémon GCC è un gioco divertente, competitivo ed estremamente vicino a quei mostriciattoli colorati che hanno accompagnato la nostra infanzia. Un gioco di carte solido, che merita un’occasione anche da chi pensa che l’unico gioco di carte al mondo sia Magic: l’Adunanza. Purtroppo, in un momento storico colpito dalla pandemia, giocare dal vivo non è facile, mentre la versione online è ben lontana dal regalare il piacere che può fornire lo strepitoso brand Pokémon.

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Editoriali

Jason Schreier è il giusto esempio di giornalismo videoludico

L’industria dei videogiochi sta crescendo molto rapidamente, così tanto da non sembrare preparata a gestire le responsabilità portate dalla fama. Jason Schreier è un giornalista che ha scoperchiato più volte le lacune del mondo dei videogiochi, evidenziando le condizioni di lavoro disumane di alcuni dipendenti delle più grandi case di sviluppo. Schreier è la dimostrazione che si può, e si deve fare, vero giornalismo anche in un settore giovane come quello dei videogame.

Chi è Jason Schreier

Jason Schreier nasce il 10 maggio 1987. Si è laureto presso l’Università di New York e ha collaborato per i primi anni della sua carriera con molte testate americane di videogame come freelancer. Successivamente, nel 2011, Jason entra nella redazione di Kotaku, diventando famoso con le sue inchieste sul crunch time, cioè i turni di lavoro disumani, nell’industria videoludica.

Nel 2020, Jason Schreier lascia Kotaku per Bloomberg News, dimostrando che il giornalismo videoludico non è semplicemente un contenitore di recensioni, ma può migliorare un settore che abusa della passione dei suoi lavoratori per far arricchire aziende e manager senza scrupoli.

Jason Schreier
Jason Schreier

In Italia, dove il settore non è sviluppato come in altri Paesi, questo ragionamento è ancora più importante. L’editoria videoludica italiana non si è mai veramente posta il problema di cosa significa essere un lavoratore del settore dei videogiochi nel Bel Paese e nessuno ci ha mai ricordato che ci sono persone che praticamente non guadagnano nulla dalle proprie fatiche, se non la gloria di finire in qualche pagina di giornale, più virtuale che cartacea.

Jason Schreier è il giusto esempio di giornalismo videoludico, perché ha affrontato l’industria esattamente come fanno i suoi colleghi, che si occupano di cinema o libri. Questo giornalista di New York sta spiegando l’abuso delle grandi aziende e ha già narrato di come alcuni grandi dei videogiochi devono crescere ancora tanto dal punto di vista umano.

Lo scandalo dei licenziamenti

Nonostante i primi scandali in merito alla vita dei dipendenti videoludici risalgono al 2004, con il caso di Eletronic Arts, Jason Schreier è diventato famoso perché ne parla con costanza dal 2014, tanto da diventare l’investigatore degli abusi sui lavoratori del mondo dei videogame.

Il primo articolo di Schreier che ha scosso il mondo dei videogiochi si intitola “Why Game Developers Keep Getting Laid Off” (2014, Kotaku,”Perché gli sviluppatori di videogiochi continuano a farsi licenziare”). Il giornalista chiarisce perché in un’industria in estrema crescita come quella dei videogame, le aziende continuino a fallire e sviluppatori e creativi siano licenziati con noncuranza.

Per la prima volta, il fenomeno di incertezza del posto di lavoro nell’industria videoludica diventa noto anche al grande pubblico e le parole raccolte fanno scalpore, perché in pochi sapevano che dopo l’uscita di un videogioco, anche di successo, qualcuno potesse dire ai suoi dipendenti che era ora di cambiare aria:

Un giorno, ti chiamano per una riunione. L’azienda deve tagliare dei costi e dice che licenzierà. Tu, insieme ad altre venti persone, non fate più parte di questa azienda. Non è per incompetenza, negligenza o qualsiasi altra cosa che tu possa controllare. Non hai fatto nulla di male. Il tuo nome è appena finito sulla lista sbagliata nel momento sbagliato.

Jason Schreier, Why Game Developers Keep Getting Laid Off

Il crunch nell’industria dei videogiochi

Dopo il clamore per “Why Game Developers Keep Getting Laid Off”, Schreier raccontò che molti grandi player sono soliti usare la pessima tecnica del crunch time sui propri dipendenti. Se Ubisoft può essere un vero e proprio limbo per gli sviluppatori, Rockstar può essere un vero inferno. Grazie all’inchiesta “Dentro la cultura del crunch di Rockstar Games” (2018, Kotaku), Jason Schreier è diventato il grande esempio di giornalismo che è oggi.

Red Dead Redemption 2 di Rockstar Games
Red Dead Redemption 2 di Rockstar Games

L’indagine su Rockstar si basa sulle affermazioni di una quarantina di dipendenti provenienti da svariate parti del mondo e che hanno lavorato a diversi giochi di Rockstar Games. Da quanto raccolto, si evince che l’ambiente è completamente guastato dall’idea che sia l’azienda a fare un favore al dipendente, che se non ha voglia di dedicare tutta la sua vita al lavoro, puoi anche andarsene, perché ci sono tantissime persone dietro la porta disposte a farlo:

L’idea che Rockstar si preoccupi dei suoi impiegati e della loro salute è ridicola. Ho lavorato così tanto da essere finito in depressione e con problemi di ansia, che non ho mai avuto fino a quando non ho lavorato per loro. Il mio corpo era esausto, non pensavo di poter avere amici al di fuori del lavoro, mi sentivo come se stessi impazzendo per gran parte del mio tempo passato lì, e ho iniziato a bere pesantemente.

Ex-dipendente Rockstar, Inside Rockstar Games’ Culture Of Crunch

Gli stipendi bassi

In poco tempo, il giornalismo investigativo di Schreier ha scovato punti di attenzione sul trattamento dei dipendenti in tante altre realtà come Naughty Dog e Activion Blizzard. In quest’ultimo caso, la scoperta riguarda l’importante differenza di stipendi all’interno dell’azienda americana. Infatti, se Bobby Kotick, CEO di Activion Blizzard, ha dichiarato 40 milioni di dollari di compensi nel 2019, i comuni dipendenti ricevono spesso il minimo salariale:

Un veterano di Blizzard ha dichiarato a Bloomberg News di aver ricevuto un aumento di meno di 50 centesimi l’ora. Stanno guadagnando meno ora di quanto facessero quasi dieci anni fa, perché stanno facendo meno ore di straordinario rispetto a prima. Diversi ex dipendenti Blizzard hanno affermato di aver ricevuto aumenti salariali significativi solo dopo essere passati in altre società, come la rivale Riot Games Inc. di Los Angeles.

