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Monster Hunter Stories 2, ne vale davvero la pena?

Non ne farò mistero, Monster Hunter Stories 2: Wings of Ruin è un jrpg che mi è piaciuto, tanto, come testimonia la mia recensione, siglata da un altisonante 9. Insomma, non un perfect score, certo, ma un voto dannatamente alto, soprattutto se dato da un fan di lunga data del genere JRPG. Il 28 ottobre è stato rilasciato l’ultimo dlc gratuito, comprendente l’iconica coppia del Rathalos Argentato e la Rathian Dorata, che chiude la roadmap annunciata durante il periodo di release del titolo.

Siamo quindi qui a tirare le somme sul JRPG made in Capcom, e per quest’occasione ho avuto modo di confrontarmi con un importante membro della community italiana di Monster Hunter. Sto parlando del carissimo Edivad, di cui linko il canale Youtube, ricco di informazioni, guide e curiosità sul nostro hunting game preferito.

L’idea di scrivere questo articolo è nata proprio da una chiacchierata circa i ” problemi” di Stories 2, concludendo che i margini di miglioramento ci sono tutti, seppur sia un ottimo titolo. Abbiamo quindi deciso di proporre le nostre personali visioni nel modo che ci riesce meglio, io tramite questo articolo, lui tramite un video che vi linko, e di cui consiglio la visione. Ma adesso cominciamo!

Meglio soli che male accompagnati

Un aspetto molto importante di Monster Hunter Stories 2 è sicuramente il comparto online, e più nello specifico la componente cooperativa. Capcom ha difatti presentato la possibilità di cacciare in compagnia come uno dei focus principali del titolo, e ci è riuscita… Fino ad un certo punto.

Chiariamoci, gli elementi co-op di Stories 2 funzionano, abbiamo la possibilità di perlustrare tane o affrontare mostri assieme ad i nostri amici, o semplicemente affidandoci al matchmaking. Dove sta il problema allora? Banalmente non vi è un vero e proprio incentivo nel giocare assieme ad altri utenti, ed anzi, spessissimo risulterà più veloce ed efficiente “farmare” per i fatti propri. Questo è dovuto alla macchinosità generale del sistema co-op; selezione di una stanza in cui entrare, attesa che tutti i partecipanti siano pronti, attesa che il compagno selezioni l’azione da eseguire in combattimento, ed una lentezza generale dei comandi.

Il multiplayer co-op risulta spesso macchinoso e lento, peccato.

Capirete da soli quindi che creare una stanza privata e partire con al seguito un – poco incisivo, è vero – Bot a darci man forte risulterà spessissimo l’opzione più veloce, efficiente e francamente meno snervante. Sarebbe stata gradita la presenza di ricompense aggiuntive per chi superasse assieme ai suoi compagni le impegnative tane co-op, mentre a conti fatti se avete voglia di buildare un Monstie l’opzione decisamente più veloce è girare da soli, in mappe pensate per la cooperazione. Un controsenso, non credete?

Ah, c’è anche il PvP?

Ecco, la modalità PvP è davvero qualcosa in cui Stories 2 poteva brillare, ed è ridotta ad una piccola comparsa; d’altronde Capcom stessa ha praticamente ignorato il PvP durante tutta la fase di marketing, limitandosi a citarla per 30 secondi una tantum nel corso di mesi e mesi. Non stupisce quindi che molti giocatori neanche sapessero dell’esistenza del PvP in Stories 2, e non fatico ad immaginare che tanti altri abbiano portato a termine il titolo senza accorgersi della sua presenza.

Il PvP in realtà funziona, ed anche discretamente bene. Proprio lì, nella sfida contro altri giocatori, Stories 2 mostra del discreto potenziale. Considerandolo un titolo prettamente PvE, è sorprendente vedere come un aspetto tanto trascurato del titolo riesca a dare un senso a tante build e strategie ed a valorizzare Monstie ed abilità altrimenti dimenticati.

Il PvP di Monste Hunter Stories 2 poteva brillare di luce propria, ed invece è ridotto a mera comparsa.

Anche qui purtroppo il problema non risiede nel PvP in sè, ma in ciò che gli sta attorno. Manca del tutto un sistema di ranking, e le ricompense sono poche e poco soddisfacenti. Di nuovo, manca totalmente un incentivo nel giocare tale modalità, visto anche l’impegno ed il tempo necessari a buildare una squadra efficace in PvP; questi due fattori ovviamente rendono la modalità competitiva quasi un contentino per i fan del primo titolo, piuttosto che una componente del gioco ben ragionata.

Un gran peccato, poichè davvero tante abilità risultano abbastanza inutili in singleplayer. Basti pensare alle varie AoE, più costose delle skill single target, ma di fatto poco desiderabili dato che il 99% del contenuto PvE è relegato a battaglie contro un solo mostro grande. O ancora, status alterati come il Blocco Abilità, o i debuff alla mira, velocità ed ancora altro. Insomma, risulta quasi inspiegabile che un comparto PvP che funziona ed è vario sia stato trascurato in tale maniera.

Compagni di trekking

Altro aspetto che avrei preferito fosse approfondito è sicuramente quello degli Aiutanti, compagni mossi dall’IA che ci accompagneranno per l’interezza del titolo, sia durante la trama che nel post game. Chiariamoci, gli aiutanti non sono “fatti male”, ma mancano di quella profondità che li avrebbe elevati ad una feature molto ben realizzata, piuttosto che risultare un’aggiunta dimenticabile.

Esempio di compagno che non sceglierete mai per le vostre avventure.

La scelta di impedire che il giocatore controlli le loro azioni è sicuramente comprensibile, ed anzi li fa percepire davvero come dei guerrieri che lottano al fianco del Rider. Decisamente meno comprensibile è invece l’impossibilità totale di personalizzazione degli stessi; non potendo cambiare né il loro equipaggiamento né il monstie quel che ne consegue è che alcuni siano decisamente più forti di altri. Il fatto che i compagni Rider siano poi tutti troppo simili tra loro non aiuta, e sono sicuro che un albero di skill/personalizzazione equip avrebbe enormemente giovato alla scelta del compagno.

Quando il troppo stroppia

Abbiamo analizzato vari aspetti del gioco, che potevano sì essere migliorati, ma rimangono comunque aspetti piuttosto secondari. Ora veniamo al vero grande difetto di Monster Hunter Stories 2, che anche il sottoscritto aveva “scambiato” per un pregio in sede di recensione. Sto parlando della personalizzazione dei Monstie; o per meglio dire, dell’eccessiva personalizzazione.

Uno dei pochi Monstie con una vera personalità.

L’idea di poter far apprendere qualsiasi gene al proprio monstie potrebbe sembrare davvero allettante, ed in effetti lo è, quantomeno durante una prima giocata. Il problema sorge nel momento in cui Capcom decide di gestire le statistiche di tutti i monstie in maniera abbastanza ingenua. Il risultato è che nelle fasi avanzate di gioco tantissimi monstie risultano praticamente identici da un mero punto di vista statistico. Basti pensare che la differenza tra un Ignis Glavenus ed un Rex Rathalos – entrambi monstie endgame di tipo fuoco – risiede in 20 miseri Punti Ferita – a fronte di un pool di centinaia – ed un 1% di percentuale colpo critico. Per il resto sono letteralmente identici.

Un Ignis Glavenus! O forse un Rex reskinnato?

Uniamo quindi le statistiche fin troppo simili di tanti monstie al fatto di poter far loro apprendere qualsiasi abilità. Il risultato è che i sopracitati Ignis e Rex hanno le stesse statistiche e sfrutteranno le stesse build, eliminando di fatto qualsivoglia unicità. Questo è solo un piccolo esempio, ma vi assicuro che ne potrei citare tanti, troppi altri.