Jason Schreier, Blizzard Workers Share Salaries in Revolt Over Pay
Robert ‘Bobby’ Kotick

Conclusione

Durante un Milan Games Week di qualche anno fa, chiesi a un professore universitario che fece un seminario di game design per l’evento, perché mai dovrei decidere di diventare uno sviluppatore di videogiochi se il crunch time è una pratica ormai accettata dall’industria. Mi rispose che non c’era nessuna ragione logica. Ci deve essere passione, che ti fa turare il naso e ti fa andare avanti in un mondo che è una palude difficile e ingiusta.

Ritengo che per migliorare la condizione dei lavoratori del mondo dei videogame, sia necessario l’intervento del giornalismo d’inchiesta che può far smuovere l’opinione pubblica al fine di rendere migliore un mondo che è troppo spesso gestito nell’ombra. E penso che Jason Schreier ha avuto il merito di essere l’apripista di cui avevamo bisogno.

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Xbox Series X annuncia la fine della console war

Il 23 Luglio 2020, durante l’Xbox Games Showcase, Microsoft ha presentato la line-up che ci condurrà verso la prossima generazione di console. Mentre la stampa italiana fa le prove generali per istigare lo scontro tra PlayStation 5 e Xbox Series X, Microsoft mantiene la sua promessa, si allontana dalla console war e porta tutti i suoi titoli su più piattaforme, rafforzando il fulcro della strategia, il Game Pass.

Alla fine vince sempre il PC. A primo acchito, questo è stato il mio primo pensiero. Del resto, sembra che tutti, o quasi, i giochi per Xbox Series X presentati, saranno disponibili anche per PC. Però, pensandoci meglio, la vittoria non è solo dei PC gamer. Il tema è più profondo, perché con questa presentazione si è voluto porre fine alla console war.

Le strategie

Le tre piattaforme principali hanno tre idee diverse su come condurre la propria strategia. Il fulcro è non entrare in conflitto.

PlayStation 5 continuerà la sua marcia verso le esclusive che le hanno fornito il monopolio del mercato delle console casalinghe. Titoli come Horizon Forbidden West, Gran Turismo 7 e Marvel’s Spider-Man: Miles Morales tuonano nelle orecchie dei casual gamer. Sony cavalcherà l’onda dei titoli esclusivi, anche con il rischio che domani qualcosa possa arrivare anche su altri device. Come ha sempre fatto.

Nintendo Switch combatte in un terreno differente. In questo momento, fa uscire Paper Mario: The Origami King e conta il denaro incassato con Animal Crossing: New Horizons. A breve, sgancerà un paio di bombe per affrontare al meglio il lancio delle console della prossima generazione, magari con titoli di cui si è già parlato all’E3 2019 come The Legend of Zelda: Breath of the Wild 2. Una strategia trasversale che non affronta il nemico faccia a faccia, ma colpisce un mercato che la rende necessaria ma non sufficiente.

Chi si rinnova è il marchio Xbox. Microsoft non è interessata a fare il record di vendite con Xbox Series X. Il suo obiettivo è avere quanti più iscritti al Game Pass. Per farlo ha ben tre piattaforme diverse che permettono a tutti di giocare.

L’ecosistema Microsoft

La prima è chiaramente Xbox Series X, una console per chi va al sodo, per chi vuole soltanto premere un tasto per cominciare a giocare. La seconda è il PC, perché tutti, o quasi, i giochi presenti sulla nuova Xbox saranno presenti anche per computer. I PC gamer non possono essere più contenti. La terza è Project xCloud, per chi è sempre in movimento e per chi non può spendere una fortuna sul del nuovo hardware, ma vuole provare i principali titoli della line-up Microsoft. Un’ecosistema fatto da tre realtà diverse che sono unite da un unico concetto, l’Xbox Game Pass.

Definito anche come il “Netflix per i videogiochi”, il Game Pass è un abbonamento mensile che permette di giocare scegliendo da un catalogo aggiornato periodicamente. A fine Aprile 2020, Microsoft ha dichiarato che il servizio conta dieci milioni di abbonati.

I piani di abbonamento del servizio Microsoft sono tre: PC, Console e Ultimate. Quest’ultima opzione fornisce la possibilità di giocare sia su PC che sulle piattaforme Xbox, ma la vera bomba è l’inclusione di Project xCloud al lancio sul mercato.

Questa scelta implica che, nelle sue strategie future, Microsoft terrà conto di chi comprerà Xbox Series X, dei PC gamer e di chi non ha una piattaforma da gioco, ma possiede una buona connessione internet che gli permette di giocare in cloud senza acquistare alcun hardware. Di conseguenza, con un unico abbonamento si avrà un catalogo di videogame e una piattaforma su cui poterli giocare.

Le esclusive temporali

Su una noto sito italiano del settore, la dicitura “Console Launch Exclusive” è stata definita becera. Io invece sono felice che l’esclusività sia solo temporale.

Finalmente, i riflettori si sono allontanati dalla console war e l’epicentro diventa il videogiocatore. Per anni, la community videoludica è stata intossicata da confronti tra videogiochi non paragonabili per il solo gusto di dire, parafrasando Phil Spencer, vicedirettore di Microsoft Gaming, che “il mio pezzo di plastica è migliore del tuo pezzo di plastica”.

Pazienza se il nuovo Fable è stato presentato solo con un teaser, se Halo Infinite delude perché subisce la cross-generation o se Avowed, il nuovo RPG di Obsidian, è ancora tutto da sviluppare. Come dice Luca Tremolada de ilSole24Ore:

Per gli osservatori del mondo videoludico quella operata è una piccola rivoluzione copernicana che va ancora compresa ma potrebbe cambiare gli equilibri di questo settore.

Luca Tremolada

L’industria

L’industria dei videogiochi sposta tanto denaro. Ci lavorano artisti, sviluppatori, localizzatori, ingegneri, senza contare aree marketing e risorse umane. Nel 2018, il mercato dei videogiochi valeva 130 miliardi e le stime ipotizzano che raggiungerà i 300 miliardi nel 2025. In un’industria del genere, servono idee innovative e Microsoft ha fatto un passo avanti verso la rivoluzione.

Non ho la certezza che questa strategia funzionerà, ma la prova di forza della casa di Redmond è evidente. Microsoft ci sta dicendo che Xbox Series X è solo una delle tre piattaforme che compone il suo ecosistema. Il suo obbiettivo principale non è vendere console, perché anche il PC è casa sua. Non ha la necessità di Sony di sbancare nel mercato delle console casalinghe.

La Community

Microsoft vuole creare una community fatta da giocatori provenienti da tante piattaforme diverse, per rivoluzionare un mercato che ormai da troppo tempo si avvelena il sangue in una stupida guerra che ha reso invivibile l’industria dei videogiochi.

La nuova generazione ci porterà un’esperienza ben diversa da quella dell’ultimo decennio e, finalmente, il merito non è dovuto a una nuova veste grafica da urlo, ma a una competizione diversa tra i maggiori player.

Non ho ancora scelto con quale piattaforma abbraccerò l’idea Microsoft, ma so che voglio fare parte di questa community, che vuole scardinare le catene di conversazioni basate solo su chi ha il pezzo di plastica migliore. E voi?

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Super Mario non è mai stato solo un platform

L’idea che si ha di Super Mario è strettamente legata alla serie platform iniziata nel 1985 con Super Mario Bros. Dati alla mano, possiamo dire che questa visione è errata da almeno 30 anni. Super Mario conta solo 19 platform originali contro un centinaio di titoli con un genere completamente diverso dalle piattaforme.

Gli inizi

Il personaggio nasce nel 1981, quando Nintendo, in difficoltà, porta sul mercato un gioco arcade che salverà la compagnia, Donkey Kong. Il titolo si basa su un “jumpman”, che deve salvare la principessa dal King Kong di Nintendo. Il gioco sarà un successo e l’eroe prenderà il nome di Mario.

Dal 1985, il jumpman si mette in proprio e nasce il grande platform game Super Mario Bros. Da quell’anno, Super Mario sarà ricordato come il re dei giochi platform per l’enorme qualità dei suoi titoli principali, ma oggi il franchise Mario vive soprattutto di altro.

I titoli principali

Nintendo afferma che i titoli principali, tutti platform 2D o 3D, della serie Mario sono 19:

  • Super Mario Bros. – 1985
  • Super Mario Bros. 2 – 1988
  • Super Mario Land – 1989
  • Super Mario Bros. 3 – 1990
  • Super Mario World – 1991
  • Super Mario Land 2: 6 Golden Coins – 1992
  • Super Mario 64 – 1996
  • Super Mario Sunshine – 2002
  • New Super Mario Bros. – 2006
  • Super Mario Galaxy – 2007
  • New Super Mario Bros. Wii – 2009
  • Super Mario Galaxy 2 – 2010
  • Super Mario 3D Land – 2011
  • New Super Mario Bros. 2 – 2012
  • New Super Mario Bros. U – 2012
  • Super Mario 3D World – 2013
  • Super Mario Maker – 2015
  • Super Mario Run – 2016
  • Super Mario Odyssey – 2017

Tutti questi giochi, incluso il titolo mobile Super Mario Run e l’ibrido Super Mario Maker, sono dei giochi a piattaforme. Questa visione della storia di Mario non rende giustizia alla moltitudine di titoli in cui è comparso l’idraulico italiano. Infatti, la maggior continuità della serie principale si ha tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90. Successivamente, la saga principale di Super Mario è stata narrata prendendosi più tempo tra un titolo e un altro.

Ovviamente, oggi serve maggior tempo per creare un titolo di altissima qualità, come lo sono i Mario attuali e Nintendo ha moltissime IP diverse da coltivare. Però, Super Mario è da 30 anni che compare in moltissimi titoli che portano il suo nome.

Gli altri

I giochi che presentano il nome Mario sono 161. I platform game 2D e 3D sono in totale 47. Solo il 30% dei titoli che portano il nome di Mario sono dei giochi a piattaforme.

Infografica numero di giochi di Super Mario per genere.
Infografica numero di giochi di Super Mario per genere.

In particolare, la distribuzione annua dei titoli platform di Super Mario ci fa capire come il franchise sia nato negli anni ’80 come genere 2D a scorrimento laterale, per poi trasformarsi nel primo vero brand videoludico della storia, abbracciando differenti generi. Esattamente come sta tentando di fare il franchise Pokémon nei nostri giorni.

Infografica generi Super Mario per decade.
Infografica generi Super Mario per decade.

I principali generi che hanno il faccione di Mario in copertina sono una decina. Tra questi, i più importanti in termini di quantità sono, in ordine: gli sportivi, i puzzle game, i party game, i giochi di corsa, che fanno categoria a parte, e gli RPG.

I videogiochi dedicati allo sport sono una categoria molto ampia e contengono titoli come Mario Golf, Mario Tennis, il dimenticato Mario Strikers, ma anche la più generica serie Mario Sports e gli olimpionici di Mario & Sonic.

I puzzle game sono stati tra i primi esperimenti del franchise. Facili da realizzare, trovano la sua forma perfetta in Dr. Mario, mentre la categoria party si accosta alla serie Mario Party. Allo stesso modo, i giochi di corsa del brand sono accostati alla serie Mario Kart.

Infografica genere Super Mario
Infografica genere Super Mario

La questione è più delicata quando si parla di gioco di ruolo. Inizialmente arrivò l’amatissimo Super Mario RPG, ma il genere si divise in due serie, Mario & Luigi e Paper Mario. I più puristi dissentiranno su dove collocare i vari capitoli di Paper Mario, dato che l’appena arrivato Paper Mario: The Origami King presenta delle meccaniche che si allontano abbastanza dal genere, come già fatto da alcuni suoi predecessori.

Conclusione

Sul franchise Super Mario si potrebbe parlare per giorni e probabilmente servirebbero vari esperti di storia della comunicazione per poter comprendere l’immensità di un personaggio che spazia in qualsiasi media e gadget. Al giorno d’oggi, è quasi riduttivo parlare dell’idraulico italiano come un personaggio videoludico. Lui, e tutti i suoi carismatici compagni di avventura, sono ormai parte integrante della società pop e la sua notorietà va ben oltre i soli videogame.