In definitiva, a volte il troppo stroppia; una qualche limitazione alla personalizzazione avrebbe reso ogni cattura unica, dotata di personalità, mentre al momento la scelta di tantissimi monstie è totalmente irrilevante. Questo porta anche ad un appiattimento delle build, che risultano praticamente tutte uguali per i monstie di tipo fuoco, elettro etc.

I buoni propositi

In conclusione, in quanto fan della serie, cosa spero di trovare in un Monster Hunter Stories 3? Sicuramente un comparto online maggiormente rifinito, meno macchinoso e “lento”, con un qualche incentivo per chi partecipa alle cacce co-op. Un comparto PvP non rilegato ad aspetto meno che secondario; il PvP di Stories 2 funziona, e spero che Capcom punti forte su questo aspetto in un eventuale sequel.

Speriamo di rivederla in un eventuale sequel. E speriamo che lì risulti una compagna utile.

Un’esplorazione delle mappe più curata, soprattutto per quanto concerne le Tane Mostro, che già dopo le prime ore risultano troppo ripetitive e poco ispirate. Maggiore libertà di manovra per quanto concerne gli Aiutanti, ottima aggiunta di Stories 2, ma molto acerba al momento.

Ma quello che serve soprattutto alla saga è una totale rivisitazione del sistema parametrico e dell’eccessiva personalizzazione lasciata all’utente. Qualche limitazione – sapientemente piazzata, ovvio – alla personalizzazione dei monstie donerebbe loro una vera e propria personalità. Ed una distribuzione dei geni più coerente rispetto a quel che vediamo in Stories 2 male non farebbe.

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Pokémon, curiosità e aneddoti da 25 anni di storia

Chiudete gli occhi. È il 2006 e vi hanno appena regalato l’ultima uscita Nintendo: Pokémon Diamante o Perla. Immaginate di iniziare per la prima volta un’avventura Pokémon e assaporatene i dettagli e le dinamiche. Che bella sensazione!

Nessun gioco nuovo potrà mai ridarci quella sensazione, ma Game Freak, come una mamma premurosa, si assicura sempre che i suoi fedeli possano godere i vecchi giochi sulle nuove console, rinnovandoli al meglio. Lo ha già fatto con Oro e Argento e per la coppia Rosso e Verde riscuotendo non poco successo, adesso è il turno di Diamante e Perla.  

Quindi, nell’attesa di Diamante Splendente e Perla Lucente, perché non scoprire insieme da dove questi mostriciattoli hanno iniziato e cosa gli riserva il futuro? 

Pokémon: Pocket Monsters 

Il nome degli esseri pixelati più famosi del panorama videoludico è nato dall’unione delle parole Pocket (tasca) e Monster (mostro). L’idea iniziale era quella di chiamarli Capsule Monsters ma per un problema di copyright non fu possibile utilizzare quel nome così venne cambiato in Pocket Monster che poi, abbreviato, divenne Pokémon. In realtà questo fu il nome con cui il franchising fu commercializzato in occidente mentre in Giappone rimase Pocket Monster.

Vi siete mai chiesti perché la E di Pokémon è accentata? La risposta è semplice, data la tendenza occidentale a storpiare le parole straniere, si temeva che l’inizio del nome del gioco fosse confuso con il verbo poke che si pronuncia pok, quindi fu aggiunto l’accento a scarso di equivoci. 

Origine del gioco 

Prima di arrivare però al battesimo dei mostriciattoli Nintendo scopriamo qualcosa di più sul loro creatore. Satoshi Tajiri da bambino amava girare in cerca di insetti nelle campagne intorno a casa sua. Da questa passione molto probabilmente nacque l’idea alla base di tutti i giochi Pokémon. Ogni protagonista di tali avventure infatti parte alla scoperta del mondo con l’idea di catturare tutti i Pokémon esistenti e completare il Pokédex proprio come Tajiri partiva alla ricerca di insetti.

Dobbiamo però ringraziare l’espansione tecnologica e i cartoni animati se uno dei franchising più conosciuti di sempre è venuto alla luce. Inizialmente, Tajiri si immerge negli anime e nei film dell’epoca, che gli propongono combattimenti tra mostri e tante altre idee, ma la sua vera passione arriva poco più tardi, tra le console arcade di una sala giochi.

Satoshi Tajiri
Satoshi Tajiri

Satoshi Tajiri fa conoscenza dei videogiochi proprio quando iniziano a diffondersi; nei primi anni del liceo arriva perfino a saltare le lezioni per usare il suo tempo in sala giochi. Un tempo che molti direbbero sprecato, ma che nel caso di Tajiri ha portato ad uno dei videogame più conosciuti di sempre. 

La passione del giovane Satoshi è talmente forte da fargli aprire una rivista tutta sua in cui scrive recensioni, guide e trucchi sui suoi giochi preferiti. La chiama Game Freak, un nome che non suona di certo nuovo agli appassionati di Pokémon. Nel 1989 infatti, insieme ad alcuni altri appassionati, trasforma la sua rivista in una vera e propria casa di sviluppo di videogiochi.

Game Freak

L’idea dietro ai Pokémon 

Nel cuore Satoshi covava però un progetto più ambizioso che potesse unire la sua passione per i videogiochi, quella per gli insetti e i combattimenti tra mostri che aveva visto nei cartoni e film dell’epoca.  

Le basi dei giochi Pokémon infatti fondono in un’unica avventura molte caratteristiche che non si erano mai viste prima, tutte insieme, in un unico videogame.

Quali sono le cose che più piacciono ai ragazzini? Collezionare, combattere, giocare con gli amici e conquistare la gloria da allenatore. Questi concetti chiave sono alla base dei giochi della Game Freak e probabilmente anche le parole chiave per spiegarne il successo; infatti, l’idea era di riunire tutte queste cose in un unico videogame che fu presentato direttamente a Nintendo con il nome di Capsule Monster

Inizialmente la casa nipponica non fu entusiasta del progetto, ma successivamente affiancò a Satoshi e il suo team il famoso game designer Shigeru Miyamoto (che tutti noi conosciamo come mente dietro tanti capolavori come The Legend of Zelda e Super Mario). La collaborazione tra i due fu talmente proficua che nella versione originale dei primi giochi al protagonista e al suo rivale venne dato proprio il nome dei due sviluppatori. 

Shigeru Miyamoto
Shigeru Miyamoto

Il mondo di gioco: regione di Kanto 

Anche se il mondo dei Pokémon può sembrare frutto della fantasia di Satoshi, le mappe e i luoghi di interesse non sono del tutto inventati. Infatti la regione di Kanto è ispirata alla prefettura di Tokyo. Alcuni luoghi o città hanno un corrispettivo reale a cui sono ispirati. Una tra tutti è la cittadina di Biancavilla, il villaggio da cui si inizia il viaggio nel mondo Pokémon, che corrisponde proprio alla città di nascita di Satoshi Tajiri. 

Ispirandosi a luoghi e regioni reali, la Game Freak ha potuto così sfruttare la varietà e la credibilità di un mondo già esistente rendendo quello virtuale molto veritiero. La differenza sostanziale tra i due mondi sta nello sviluppo; infatti, Tajiri ha voluto rappresentare nei suoi giochi il mondo che lui ricordava da bambino, quando ancora il boom tecnologico non aveva raggiunto il suo paesino di provincia.

Regione di Kanto
Regione di Kanto Pokemon Rosso e Verde

Le due versioni dei giochi 

Fin dai primi titoli ci sono sempre state due versioni dello stesso gioco, abbiamo avuto Rosso e Verde, Bianco e Nero, Diamante e Perla. Perché? 

Certo è facile credere che sia stato fatto solamente per marketing, ma sembra che la scelta fu ispirata da una concezione diversa di “videogioco”. Al contrario di alcuni titoli e degli ultimi sviluppi su console, Pokémon non fu progettato per intrattenere un solo giocatore, ma per far divertire assieme più persone. L’ìdea di Game Freak era favorire, o quasi costringere, lo scambio di Pokémon con i propri amici per completare la propria collezione. 

Il bug Mew e la popolarità di Pokémon 

Al contrario di quello che si potrebbe pensare i giochi Rosso e Verde non ebbero un improvviso successo in Giappone, anzi la loro popolarità crebbe lentamente grazie al passa parola e a qualche fatto di cronaca.

Uno sviluppatore si accorse che sulla schedina contenete il gioco rimaneva ancora qualche megabyte libero, così decise di sua iniziativa di inserire un altro Pokémon chiamato Mew; questo mostriciattolo dell’ultimo minuto non doveva nemmeno comparire nei giochi, era solo uno scherzetto da sviluppatore. Però, presto si diffusero voci secondo cui oltre ai 150 Pokémon collezionabili ce ne fosse anche un 151esimo e, anche se non era previsto, a causa di un bug alcuni giocatori finirono per imbattersi in Mew: così iniziò il passaparola.  

Mew
Mew, il 151esimo Pokémon

La Pokémon mania 

Quando i giochi sbarcarono in occidente scoppiò la Pokémon mania, il franchising diventò talmente famoso da divenire un fenomeno globale. Fu prodotto un’anime, creati gadget e pubblicati manga che fecero conoscere anche ai non videogiocatori il mondo dei Pokémon. L’anime in particolar modo introdusse nuovi personaggi e il Pokémon che da quel momento in poi divenne la mascotte del marchio, Pikachu. Il mostriciattolo giallo divenne talmente popolare che fu creato un nuovo gioco, Pokémon Giallo, in cui venne inserito per la prima volta insieme ai personaggi dell’anime. 

La Pokémon mania però non fu come molte altre mode passeggere nella storia dei videogame, anzi si è insinuata nel tessuto sociale e pian piano si è fuso con la nostra cultura. Sono già passati 25 anni dalla nascita dei Pokémon e nonostante il gioco e tutto ciò che ne derivi sia ormai più che maggiorenne, il successo dei mostriciattoli della Game Freak non accenna a diminuire. 

L’ultimo gioco: Oro e Argento

Pokémon Oro e Argento avrebbero dovuto concludere la serie di giochi principale; infatti, vennero incluse nei giochi tutte le idee scartate per i due giochi precedenti. In particolare, furono inseriti 100 nuovi Pokémon, creata una nuova regione, venne aggiunto il ciclo notte-giorno e per la prima volta comparvero i Pokémon Shiny, creaturine che possedevano un colore differente da quello della loro specie originale. 

Quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo regalo della Game Freak ai suoi appassionati, si rivelò un enorme successo che suggerì a Nintendo che i Pokemon avevano ancora molto altro da dare.

Pokémon Oro e Argento

Perché vale la pena giocare Diamante Splendente e Perla Lucente? 

Su Nintendo Switch sta per arrivare un Pokémon tutto nuovo: Leggende Pokémon Arceus. Il gioco, oltre ad essere il primo pubblicato in singolo, promette di inserire meccaniche innovative, nuovi mostriciattoli e una nuova forma. Mi sono ritrovata a chiedermi per quale motivo quindi dovrei giocare al remake di Diamante e Perla.

Perla è stato il mio primo gioco Pokémon e rigiocarlo mi avrebbe comunque fatto piacere, ma questo non mi bastava. A convincermi è stato il gioco in arrivo con l’anno nuovo. Sia Leggende Pokèmon Arceus, che i due remake in uscita sono ambientati nella regione di Sinnoh, ma a decenni di distanza. Giocare gli uni e poi l’altro mi permetterebbe di apprezzare meglio tutte le sfaccettature e i collegamenti tra i due. 

Quindi se sei un appassionato Pokémon non credo ti serva altro, vai ad allenare i tuoi Pokémon e se non lo sei, che aspetti? Corri ad iniziare la tua prima avventura, non te ne pentirai.

Leggende Pokémon Arceus
Leggende Pokémon Arceus
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I 7 boss più difficili di sempre… secondo me

C’è qualcosa che sicuramente accomuna tutti noi videogiocatori, ovvero quello strano senso di eccitazione che ci pervade ogni qualvolta incontriamo il fatidico boss di turno. Che si stia parlando di un action, un jrpg o di un bullet hell poco importa, spesso sono proprio i boss a portare la sfida ai massimi livelli. E superare tale sfida è sempre soddisfacente, qualsiasi sia la difficoltà effettiva del boss da noi affrontato.

Pensate che questa sia la massima espressione della frustrazione? Vi sbagliate, e ve lo dimostrerò.

A volte però queste sfide si rivelano tanto, troppo ardue, e la frustrazione sale a livelli inimmaginabili; è come se gli sviluppatori di tale titolo avessero sbirciato nei nostri incubi peggiori, e da lì ne fosse uscito fuori quel muro invalicabile che affrontiamo ormai da ore. Ovvero il maledetto boss. Ecco, oggi voglio stilare la mia personalissima classifica delle bossfight più toste, sleali o frustranti in cui mi sono imbattuto lungo la mia carriera da gamer.

Ballos – Cave Story

Per chi non lo conoscesse, Cave Story è un adventure/platform creato da una sola persona, Daisuke Amaya, nell’arco di 5 anni. La primissima release è inoltre freeware, e la potete tranquillamente scaricare da Questo Sito dedicato al titolo. Ne esiste anche una versione “plus” rilasciata sia su Steam che sull’Eshop. Correte tutti ad effettuare il download, poichè Cave Story è un capolavoro senza tempo, e se avete intenzione di giocarlo saltate direttamente al prossimo paragrafo, al fine di evitare spoiler.

Grande, grosso e cattivo, cosa si può chiedere di più? Ovvio, uno stage lungo e snervante da ripetere!

Quel pallone gonfiato che vedete è Ballos, ovvero il “true final boss” di Cave Story, affrontabile qualora vengano effettuate determinate azioni lungo tutto l’arco del gioco. Bene, per avere l’onore di affrontare Ballos saremo costretti a superare una lunga area piena di nemici, con le armi riportate al livello 1, condita da sezioni di platforming in cui un movimento sbagliato equivale alla morte.

Dopo tante morti lungo la via – che giungeranno, ve lo assicuro – ci ritroveremo dinnanzi al boss. Ballos si compone di non una, non due, non tre… ma ben QUATTRO lunghe fasi, una più difficile dell’altra, il tutto condito da una montagna di HP. La parte migliore? All’immancabile gameover bisognerà ripercorrere l’intera sezione, dal principio. In una sola parola? SNERVANTE.

Matador – Shin Megami Tensei III Nocturne

La saga di Shin Megami Tensei è nota al pubblico per un grado di sfida mediamente alto, ed è quindi naturale aspettarsi delle bossfight impegnative. Ma quando la bossfight più impegnativa del gioco è anche la “prima” bossfight seria evidentemente qualcosa è andato storto.

Un dialogo non skippabile contro un boss particolarmente ostico, perfetto!