I dati però sono chiari. Super Mario è nato negli anni ’80 come un gioco a piattaforme 2D, ma negli anni ’90 la strategia Nintendo ha collocato l’idraulico italiano in moltissimi altri generi, tanto da allontanarsi, per quantità, dal platform . Il trend è stato mantenuto inalterato per tutti i decenni successivi e dato che il primo gioco del 2020 è Paper Mario: The Origami King, possiamo immaginare che sarà così anche nell’immediato futuro.

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Il prezzo dei videogiochi deve essere uniformato

Trovo profondamente ingiusto che un videogioco abbia prezzi diversi in base alla piattaforma e alla console su cui lo stiamo comprando. Ritengo che bisognerebbe regolamentare un minimo il mercato dei videogiochi così da evitare, per esempio, che chi ha un Nintendo Switch debba spendere anche trenta euro in più per lo stesso gioco.

Una regola aurea dei mercati finanziari dice che il valore di un’azione deve essere uguale su tutti i mercati. Una regola semplice e logicamente ineccepibile, perché se i prezzi fossero diversi, qualcuno potrebbe, ad esempio, comprare negli Stati Uniti e vendere in Europa generando un profitto. Per un motivo molto simile, trovo ingiusto che un gamer debba analizzare tutte le piattaforme fisiche e digitali, per non farsi fregare sul prezzo di un semplice videogioco.

I saldi di Steam

Siamo appena usciti dal ricorrente, ma sempre entusiasmante, periodo dei saldi estivi di Steam. Nonostante qualcuno lamenti dei prezzi un po’ più alti rispetto al passato, sono riuscito a portarmi a casa tre giochi, di cui due capolavori, a soli trenta euro. Sto parlando di The Witcher 3: Wild Hunt – Game of the Year Edition, Deus Ex: Mankind Divided e Vampyr. Tre titoli che potrò giocare in cloud su GeForce Now, a meno di sorprese da parte dei publisher.

In particolare, The Witcher 3 e Vampyr sono due titoli che avrei voluto acquistare per Nintendo Switch, ma la differenza di prezzo è eccessivamente proibitiva.

The Witcher 3: GOTY, che include anche entrambe le espansioni Hearts of Stone e Blood & Wine, durante i saldi di Steam costava quindici euro, mentre il prezzo più basso che la versione per Nintendo Switch ha mai avuto è quaranta euro. Per lo stesso prezzo, ho portato a casa anche Vampyr, un action RPG sviluppato da Dontnod Entertainment, che ha avuto come picco minimo 25 euro, su Switch.

I costi di Nintendo Switch

Ovviamente, i giochi per Nintendo Switch escono sempre con un poco di ritardo, quindi il loro valore ai nostri occhi è maggiore, ma il ritardo di pubblicazione è già una piaga per i nintendari. Sperare, e successivamente attendere, che un titolo esca anche per Switch è una punizione già abbastanza grande, che non si merita ulteriori rincari.

Un caso emblematico di questi giorni sono i titoli di 2K Games. Borderlands 2 e Borderlands: The Pre-Sequel sono stati regalati da Epic Games Store, mentre su Nintendo Switch fanno parte della Borderlands Legendary Collection, disponibile alla modifica cifra di 50 euro. Medesimo discorso si può fare su BioShock. Dopo averlo comprato, praticamente regalato, su Steam molti anni fa, ho persino ricevuto gratuitamente le Remastered, mentre su Nintendo Switch è uscito allo stesso folle prezzo di lancio di tredici anni fa.

Quando recensisco titoli di terze parti per Nintendo Switch, non tengo mai conto della grafica, così come non tengo mai conto della portabilità. Il vantaggio della mobilità bilancia lo svantaggio della qualità grafica. Anche se penso che sia giusto premiare lo sforzo degli sviluppatori che portano un videogioco anche sull’ibrida Nintendo, ritengo che il prezzo si deve avvicinare al costo che hanno sulle altre console. Purtroppo questa soglia di tollerabilità è spesso superata.

Lo stato dell’arte

Anche se il primo pensiero è tra Nintendo Switch contro resto del mondo, si può notare come il costo dei giochi sia totalmente sballato anche per tanti altri particolari, più o meno grandi.

Dopo molte settimane, ho fatto un giro presso il MediaWorld più vicino a casa e ho notato come ci fossero dei titoli per PlayStation 4 che costano settanta euro! Ovviamente, The Last of Us II è uno di quelli, ma non era l’unico. Se posso comprendere il valore che si dà a Resident Evil 3, non mi capacito di come A.O.T. 2: Final Battle, il mediocre tie-in de L’Attacco dei Giganti costi settanta euro.

Il problema è che qualsiasi player dell’industria videoludica ha il diritto di apportare modifiche al prezzo di un gioco multi-piattaforma. Se ci pensiamo bene, lo scenario è vasto, complicato e totalmente sballato.

Oggi, un qualsiasi videogioco multipiattaforma esce all’inizio, solitamente, per tre dispositivi: PlayStation 4, Xbox One e PC in edizione fisica. Inoltre, il gioco è disponibile, magari con diritto di esclusiva, su piattaforme digitali come Epic Store Games, Steam o piattaforme proprietarie come Uplay.

Sembra tutto normale, ma in realtà Amazon apporterà nel breve perido uno sconto, che farà risparmiare tra i cinque e i dieci euro. Di conseguenza, le grandi catene di distribuzione possono decidere di muoversi, oppure no! Ci ritroviamo quindi Uniero che sconta quel titolo di dieci euro, mentre MediaWorld non lo fa. Almeno inizialmente, perché dopo una ricerca di mercato, si rendono conto del prezzo dei competitor e abbassano il costo di quel titolo, mentre lasciano invariato a settanta euro il prezzo di A.O.T. 2: Final Battle, perché “tanto non se lo fila nessuno”, tranne lo stesso Amazon, che lo vende a venti euro in meno.

Gli store digitali

Sana competizione, che diventa abominevole, se aggiungiamo all’algoritmo anche la variabile dei mercati digitali. Non basterebbe un manuale universitario per studiare e capire quanto spesso e quanto velocemente i prezzi cambino nel contesto virtuale. Infatti, non solo i giochi hanno prezzi diversi in base alla piattaforma, ma hanno anche valori diversi in base allo store digitale che stiamo considerando. Il giorno in cui Epic Games Store regalava Civilization VI, Steam lo vendeva a un prezzo che non poteva sicuramente essere inferiore ai quindici euro, il prezzo minimo mai raggiunto sulla piattaforma Valve.