Il simpatico torero scheletrico che vedete qui sopra è Matador, e probabilmente ne avrete già sentito parlare. È forse il boss più difficile del gioco? Assolutamente no. Matador è letteralmente lo spartiacque tra chi abbandonerà il gioco e chi riuscirà a superare quel che sembra uno scontro impossibile, quantomeno durante i primi tentativi. Uno spartiacque fatto male, ci tengo a precisare.

Per cominciare Matador aumenterà sempre la propria evasione al massimo, schivando ogni vostro colpo e rendendosi di fatto invulnerabile. Poi inizierà a lanciare continuamente Magie AoE sul vostro party, provocando danni devastanti, e ad un certo punto caricherà la sua personalissima tecnica, Andalusia, che 99 volte su 100 è un biglietto diretto per la schermata di gameover.

Ora, non avete un modo per debuffare la sua schivata? Siete fregati. Non avete alcun demone in grado di assorbire le sue magie? Siete fregati. Non avete una cura AoE da spammare ad ogni turno? Siete fregati. Non avete modo di evitare o annullare Andalusia? Siete fregati. Il problema di Matador è che richiede una pianificazione capillare del vostro party, ma è di fatto il primo vero boss del gioco, ed il gioco non fa letteralmente nulla per prepararvi allo scontro.

Imparerete a disprezzare questa schermata.

A tutto questo aggiungete il fatto che ad ogni tentativo fallito vi toccherà ripartire dal save point, abbastanza lontano dall’arena, e che nel mezzo non mancheranno i tanti incontri casuali. E dovrete pure sorbirvi la cut scene – rigorosamente non skippabile – ogni singola, dannata volta. A voi le conclusioni.

The Edge/The Star – Furi

Lo ammetto, non sapevo chi scegliere, poiché questi due boss incarnano perfettamente le due anime di Furi. Il primo è The Edge, un samurai che ci sfiderà a duello. La seconda è The Star, una IA pronta a tutto pur di fermarci, ma andiamo con ordine.

The Edge, pronto a picchiarci con un remo, che fa più male della sua katana. La logica dei Videogame.

The Edge è sicuramente la bossfight che più mi ha fatto penare in quel capolavoro che è Furi. Un duello all’ultimo fendente che si compone di 4 fasi. Le prime due sono impegnative, ma con dei buoni riflessi si superano agevolmente. Alla terza iniziano i dolori però. Le combo del nemico si fanno più lunghe, i danni ricevuti più alti, ma soprattutto The Edge ha tempismi sempre diversi; a volte i colpi arrivano subito, a volte li carica per mezzo secondo, e capirete pure voi che in una combo da 6-7 colpi questo è un bel problema. Poi arriva l’ultima fase, che è come la terza, ma dieci volte peggio.

Una delle fasi più “tranquille” di The Star.

The Star invece è uno scontro interamente improntato sulla componente bullet hell del titolo. Qui le fasi sono 5, ed il boss inonda continuamente lo schermo di proiettili, laser, onde di energia, globi a ricerca e tanto altro. Il tutto si conclude con la quinta fase che è letteralmente “sopravvivi fin quando il boss non smette di lanciarti l’inferno addosso”, e di roba ne lancia tantissima, fidatevi. Ovviamente alla morte toccherà ripartire dalla prima fase, manco ve lo sto a dire.

Due esperienze ugualmente frustranti, ognuna a modo suo!

Dragone di Adra – Pillars of Eternity

Pillars of Eternity giocato a difficoltà “Via dei Dannati” è un’esperienza bella tosta, lo ammetto, ma non avevo riscontrato particolari difficoltà fin quando non è arrivata lei. Parlo del Dragone di Adra, di gran lunga il nemico più temibile che il party di eroi dovrà affrontare, quantomeno nel gioco base.

Tra gli innumerevoli pregi di PoE ve ne è uno davvero particolare. In Skyrim o tantissimi altri rpg i draghi sono a tutti gli effetti dei “mostri, ma più forti”. In PoE no, i draghi sono Draghi, esseri millenari in grado di spazzare via plotoni interi col battito di un’ala. Ed il Dragone di Adra è proprio questo, un essere immensamente più forte del nostro party. Danni spaventosi, resistenze altissime, attachi AoE frontali, laterali, persino posteriori. Ed ovviamente la nostra amica non è sola, ma accompagnata da una folta schiera di mostri minori, ugualmente letali.

Il malaugurato gruppo si prepara ad una veloce dipartita. O a farle il solletico, scegliete voi.

Il Dragone di Adra ha tutto quel che serve per rendere un boss sbilanciato. Colpirla è difficile, infliggerle danno lo è anche di più. Quelle rare volte in cui un nostro colpo va a segno la sua armatura entra in gioco, e diciamo che scalfirla a suon di 1-4 danni a fronte dei suoi 400hp non è proprio il massimo. A complicare il tutto ci sono le sue AoE, in grado di oneshottare o quasi l’intero party, ed i suoi seguaci, che spesso risultano persino più problematici del dragone stesso.

In realtà il gioco offre anche la possibilità di stringere un’alleanza con questo essere maligno, ma quale videogiocatore segue la filosofia “se non puoi batterli, unisciti a loro”? Ore ed ore di tentativi, e tanta tanta frustrazione.

Galbalan – Ys: The Oath in Felghana

Al rilascio del recentissimo Metroid Dread è seguita una controversia circa la difficoltà del boss finale proposto, ritenuta davvero troppo alta. Bene, sicuramente chi si lamentava di quel boss non ha mai toccato un titolo della saga Ys; avrei potuto tranquillamente riempire questa lista con boss presenti dai vari Ys, ma oggi ne ho scelto uno in particolare.

Galbalan è il final boss di Oath in Felghana, e per tanti risulterebbe sicuramente una delle fight più difficili mai affrontate. Ovviamente qui si parla della fight a difficoltà Nightmare o superiore, poichè il boss sfoggia il suo intero repertorio solo in queste modalità. Bene, fatta questa premessa, perché considerlarlo una sfida tanto ardua?

Un final boss epico per un titolo epico. Probabilmente il boss più “giusto” di questa lista.

In una sola parola… Tutto. Danni elevatissimi, attacchi decisamente veloci, una marea di HP, poche finestre di vulnerabilità ed una fight che sembra infinita. In particolare la seconda fase farà venire il mal di testa a tantissimi giocatori, con laser in movimento sul pavimento, esplosioni e le sue braccia che tentato di picchiare Adol. E poi c’è lei, la combo infame per eccellenza, lanciafiamme+globi energetici; nonostante abbia concluso il titolo più volte ed affrontato Galbalan in decine e decine di occasioni un dubbio permane. Come cavolo si evita quell’attacco? La risposta a questo quesito mi è ancora ignota.

Il tutto si conclude con la terza fase, una sorta di partita a ping pong col boss dove al primo errore 9 volte su 10 sopraggiunge il gameover. Se mai riuscirete a battere Galbalan vi accorgerete che il boss finale di Dread è una passeggiata di salute al confronto.

Dark Fact – Ys I & II Chronicles+

Ed ora chiudiamo la lista col botto. La leggenda narra che a partire dal 2013, i maggiori produttori di dizionari di tutto il mondo abbiano modificato la dicitura del termine “Frustrazione”, che grazie ad Ys I Chronicles+ assume un significato tutto nuovo. La definizione è infatti stata sostituita dal ben più eloquente ritratto di un individuo, tale Dark Fact.

Dark Fact, il boss che simboleggia l’opposto di “divertimento”.