La battagli dei prezzi porta sicuramente dei vantaggi a molti gamer, ma va a discapito di molti altri. Sono un videogiocatore navigato e prima di acquistare qualsiasi gioco su Steam, verifico i prezzi su tutti gli altri player che me lo potrebbero fornire a meno, ma questa operazione richiede tempo.

Un mercato sballato

I bambini, gli adolescenti e soprattutto i loro genitori, possono rimanere molto delusi dal mercato videoludico, quando scoprono di aver acquistato da GameStop un gioco che da Euronics costava la metà. Ancor peggior se si è disposti a comprare un titolo in forma digitale e scoprire che i prezzi sono spesso totalmente diversi tra le varie piattaforme. Se a questo aggiungiamo la necessità di dover tenere in conto che l’acquisto di un Nintendo Switch implica che pagherò i giochi sempre un po’ di più rispetto agli altri dispositivi, capisco che giocare senza farmi fregare del denaro è seriamente impegnativo.

Gabe Newell e gli sconti di Steam

In questo contesto, Nintendo Switch diventa la console per chi ama le esclusive della casa di Kyoto e per chi vuole giocare in portabilità, senza poter risparmiare un euro. Il PC da gaming costa tanto, ma puoi risparmiare molto con Steam, e se sei smaliziato, anche con la pirateria. Se invece possiedi una PlayStation 4, devi buttare sempre un occhio allo store Sony, mentre se hai una Xbox One puoi sfruttare il GamePass.

In altre parole, devo seguire l’andamento del mercato dei videogiochi con un’applicazione tale che se facessi lo stesso sui mercati finanziari diventerei probabilmente milionario.

Conclusione

Con tutti questi piccoli esempi, vi voglio far comprendere quanto possa essere difficile poter entrare nel mercato dei videogiochi per una famiglia che è attenta alle spese. Paradossalmente, il rischio maggiore per un genitore non è beccarsi una fregatura su uno store online, ma rimanere paralizzato dell’eterogeneità dei prezzi dei videogiochi. Infatti, di fronte a un panorama così diversificato, il pensiero di non aver il tempo necessario per fare queste valutazioni e desistere, è molto più frequente di quanto non possa sembrare.

In un mondo ideale, mi piacerebbe che quando accendo la mia console, so per certo che la mia azienda preferita mi tuteli fornendomi quel gioco al miglior prezzo possibile, in base a delle regole di mercato, che non possano essere sovvertite dal Gabe Newell di turno, che ti fa spendere in salute mentale quello che risparmi con il denaro.

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GeForce NOW, affetto e nostalgia con il cloud gaming

La console war 2020 tra PlayStation 5 e Xbox Series X non è l’unica insensata guerra che si combatterà quest’anno. Il cloud gaming è oggi solo una nicchia, ma sappiamo che vorrebbe dominare il futuro dell’industria videoludica ed è già in atto una battaglia per il predominio.

Le aziende che si vogliono imporre sono tre: Google, Microsoft e NVIDIA, con il marchio GeForce. Se non possiamo ancora giudicare il cloud gaming di Redmond, chi vuole giocare in cloud oggi, può scegliere tra Google Stadia e GeForce NOW. Io ho scelto GeForce NOW, perché mi ha permesso di tornare indietro negli anni e poter terminare un importante titolo che avevo abbandonato, Watch Dogs.

Cloud gamer

Sono un entusiasta del cloud gaming, perché mi permette di giocare anche con il mio Dell XPS 13, acquistato per la sua leggerezza, con la consapevolezza di non poter mai essere usato per il gaming. Inoltre, in questo momento di transizione, dove preferisco aspettare la nuova generazione, mi potrà dare la possibilità di giocare Cyberpunk 2077, e magari recuperare dei titoli che mi sono perso per strada negli ultimi anni e che Nintendo Switch non può supportare.

Queste necessità possono essere colmate anche da un PC da gaming. Un computer non segue le generazioni console. Se volessi giocare a Cyberpunk 2077, senza rischiare rallentamenti, oggi l’opzione migliore sarebbe acquistare un PC da gaming. Però, bisogna tener conto di due fattori determinanti: il costo e lo spazio fisico. Se da un lato giocare costa, dall’altro lato, non voglio traslocare per fare entrare in casa un computer da gaming.

Google vs NVIDIA

Rimane dunque un’unica opzione, il cloud gaming. Premettendo che, per questioni di comodità, gioco via Wi-Fi con una fibra ottica, che in questo momento mi garantisce quasi 400 Mbps, posso dire che sia Google Stadia che GeForce NOW sono due servizi ottimi. Li ho provati entrambi e la mia scelta ricade sulla tecnologia NVIDIA, perché mi ha dato l’emozione della nostalgia.

La differenza sostanziale tra i due servizi è la gestione della libreria. Google Stadia si sostituisce a servizi già consolidati come Steam, Uplay e l’emergente Epic Games Store. GeForce NOW, invece supporta le principali librerie delle piattaforme di distribuzione digitale.

Libreria e Prezzi

Mi sono appassionato al cloud gaming già da un po’, perché lo ritengo un servizio che possa colmare molte mie lacune videoludiche. Già in tempi non sospetti, mi sono iscritto alla beta di GeForce NOW. Non mi è mai arrivata una chiave, ma il Covid-19 mi ha permesso di avvicinarmi a Google Stadia.

Al servizio di Mountain View devo la possibilità di aver portato a termine, gratuitamente, SteamWorld Dig 2, dopo aver terminato il primo capitolo su Nintendo Switch. Sarei passato pure oltre al paragone negativo con la console nipponica. Del resto, giocare un indie su Nintendo Switch ha un sapore totalmente diverso che farlo su qualsiasi altra piattaforma. In particolare, l’avrei fatto perché Google Stadia mi darebbe la possibilità di giocare a Red Dead Redemption II.