Slealtà, sbilanciamento, RNG, frustrazione; Dark Fact è un concentrato di tutto ciò. Partiamo dal presupposto che stiamo parlando della versione Steam del titolo, in cui la fight è decisamente più tosta. Cosa rende Dark Fact così frustrante quindi? Per iniziare il boss può essere danneggiato solamente equipaggiando la spada d’argento(non l’arma più forte, che naturalmente utilizzereste in qualsiasi altro gioco), e questo lo suggerisce un NPC secondario, diverse ore prima, in un dialogo che sembra tutto fuorché importante e che probabilmente neanche ricorderete sul finale del titolo. Ma andiamo alla fight vera e propria.

È velocissimo, ed anche se segue un pattern di movimento fisso – da qui il nomignolo “dvd player screen saver”, gli anziani capiranno – è comunque difficile stargli dietro. Le palle di fuoco che scaglia a ripetizione sono letteralmente impossibili da evitare, tant’è che la miglior strategia è ignorare completamente i suoi attacchi. Ha tanti hp, ma soprattutto ogni volta che viene colpito “distrugge” una porzione dell’arena, creando dei buchi che metà delle volte intrappoleranno il giocatore condannandolo al gameover.

Il combattimento è pesantemente influenzato dal caso, ed anche seguendo una strategia ben precisa spesso e volentieri si finirà per morire, perché Dark Fact ha deciso che per quel tentativo deve finire male, punto. Posso dire con certezza che, dopo aver perso due giorni e centinaia di tentativi su uno scontro che dura al massimo 40 secondi, questa sia la bossfight che più si avvicina ad una tortura cinese. La parte migliore poi? Che stiate giocando a difficoltà facile o nightmare poco cambia, il combattimento è praticamente identico.

Nota bonus, qui sopra potete trovate la magnifica OST della fight in questione. Peccato che questa traccia sia apprezzabile solamente su Youtube, poiché è letteralmente impossibile sopravvivere più di 30-40 secondi durante la fight vera e propria.

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La Top 5 dei videogiochi con il peggior doppiaggio

Nei videogiochi moderni, trattati sempre più come dei film (soprattutto i titoli narrativi), il doppiaggio diventa una parte fondamentale dell’opera e, in quanto tale, può aumentarne il valore o affossarlo. Generalmente, nel settore i professionisti non vedono alcuna scena e quindi si trovano a dover impersonare un personaggio senza avere il riferimento video della scena: si doppia basandosi sull’onda sonora dell’interprete originale. Questo ha quindi portato spesso a dei prodotti che potessero risultare un po’ deficitari dal punto di vista del doppiaggio. Nel corso del tempo le cose sono un po’ migliorate, tant’è che si fa ricorso non più solo a doppiatori che interpretano un personaggio, ma proprio ad attori che, oltre alla voce, con il motion capture possono effettivamente recitare le scene che poi verranno digitalizzate e trasposte all’interno del videogioco. Un anno fa sulle nostre pagine abbiamo già parlato della localizzazione, mentre questa volta ci focalizzeremo proprio sul doppiaggio, riportando alla luce alcune opere che potevano senza alcun dubbio avere una lavorazione più attenta. Nella nostra top 5 di videogiochi con i doppiaggi horror, confezionata proprio in occasione di Halloween, andremo ad ascoltare alcune opere che si sono distinte in negativo in questo ambito. E chissà che non fosse stato meglio parlare di occasioni mancate da inserire nella lista dei videogiochi che meritavano una traduzione ma che non l’hanno avuta.

Top 5 dei videogiochi con doppiaggio horror da giocare ad Halloween

Si tratta di prodotti nella maggior parte dei casi non recentissimi, quindi sviluppati in un periodo dove era più difficile arrivare sui singoli mercati. Dal lato dello sviluppo, ci si accontentava di un doppiaggio per nulla memorabile, praticamente con il solo obiettivo di tradurre i dialoghi in italiano a scapito di tutto il resto, non curandosi troppo dell’interpretazione e del risultato finale. Dopo queste premesse, andiamo a scoprire i doppiaggi più horror dei videogiochi!

Nocturne (1999)

In un videogioco, normalmente non ci si aspetterebbe una voce con un inconfondibile accento romagnolo, o almeno se non fosse contestualizzato in qualche modo. Tutto ciò non succede in Nocturne, dove in un momento molto cupo assistiamo a una scena che sembra essere stata doppiata senza avere idea del contesto in cui ci si trova. Oltre all’accento, però, stona proprio l’interpretazione, che risulta essere troppo pimpante. Nel video è inoltre possibile notare anche il mancato synch fra voci e sottotitoli.

Haven: Call of the King (2002)

Per quel che riguarda Haven: Call of the King, il mercato italiano forse non è stato ritenuto sufficientemente importante da meritarsi un doppiaggio ad hoc. Le voci sono chiaramente straniere, quindi presumibilmente sono stati “riciclati” gli attori originali. Non c’era strumenti come Google Translator o siti che potevano aiutare a capire la pronuncia delle parole, e quindi il risultato è un disastro: quella che doveva essere una scena in cui si spiegava qualcosa di importante non è chiara per nulla.

Call of Cthulhu: Prisoner of Ice (1995)

L’ambientazione lovecraftiana generalmente è facilmente affiancabile ai prodotti horror. Nel caso di Call of Cthulhu: Prisoner of Ice a spaventare non è quello che vediamo, ma quello che ascoltiamo. Una richiesta d’aiuto, che dovrebbe essere straziante, in realtà risulta così poco convinta che assume un aspetto comico. Abbiamo da una parte un personaggio ferito, presumibilmente disperato e spaventato, e al contempo gli viene affiancata una voce e un’intonazione da parodia. L’unica soddisfazione è che anche il doppiaggio originale non è che brilli particolarmente…

Alpha Prime (2007)

In Alpha Prime viene mostrato Bellini, lo stereotipo italiano all’estero: un inglese incerto in cui si pronuncia ogni singola lettera, parole italiane inserite fra una frase e l’altra, senza dimenticarsi dei gesti esasperati quando si parla. Probabilmente al pubblico internazionale può andare anche bene così, poiché magari veniamo visti così noi italiani e quindi la differenza non viene nemmeno percepita più di tanto. Per noi, che invece riusciamo a capire il miscuglio di parole inglesi e italiane, la scena risulta particolarmente comica. La tristezza più grande? Il doppiatore, che è italiano.

King’s Field IV (2001)

La cima della classifica dei videogiochi con i doppiaggi horror per Halloween è occupata da King’s Field IV. Valgono più o meno le considerazioni fatte per Haven: Call of the King, quindi doppiatori inglesi, pronuncia non perfetta. Ma ci sono delle aggravanti: il testo è molto velocizzato, manca un’intepretazione e, soprattutto, viene detta una parola che in italiano nemmeno esiste. Oltre agli accenti sbagliati, la parola “traccia” diventa “tracchia”. Oltre a questo, mettendo a confronto la versione inglese con quella italiana, si nota come il testo tradotto sia veramente troppo lungo, tant’è che in scene dove in originale c’è silenzio, il doppiaggio è ancora presente.

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Editoriali

I valori dei Videogiochi: Subnautica

Quante volte i gamer si sono sentiti discriminati perché la loro passione non è considerata intellettualmente elevata dalla maggioranza delle persone? Quante volte è stato detto: perché non leggi invece di buttare la tua vita davanti ad una console? Ebbene siamo qui oggi per iniziare a sfatare questo mito. I videogiochi non sono e non sono mai stati solo una fonte di divertimento. In essi si possono trovare contenuti profondi ma anche informazioni e insegnamenti, sia di natura scolastica che personale. Vi porto l’esempio di Subnautica, che solletica temi come il rispetto dell’ambiente e delle altre creature o argomenti come il pregiudizio e la valutazione in base all’aspetto. 

Subnautica e il rispetto 

Subnautica è un survival rispettoso della vita. So che potrebbe sembrare un controsenso, siamo abituati, in questi tipi di gioco, a sfruttare le risorse in modo sconsiderato. Accumulando materiali e uccidendo tutto ciò che capita a tiro. Questo comportamento da parte di noi giocatori lo possiamo rivedere anche nella società odierna, che ci insegna che per stare bene serve avere tanto. Questo consumismo spesso ci influenza anche in cose minori, ad esempio nei giochi. In Subnautica invece questa mentalità ha vita breve. Non abbiamo armi perciò i predatori devono essere evitati e il cibo non si conserva facilmente perciò si è costretti a cacciare solo il necessario. 

Il contesto Survival 

Il concetto di sopravvivenza ai nostri tempi è qualcosa di molto distante dalle società progredite, pensiamo sempre più al superfluo perché non dobbiamo lottare per l’indispensabile. Questa condizione ci influenza e tende a renderci accumulatori nelle situazioni estreme. 

In Subnautica il giocatore è portato a rispettare il luogo in cui naufraga. Raccogliendo i materiali necessari a costruire le cose e a cacciare lo stretto necessario a sopravvivere. Conservare il cibo per lungo periodo è infatti un lavoro laborioso che può essere facilmente sostituito dalla caccia costante e dalla coltivazione di piante aliene. 

Le creature pericolose sono solitamente fonte di sfida per i giocatori di survival, dimostrano che abbiamo imparato a sopravvivere e ci siamo procurati i materiali giusti per battere anche i predatori più pericolosi. Nel gioco della Unknown Worlds Entertainment si ha una mentalità completamente opposta, gli animali più pericolosi infatti sono solo da evitare. Non si tratta infatti di una scelta del giocatore ma è lo stesso gioco che ci dice che il metodo migliore per superarli è girargli alla larga, si può leggere nelle descrizioni delle specie stesse: da evitare assolutamente. 

L’intreccio ben riuscito 

Il giocatore inizia come naufrago di una spedizione interstellare. È subito chiaro che gli obbiettivi principali sono quelli di sopravvivere e lasciare il pianeta alieno. Ovviamente si dovranno anche scoprire le ragioni dello schianto dell’astronave che ci trasportava: l’Aurora. Per raggiungere questi punti è d’obbligo esplorare tutta l’area di gioco, infatti i materiali necessari a fuggire dal pianeta sono distribuiti in tutta la mappa. 

La distribuzione dei materiali segue anche una logica particolare: più l’attrezzatura è complessa, più in profondità si troverà il materiale per costruirla. In questo modo si innesca un meccanismo per cui chi si impegna raggiunge obbiettivi sempre più alti suggerendo al giocatore una specie di meritocrazia. La dinamica del gioco però non diventa mai frustrante, ogni materiale è facilmente raggiungibile se si è al punto giusto della storia. 

Storia, gameplay, esplorazione e sopravvivenza si fondono in un’esperienza omogenea che permette di apprezzare tutte le sfumature del gioco. Nonostante la storia sia parte integrante dell’esplorazione non la limita in nessun modo anzi l’arricchisce. Sopravvivere non è il solo scopo del gioco, lo è anche seguire una successione di eventi e ammirare la meraviglia del paesaggio subacqueo. 

Il mistero degli alieni 

Durante l’esplorazione si possono notare delle strane strutture aliene costrui­te sul pianeta che potrebbero sembrare solo un vezzo artistico fino all’abbattimento della Sunbeam. Grazie a questo evento veniamo cosi a conoscenza anche della causa del nostro naufragio. L’Aurora, l’astronave in cui viaggiavamo, si è schiantata sul pianeta 4546B perché colpita dal laser di una delle base aliene. 

Le strutture verdi e nere, anche se in primis potrebbero sembrarlo, non sono un sofisticato sistema di difesa militare ma parti di un centro di ricerca. Sul pianeta infatti si è diffusa una malattia di cui possiamo osservare il lento avanzare anche su noi stessi. Il virus in questione si può trovare in vari esemplari di tutte le specie presenti sul pianeta. Inoltre scopriamo che gli alieni, chiamati Precursori, erano in cerca di una cura per il batterio Kharaa. Non avendola trovata hanno messo il pianeta in quarantena cosicché non si diffondesse nel resto dell’universo. 

Salvare sé stessi e il pianeta 

A questo punto gli obiettivi del giocatore aumentano e il tipico survival egoistico diventa un gioco mirato alla salvezza comune. 

Gli alieni si dimostrano così egoisticamente interessati alla cura e non si comprende bene se essi se ne siano andati dal pianeta o si siano estinti su esso per colpa del virus. Curarsi diventa strettamente necessario visto che il pulsante per disabilitare il cannone che ci impedisce di lasciare il pianeta può essere premuto solo da un individuo sano. 

Una precauzione presa probabilmente per evitare che qualcuno di loro fuggisse e diffondesse il batterio. Questo aggiunge un altro spunto di riflessione ovvero mettere il bene comune al di sopra del proprio. Il gioco non ci suggerisce quale risposta sia corretta ma ci insegna che il proprio interesse è strettamente connesso a quello comune. 

La salvezza del pianeta infatti diventa essenziale anche alla nostra stessa sopravvivenza e viceversa la nostra ricerca della cura diventa indispensabile alla sopravvivenza delle specie su 4546B. Subnautica sottolinea in questo modo lo stretto legame che vi è tra il mondo e le creature che vi abitano. Questo concetto è un valore aggiunto che ci viene donato, non esplicitamente ma facendoci riflettere su come lo stesso principio sia applicabile anche alla Terra. 

Un mostro umano 

Giunti all’ultima base aliena si scopre come mai i Precursori aveva fallito nell’estrarre la cura. Essi infatti avevano scoperto una specie resistente al morbo, l’animale più grande presente nella biosfera del pianeta: l’imperatore marino. O per meglio dire l’imperatrice marina. 

Nel punto più profondo della mappa infatti si trova il Centro di Contenimento Primario dove in un acquario di proporzioni enormi troviamo l’enorme creatura. Immergendoci nell’acquario la incontriamo e dopo qualche minuto di panico scopriamo che nonostante sia il più grande essere vivente sul pianeta è innocua. 

L’animale ha dimensioni notevoli e un’intelligenza. Ha inoltre la capacità di comunicare telepaticamente e così ci racconta che la razza aliena l’aveva rinchiusa nel tentativo di ottenere la cura con la forza. Ci chiede di dimostrarle di essere diversi dai nostri predecessori e aiutarla. 

Nell’enorme acquario in cui la troviamo con lei ci sono cinque uova in un’incubatrice che però è spenta. Gli alieni prima di noi non avevano creato le condizioni necessarie per la schiusa delle uova. L’accendiamo e grazie a questo gesto di altruismo ci viene alla fine svelato il modo di curarci. Questo a dimostrazione che la gentilezza non è sempre a discapito di chi la mostra. 

L’imperatrice marina è il simbolo che mette il giocatore in posizione di riflettere sul fatto che anche i mostri sanno essere umani, che essere brutti o grotteschi fuori non vuol dire per forza esserlo anche dentro. Una volta curati possiamo disattivare il cannone e ripartire. 

La profondità di Subnautica 

Durante tutta la durata del gioco ci si districa in un ambiente marino ben progettato e si ha a che fare con vari tipi di creature ostili e non si entra mai in possesso di una vera e propria arma o di un modo per danneggiare l’ecosistema di 4546B. Anzi, ad un certo punto, si può anche fermare l’inquinamento radioattivo derivante dal danneggiamento del reattore dell’Aurora. 