Il titolo di Rockstar Games deve essere giocato, ma in una costante ricerca del risparmio, Google Stadia ne esce sconfitto. Infatti, sullo store l’Ultima Edition di Red Dead Redemption 2 costa 90 euro contro i 54 euro della stesse versione su Steam. In più, acquistare il titolo su Google Stadia permette di giocare solo in cloud. Se domani non avessi a disposizione una connessione internet decente, cosa del tutto possibile sul territorio italiano, finirei per non poterlo nemmeno far partire.

Il difetto di GeForce NOW

D’altro canto, se domani disponessi di un PC più performante, la versione Steam mi permetterebbe di giocarlo anche offline. Nel frattempo, potrei giocarlo in cloud gaming con GeForce NOW, se fosse disponibile. Infatti, Red Dead Redemption 2 non è giocabile sullo store NVIDIA, come tanti altri.

La parte negativa di GeForce NOW è proprio la lista di titoli molto risicata. Nondimeno, alcuni publisher hanno abbandonato il servizio a causa di politiche non chiare, ma NVIDIA sembra stia risolvendo il problema, tanto da far fare un passo indietro a Square Enix, che sta rendendo nuovamente disponibile i suoi giochi.

Nonostante questo, GeForce NOW ha vinto su qualsiasi mio dubbio questa settimana, quando ho deciso di esplorare il catalogo del servizio. Ho cercato ogni gioco che posseggo sulle mie piattaforme e con enorme sorpresa ho scoperto che Watch Dogs è disponibile per giocare in cloud.

La nostalgia per Watch Dogs

Qualche anno fa, i miei amici mi hanno regalato un videogioco di cui parlavo in continuazione e che pensavo sarebbe stato un capolavoro, Watch Dogs. Effettivamente il titolo Ubisoft ha avuto un buon successo, tanto da aver avuto un sequel, Watch Dogs 2, ed è in arrivo un terzo capitolo, Watch Dogs: Legion. Nel 2014, il mercato digitale non era così importante, quindi Watch Dogs arrivò nelle mia mani in versione fisica, ma con l’obbligo di registrarsi su Uplay.

Il più grande difetto di Watch Dogs è l’essere stato sviluppato da Ubisoft. I problemi di ottimizzazione erano importanti. Il mio PC riusciva a farlo girare, ma nei tantissimi momenti in cui bisognava guidare, il mio povero computer stentava. Considerate che Watch Dogs è ambientato in un’enorme Chicago e preferivo spostarmi a piedi per non scattare. Follia pura, che mi ha costretto ad abbandonare il gioco, perché non erano condizioni tollerabili.

Nonostante lo considerassi un titolo stupendo, non ho potuto mai terminarlo e questo è sempre stato un colpo al cuore. Da un lato, perché volevo veramente giocarlo, dall’altro perché era un regalo e meritava di essere spulciato fino in fondo, soprattutto per il suo valore affettivo. Purtroppo questo non è mai avvenuto e ho finito per dimenticare Watch Dogs sullo scaffale della mia collezione di videogiochi. Fino a questa settimana.

Inizialmente, l’idea era di usare Watch Dogs come prova per valutare GeForce NOW. Dopo aver avviato il gioco, la bella sorpresa è stata riuscire a poter ripartire esattamente da dove avevo lasciato il videogame. Evidentemente, Uplay ha conservato i miei salvataggi sul proprio cloud e GeForce NOW mi ha fatto ricominciare proprio da lì. Il risultato è stato non voler più mollare il gioco, fino a quando non lo avrò finito.

È stato tutto molto casuale, ma non per questo non ci sono state delle emozioni. La bella sorpresa di riprendere i miei salvataggi. Il vedere lo stesso gioco, abbandonato per scarsa fluidità, così bello e godibile. La possibilità di poter terminare un gioco, che mi è stato regalato e su cui c’è un legame affettivo. Tutto questo, perché il servizio NVIDIA si collega direttamente alla mia libreria di videogame.

Conclusione

Pensandoci, la mia collezione di videogiochi è una parte di me. Mi ricorda quello che mi è piaciuto, quello che mi piace, e con la lista desideri, quello che vorrei giocare. Una serie di sentimenti che mi definiscono in quanto videogiocatore. La sconfitta di Google Stadia risiede in una libreria grigia orientata solo al futuro, a quello che acquisterò, senza potermi voltare indietro.

Penso che Microsoft entrerà prepotentemente nel settore del cloud gaming con l’Xbox Game Pass, ma non è presente in questo periodo di transizione in cui si attendono le nuove console. GeForce NOW e Google Stadia stanno prendendo vantaggio, ma solo il servizio NVIDIA sta dimostrando di poter venire incontro a quei gamer, che hanno veramente l’esigenza di usare il cloud. Magari in futuro la visione di cloud gaming sarà diversa da quella odierna, ma in questo momento videoludico, i sentimenti giocano un ruolo fondamentale e GeForce NOW mette a disposizione una piattaforma in grado di emozionare facendo leva anche sulla nostalgia.

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Cyberpunk 2077 dà il via alla rivoluzione dei franchise videoludici

L’evento più importante di giugno è a mani bassi il press kit di Cyberpunk 2077, che ci ha permesso di vedere in anteprima il gioco nella sua bellezza. Le risposte alle domande di stampa e pubblico sono state positive, ma ci separano ancora un po’ di mesi dall’uscita del titolo e la mia concentrazione va su un particolare passato in sordina. Cyberpunk 2077 diventerà un anime ancora prima dell’uscita del gioco, sovvertendo le classiche regole dei videogiochi e rivoluzionando il concetto di gioco come franchise.

Netflix produrrà Cyberpunk: Edgerunners, un anime tratto dal gioco e previsto per il 2022. Di per sé non è una notizia eclatante. Del resto, The Witcher è già una serie TV Netflix ed è stata addirittura da poco annunciata la versione televisiva di giochi indie come Disco Elysium e Cuphead. L’importante evoluzione di cui parlo riguarda i tempi. Due sono quelli interessanti: il momento dell’annuncio e la data d’uscita.

Solitamente, un videogioco per diventare un franchise deve seguire rigorosamente delle fasi che accendono i riflettori su di lui. Prima esce il videogame. Successivamente, deve essere recensito positivamente e acquistato da un buon numero di persone. Solo dopo aver acquisito un buon numero di seguaci, il videogioco è pronto per tentare il salto nei media che contano. Parliamo ovviamente di cartoni animati, serie TV e, quando il titolo è sufficientemente grasso, anche fumetti, libri e giochi da tavolo.

Il franchise videoludico negli anni ’90

Il franchise Pokémon è l’esempio più lampante di questo concetto. Nato nel 1996 con i videogame Pokémon Verde e Pokémon Rosso, il successo è diventato planetario con l’anime uscito un anno dopo. Solo a quel punto, i Pokémon sono stati spremuti con ogni sorta di gadget possibile, tra cui l’ancora attivissimo gioco di carte collezionabili e ogni tipo di videogioco immaginabile.

Pokémon è diventato così grande che è stata costituita The Pokémon Company, che si occupa solo di produrre qualsiasi cosa brandizzata con il volto di Pikachu o Eevee. Basta pensare al tanto criticato Pokémon Unite appena annunciato. L’idea di un MOBA sui Pokémon avrebbe fatto impazzire tanta gente fino a qualche anno fa, ma il franchise Pokémon è così saturo di qualsiasi tipo di gioco e gadget, che è stato incredibilmente attaccato da chi si aspettava un videogame della serie principale.

Venti anni fa si diceva che non era possibile cavar fuori un buon film, serie TV o spesso nemmeno fumetti e libri da un videogioco. Infatti, chi li produceva non era interessato alla qualità, ma solo a spennare i fan del videogame, troppo spesso visti come ragazzini incapaci di comprendere cosa fosse un bel film. Da questo concetto sono nate negli anni ’90 produzioni orribili come il film di Mortal Kombat e Street Fighter – Sfida finale. Ovviamente lo stesso discorso si può fare anche citando gli anni 2000 con Max Payne (film) del 2008 e Tekken (film) del 2009.

In altre parole, fino ad oggi era più probabile che un anime diventasse un videogame carino che un gioco potesse divenire un bel film o serie TV, di cui non parlerò nemmeno perché la lista di opere terrificanti sarebbe veramente lunga.

Il franchise videoludico oggi

CD Projekt Red è diventata la maggior produttrice di videogiochi europea superando anche Ubisoft. Questo successo è dovuto alla serie The Witcher, oggi vero e proprio franchise multi-media grazie alla fortunata serie targata Netflix. Nel caso di The Witcher, i libri hanno dato una spinta iniziale al videogame, che si è affermato come capolavoro grazie al terzo capitolo. Bisogna però notare che solo dopo il clamoroso successo di The Witcher 3: Wild Hunt, Netflix è andata a bussare alla porta della casa di sviluppo polacca per chiedere i diritti per produrre una serie TV.

Allo stesso modo, i giochi free-to-play più desiderati dal giovane pubblico hanno consentito di far soldi a youtuber dalle dubbie qualità artistiche con video deliranti e libri che mai oserò aprire solo dopo che questi si sono affermati come giochi con un ampio pubblico. Per quanto possa essere quasi fastidioso ammetterlo, Minecraft e Fortnite sono dei franchise da miliardi di dollari e di quest’ultimo si parla anche di una possibile serie TV in arrivo. Però, nemmeno in questi casi c’è stata la rivoluzione di cui stiamo parlando con Cyberpunk 2077, in quanto i franchise sono stati costituiti solamente dopo aver apprezzato i giochi.

Il franchise Cyberpunk 2077

Cyberpunk 2077 è diverso, perché sta tentando di cambiare il paradigma. L’annuncio dell’anime lo rende di fatto già un franchise, perché CD Projekt ha venduto a Netflix dei diritti di un gioco non ancora pubblicato. E ovviamente questo indurrà tante altre aziende a spingere il marchio Cyberpunk 2077 su tanti altri gadget e media.

Da oggi i videogiochi non avranno più bisogno di imporsi come grandi titoli per uscire fuori dal mercato videoludico. Esattamente come i film, basterà parlarne per far scattare la guerra ai diritti, che porterà l’opera in tutti i media conosciuti. È un successo del mercato dei videogiochi, che si è evoluto così tanto da non essere più il prodotto di nicchia creato molto spesso per fare facili guadagni con i diritti provenienti da film e cartoni animati.

Ovviamente, questo non significa che l’anime di Cyberpunk 2077 sarà un capolavoro, anzi. I dubbi sulla qualità ovviamente permangono, ma almeno a differenza degli anni ’90, si può sperare. Del resto, il prendersi un po’ di tempo per far uscire Cyberpunk: Edgerunners fa pensare che ci vogliano lavorare con i giusti tempi.

Cyberpunk: Edgerunners uscirà nel 2022
Cyberpunk: Edgerunners uscirà nel 2022

Il 2022 come data d’uscita della produzione Netflix non è banale e non si tratta solo di fare un bel cartone animato. Infatti, con questa mossa CD Projekt ci sta dicendo che il marchio Cyberpunk non sarà solamente un videogioco in uscita a novembre 2020, ma un vero e proprio franchise che sarà supportato per un lungo periodo. Non solo come opera videoludica, ma come brand nel suo termine più esteso possibile.

Conclusione

Oggi i videogiochi stanno sempre di più diventando media al pari di film, serie TV e cartoni animati. Il lavoro per raggiungere questo obbiettivo non è concluso, ma dopo tanti decenni di sacrifici, l’industria videoludica sta arrivando al grande traguardo di essere paragonata al pari di un film da premio oscar.

Personalmente, la mia felicità è duplice. Da un lato, penso che l’industria videoludica sia costituita da veri e propri artisti. Meritano di ricevere il trattamento che adesso è riservato solo ai grandi registi e produttori del mondo del cinema. Dall’altro lato, sono contento di poter vedere delle opere tratte da videogiochi che possano essere godibili.

Ho sempre avuto un enorme disagio ad acquistare media o merchandise provenienti dal mondo dei videogiochi, perché spesso si trattava di materiale di scarsa qualità che mi urlava in faccia che ero un fesso, perché avevo acquistato qualcosa di poco valore a un prezzo folle, solamente perché ho amato il gioco.

Mi auguro che questo cambio di paradigma possa riappacificarmi con la coscienza e potermi godere un libro o un fumetto tratto da un videogame senza sentire il disagio di essere un fanboy.

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Nintendo Switch è necessaria ma non sufficiente

Limitandoci al solo settore videoludico, il 2020 sarà ricordato come l’anno di transizione verso la nuova generazione di console. In un momento di profonda incertezza sulle qualità di Xbox Series X e PlayStation 5, l’unica conferma sembra arrivare da Nintendo Switch, una console necessaria da avere, ma non sufficiente per conoscere l’intero panorama videoludico di questi anni.