Il gioco sfiora molti argomenti importanti senza mai affrontarli direttamente, lasciando spazio al giocatore per riflettervi in completa autonomia.  

Il messaggio finale 

Seduti sulla plancia di comando del razzo che ci riporterà a casa quello che sentiremo non è sollievo ma nostalgia. Lasciando il pianeta marino su cui abbiamo passato tutto quel tempo, anche se in continua lotta con i pericoli e la fame, ci viene recapitato un ultimo messaggio della creatura che abbiamo aiutato che finalmente può morire tranquilla sapendo che i suoi cuccioli sono liberi. 

Solo delle persone senza cuore lascerebbero 4546B senza un po’ di rammarico. Abbiamo passato tempo e speso risorse, siamo cambiati nel lungo cammino fatto su quel pianeta e quindi lasciarlo è come lasciare un pezzetto di noi stessi. 

Subnautica: un viaggio videoludico 

Quindi ecco perché non me la sento di categorizzare Subnautica come un comune survival. Dietro alle meccaniche del videogame infatti si può ritrovare un pensiero rispettoso dell’ambiente e dell’equilibrio. Questo gioco come tanti altri non è solo un passatempo ma un vero luogo di apprendimento per tutti.  

Un videogioco proprio come un libro o un film, può essere un viaggio e una fonte di riflessione. Un giocatore può finire un gioco ed esserne cambiato nel profondo. 

Essere contrari ad un viaggio introspettivo solo perché scaturito da un videogioco potrebbe essere uno sbaglio: spero che queste parole vi diano lo spunto necessario per capire. Se volete un suggerimento per un altro gioco da vivere e per riflettere vi invito a giocare What Remains of Edith Finch e a leggere perché questo gioco ha cambiato la concezione di videogioco.

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Editoriali

Librogame e Videogame: intervista a Francesco Di Lazzaro

Il protagonista di questa storia sei tu!

Ecco, questo è l’incipit classico che si trova nella stragrande maggioranza dei librogame (LG) e già rivela molto su quello che c’è da aspettarsi da questi libri (cartacei e non).
Di fatto, cosa sono i librogame? Perché parlarne in un blog di videogiochi?
Per il sottoscritto, i LG sono stati e sono tutt’ora un modo di vivere avventure interattive, partecipare a vicende e storie appassionanti prendendo delle decisioni (e non solo leggendo passivamente) e divertirsi molto, fin dai tempi in cui la tecnologia non era pensata e non aveva la possibilità di implementare qualcosa del genere.

Modena PLAY 2021
Mascotte ufficiale di Modena Play

Complice il Play di Modena 2021 e l’incontro con vari big dell’editoria di genere, c’è venuta spontanea l’idea di fare delle considerazioni sui due mondi, quello dei LG e quello dei videogiochi. Per riuscirci al meglio, abbiamo coinvolto autori ed esperti nel settore chiedendo direttamente a loro quello che ci incuriosiva di più. Ringraziandoli fin da ora per la loro grande disponibilità ed entusiasmo, lascio la parola al primo intervistato, Francesco Di Lazzaro.

Per chi volesse recuperare tutte le altre interviste, può trovarle elencate nel box Librogame e Videogame in fondo all’articolo.

Ciao Francesco, puoi presentarti e dirci di cosa ti occupi?

Ciao Sebastiano e ciao a tutti gli amici del blog! Mi chiamo Francesco Di Lazzaro, ho 44 anni, sono laureato in Filosofia e da sempre sono un grande appassionato di librogame. Negli ultimi tempi la mia passione si è trasformata in una professione e collaboro con varie case editrici del settore ricoprendo più ruoli (autore in primis, ma anche curatore, editor, revisore, ed esperto “consigliere”). Ma quello che considero il mio più grande successo è stato fondare Librogame’s Land, il portale di riferimento in Italia per tutti gli appassionati di librogame.

Francesco Di Lazzaro, autore, fondatore di LGL e ospite di Modena Play

Librogame’s Land nasce nell’ormai lontano 2003 con un’idea di base molto semplice, quella di creare un punto di riferimento per gli appassionati di genere, dove conservare dati e informazioni sulle principali pubblicazioni esistenti all’epoca (erano principalmente i volumi EL, con qualche incursione degli Scegli la tua Avventura Mondadori e delle collane a bivi Giunti Marzocco) e che ci consentisse tramite scambi e una piccola sezione mercatino, di completare le nostre collezioni.

Il sito all’inizio era molto semplice, scritto a mano in html, con sezioni principalmente archivistiche e idee abbastanza “confuse” sulle future evoluzioni. Il vero salto di qualità arrivò dopo, grazie all’incontro mio con grandi appassionati del settore che consentirono di ampliare gli orizzonti di LGL, contribuendo alla nascita di tante iniziative che durano ancora oggi: il Magazine mensile che parla solo di librogame, la sezione LibriNostri con più di cento pubblicazioni inedite in Italia, il nostro concorso annuale dedicato ai migliori racconti di genere e parecchie altre belle cosette, che vi invito a scoprire.

Cos’è un librogame?

Di fatto, per chi non conosce i librogame, la risposta secca è semplice: un libro in cui il protagonista è il lettore e il testo consente di fare delle scelte che condizionano l’evoluzione della trama. Per esempio può chiederti se preferisci bere un bicchiere d’acqua o di vino e, a seconda della tua scelta, rimandarti a un paragrafo differente in cui la narrazione prosegue in modo alternativo. A questa descrizione basica si aggiungono tanti altri elementi, tra cui per esempio quello ludico: i volumi più complessi ed elaborati hanno un sistema regolamentare raffinato in cui subentrano sfide, punteggi, combattimenti, caratteristiche e inventari.

Testo diviso in paragrafi e rimandi differenti in base alle scelte fatte: le basi del librogame

Per chi ama i GDR, anche in forma videoludica, sarà facile ricondurre questi elementi a uno qualsiasi dei giochi che ha apprezzato e sviscerato nella sua vita. Ma un LG è molto più di questo: i libri gioco sono una commistione di elementi, in cui il fattore ludico è importante, ma non unico o esclusivamente fondamentale. Esistono molti esempi di titoli che, grazie alla verve narrativa trascinante, rimangono nel cuore dei lettori pur non essendo particolarmente elaborati sotto il punto di vista del regolamento o della struttura. Ritengo anzi, se devo dire la mia, che un approccio troppo rivoluzionario o sperimentale, considerando tale aspetto, difficilmente riesca ad arrivare al pubblico meno esperto, ed essere apprezzato.

Un lettore medio che si avvicina a un’opera interattiva vuole prima di tutto godere di un’avventura entusiasmante: per quanto si possa essere abili game designer, se non c’è la base “letteraria” difficilmente si riesce a centrare l’obiettivo. Per fortuna nella scena interattiva gli ottimi scrittori non mancano!

Cos’era il librogame nel suo periodo d’oro?

Bella domanda, che si presta a tantissime interpretazioni, anche un briciolo filosofiche 😊. Per farla breve ed evitare di lanciarmi in una filippica direi che è stato la porta di accesso a un mondo nuovo, in cui il lettore diventava protagonista e poteva misurarsi con sfide, mondi e creature fantastiche. Erano elementi che già esistevano prima in altre opere letterarie, ma con l’avvento del librogame è subentrata una dinamica che precedentemente non esisteva: il lettore era anche protagonista della storia.

Spada, scudo, cotta di maglia ed elmo in ghisa… il protagonista è pronto all’azione!