Fino al Nintendo Wii U, i meme si concentravano su una console war a tre con i PC gamer che guardavano divertiti la scena. Nintendo Switch ha sovvertito le regole e oggi su reddit potete trovare soprattutto vignette in cui la console di Kyoto se la ride mentre Microsoft e Sony lottano per la loro visione di gaming, ormai non troppo diversa da quella PC.

Il 2020 è di Nintendo Switch

In un periodo di emergenza sanitaria, Nintendo Switch ha fornito al mondo un anti-stress quasi assuefativo come Animal Crossing: New Horizons e si è impone come console di riferimento di quest’anno, anche al di fuori degli appassionati di videogiochi. La console nipponica è oggi un evento mediatico e la sua diversità gli permette di continuare sui suoi binari, senza bisogno di evolversi durante il prossimo anno. In altre parole, Nintendo Switch è un successo di questa generazione e lo sarà anche per la prossima.

Per questo motivo, penso che sia fondamentale per tutti gli amanti dei videogiochi possedere la console giapponese per conoscere l’intero panorama videoludico. Personalmente, non gioco in mobilità. Al massimo, posso decidere di cambiare stanza, ma posseggo un Nintendo Switch, perché ritengo che chiunque abbia passione per i videogame, debba assolutamente aver giocato a dei titoli che saranno ricordati per anni come punti da raggiungere.

Una console necessaria

Se siete degli amanti dei picchiaduro, troverete in Dragon Ball FighterZ e Street Fighter V tante ore di divertimento, ma non potrete non aver provato Super Smash Bros. Ultimate, il miglior gioco della serie.

Se preferite i platformer, Ratchet & Clank per PlayStation 5 vi starà probabilmente stuzzicando, così come l’annuncio di Crash Bandicoot 4: It’s About Time. Però, entrambi si dovranno scontrare con una certezza che ha definito gli standard odierni, Super Mario Odyssey.

Le uniche alternative ad Animal Crossing: New Horizons, per chi non ha la console Nintendo sono Stardew Valley e Harvest Moon, ma il successo dell’opera del Team 5 è stata così ampia che ha trasformato quei due ottimi prodotti in surrogati.

Ovviamente, non dimentico quello che per me è il re indiscusso dell’attuale generazione: The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Ci sono della alternative a questo gioco in termini di gameplay e ne parleremo dopo, ma non esiste un altro The Legend of Zelda ed è un’esclusiva Nintendo che tutti, veramente tutti, dovrebbero aver giocato almeno una volta nella vita.

Zelda: Breath Of The Wild

Quelli che ho elencato sono i punti fondamentali della generazione odierna, che chiunque deve aver provato per poter capire se i giochi che usciranno domani sono veramente innovativi. Però, nel mio gusto personale c’è molto di più. Per capire l’evoluzione dei JRPG, è necessario aver conosciuto la serie Xenoblade Chronicles mentre Fire Emblem: Three Houses è semplicemente il miglior gioco di una serie che è in realtà un genere a sé stante.

Se siete tra quelli che amano i videogiochi, ma se come molti player italiani, giocate solo su smarthphone e state cercando di capire su quale console orientarvi, non posso che dirvi che Natale è troppo lontano e Nintendo Switch va giocata subito.

Se invece possedete un PC da gaming, una PlayStation 4 o una Microsoft Xbox One, allora Nintendo Switch vi completerà come videogiocatori per tutti i motivi elencati sopra.

Una console non sufficiente

Nonostante le parole d’amore che ho speso per la console di Kyoto, Nintendo Switch non è sufficiente per coprire l’intero mondo dei videogiochi. In altre parole, bisogna assolutamente averla, ma bisogna possedere anche un’altra console o un pc da gaming.

Tutti i titoli che vi ho elencato sono necessari per formare un videogiocatore, ma non sono sufficienti a completarlo. Nintendo ha fatto un ottimo lavoro per portare tante terze parti nel catalogo della sua console, ma non basta.

Infatti, da un lato ci sono porting che non sono all’altezza, come nel recente caso di The Outer Worlds o nel limitato The Witcher 3: Wild Hunt. Mentre dall’altro lato, ci sono videogiochi che sono esclusive di altre console, o semplicemente non potranno mai girare su Nintendo Switch.

I nomi sono tanti, ma alcuni bisogna obbligatoriamente citarli. The Last of Us II è un capolavoro acclamato. Se The Legend of Zelda: Breath of the Wild si gioca il titolo di miglior titolo degli ultimi dieci anni, un suo concorrente può essere un altro caposaldo dell’open world come Red Dead Redemption 2.

Se parliamo di remake invece ci sono dei giochi che hanno fatto la storia due volte. Prima con la versione originale e oggi con il proprio remake. Parlo ovviamente di Final Fantasy VII Remake e Resident Evil 2 Remake.

A titolo personale penso che Monster Hunter: World è un gioco che tenta molti fan Nintendo e personalmente ho grandi aspettative nei confronti di Cyberpunk 2077 e Baldur’s Gate III. In questo caso, il cloud gaming potrebbe colmare molte lacune. Purtroppo, la rimozione di Monster Hunter: World da Geforce NOW mi ha dato poche certezze per il futuro.

Conclusione

Questo articolo vuole essere la versione soft di un manifesto contro la console war. Che voi siate dei PC gamer, dei sonari oppure degli xboxari, dovete assolutamente avere un Nintendo Switch. D’altro canto, il Nintendo Switch non può essere la vostra unica console, perché non permette di avere una visione globale del mondo dei videogiochi.

Il 2020 è l’anno di transizione perfetto per colmare importanti lacune videoludiche. L’emergenza coronavirus ha rallentato anche l’industria dei videogiochi, ma questo momento negativo può essere sfruttato per recuperare dei pezzi che diventeranno storia. Prendetevi del tempo per capire cosa vi manca per completarvi come giocatori e sfruttate a pieno questi mesi prima delle feste natalizie, perché il 2021 ci porterà così tante novità che sarà difficile voltarsi indietro, finendo per non poter mai più mettere mani su capolavori che ci permetterebbero di capir meglio quello che sta per arrivare.