Naturalmente i primi libri-gioco erano tutt’altro che perfetti, avevano ingenuità, pecche e problemi strutturali non da poco in molti casi: ma il solco era stato tracciato e un nuovo mondo era comparso, trascinato da alcuni grandissimi autori del genere in grado di sfornare autentici capolavori.

Joe Dever, Steve Jackson, Dave Morris, Herbie Brennan hanno fatto scuola, e se oggi si sta assistendo a un nuovo rinascimento dei LG una buona fetta del merito è loro.

Cos’è un librogame oggi? Come si è evoluto?

Qualcosa di molto simile, eppure profondamente diverso, rispetto a quello che era negli anni ’80. La struttura giocoforza è la stessa e anche l’influenza dei grandi maestri che ho citato sopra è spesso palpabile. Ma gli autori, soprattutto Italiani, che scrivono LG oggi sono quasi sempre grandi esperti del settore, hanno letto decine di volumi e da essi hanno imparato molto. Errori tipici dell’epoca quindi, come scelte che non portano a reali diversificazioni, labirinti senza uscita, possibilità di tornare tante volte allo stesso paragrafo e ritrovare sempre la stessa situazione, oggi non esistono più o quasi. E da quelle idee di base si sono sviluppati mondi nuovi con le loro evoluzioni: le parole chiave, per esempio, che tengono conto delle scelte fatte e fanno in modo che la situazione si evolva coerentemente con esse, sono molto diffuse, e rendono i volumi assai più raffinati.

I Signori delle Tenebre: a sinistra la versione più recente, a destra quella “classica” degli anni ’80

Negli anni poi si sono sviluppate le idee più disparate: esistono librogame “open world”, librogame gestionali, librogame in cui si può giocare la stessa avventura con protagonisti diversi, modificandone le situazioni, librogame che “interagiscono” con la realtà circostante e molte altre idee stimolanti come queste. Insomma un mondo già stupendo di per sé che esplora anno dopo anno orizzonti in costante divenire.

Legami, contrasti e coesistenza (virtuosa?) con i videogiochi. Cosa ne pensi?

Sono senza dubbio mondi affini. Sia perché si influenzano a vicenda, ed esistono anche esempi di librogame trasformati in videogiochi o di videogiochi che hanno ispirato librogame, sia perché è molto frequente che chi è appassionato di uno dei due settori apprezzi e “bazzichi” anche l’altro. Secondo me è bene che sia così, ma anche che i due settori non tentino troppo di mescolarsi: ho giocato la trasposizione in formato videoludico di alcuni librogame, Lupo Solitario e Fighting Fantasy su tutti. Erano prodotti anche piacevoli, ma perdevano molto del fascino dell’originale. Io sono dell’idea che debbano esserci assolutamente commistioni e influenze, ma che sia un bene che, a parte qualche incursione, i due mondi continuino a mantenere una loro identità ben precisa e offrano esperienze di gioco esaltanti e travolgenti in modo diverso e complementare.

Sei un videogiocatore?

Assolutamente sì! Sono un appassionato di videogiochi fin dalla più tenera età e ho cominciato a innamorarmene che a stento stavo in piedi. I racconti dei miei genitori di quando, a 6 anni, giocavo in sala giochi agli arcade in piedi su una sedia per arrivare ai comandi mi fanno sempre sorridere. Ho iniziato nel 1984, a 7 anni, con un Commodore 16, e da allora in casa mia ho sempre avuto un PC, e talvolta una console, e non ho mai mancato di videogiocare. Per un periodo è stato anche un lavoro: sono stato per alcuni anni, infatti, redattore di The Games Machine e la mia vetusta esperienza pregressa mi rendeva particolarmente adatto per curare rubriche dedicate all’emulazione e al retroplay.

I miei giochi preferiti attualmente sono i RPG open world, che esploro in lungo e in largo passandoci mesi (visto anche il ridotto tempo giornaliero a disposizione) e gli FPS che non mancano mai di esaltarmi fin dai tempi di Doom prima e Duke Nukem 3D poi. Non mi faccio poi mancare qualche puntata nel mondo dell’emulazione, sfruttando soprattutto il MAME e gli emulatori dedicati al Commodore 64, che è stato probabilmente il mio più grande amore nel campo degli home computer.

I videogiochi ti hanno influenzato o ispirato in qualche modo nella realizzazione delle tue opere?

Certamente, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Non solo a livello di meccaniche (per esempio il concetto di open world io l’ho appreso dai videogiochi e talvolta ho cercato, seppur parzialmente, di importarlo nei miei libri), ma anche a livello di personaggi, ambientazioni, meccaniche di gioco e molto altro. Per fare qualche esempio, se immagino un barbaro con una spada in mano mi viene immediatamente in mente quello di Golden Axe, mentre se cerco di disegnare un dungeon oppure un labirinto sotterraneo le influenze di quelli che ho incontrato in Baldur’s Gate, Diablo, Skyrim o World of Warcraft si fanno sentire.

Golden Axe (SEGA – 1989)

In epoca di lockdown ho avuto finalmente la possibilità di giocare Zelda, Breath of the Wild su Nintendo Switch e mi ha veramente impressionato e stimolato: probabile che possiate cogliere alcuni elementi di questo capolavoro nei miei prossimi librogame. Insomma è un mondo che adoro e che non ha mancato di ispirarmi, da sempre e non solo quando scrivo LG.

Vuoi segnalarci qualche tuo progetto in particolare o in corso d’opera?

Quello a cui sto lavorando in questo momento potrebbe piacere particolarmente al pubblico del vostro blog. Si tratta di una collana intitolata Press Start, che si allaccia ad alcuni grandi videogiochi arcade che hanno fatto storia negli anni ‘80. Nel progetto è coinvolto anche Mauro Longo, che è il curatore delle collane interattive di Acheron Books, l’editore di questa nuova serie. Sto scrivendo il primo volume dell’opera, Ghasts ‘n Gremlins, e non credo ci sia bisogno che vi dica a quale gioco è ispirato. Ovviamente prima di mettermi all’opera mi sono rigiocato a fondo l’originale facendo “bollire” il Mame, e mi sono sorpreso nel constatare quanta profondità di gioco ci fosse in un prodotto così vecchio, e quanti ottimi spunti da inserire in un LG.

Il volume uscirà l’anno prossimo e ci sarà anche un Kickstarting per prenderlo, insieme agli altri della collana, a partire da gennaio.

Librogame: Ghasts 'n Gremlins
Ghasts ‘n Gremlins, uno dei prossimi progetti di Francesco Di Lazzaro, ispirato da…

Le altre mie prossime uscite: con Watson Edizioni ho scritto Caronte, libro dedicato al nocchiero infernale che uscirà insieme a Inferno di Alberto Orsini. Volumi che abbiamo preparato anche per festeggiare il settecentenario di Dante e che non mancheranno a loro volta di riproporre al loro interno dinamiche videoludiche. Anche per questo l’orizzonte temporale è inizio 2022.

Un po’ prima, ma non è certo, dovrebbe uscire il nuovo capitolo di Hellas Heroes, la collana che sto scrivendo insieme a Mauro Longo e che negli ultimi anni ha avuto un grande successo. Ispirata alle vicende mitologiche della Grecia antica vede protagonista Autolico, un antieroe pigro, donnaiolo e ubriacone. Ne sono usciti già due capitoli e il terzo, che ho scritto da solo in attesa del prossimo in cui rientrerà anche Mauro, vedrà il nostro eroe scomparso e in difficoltà, con le sue amiche ninfe che partono alla sua ricerca…

Librogame: Le Fatiche di Autolico
Le Fatiche di Autolico, primo librogame della collana Hellas Heroes (Librarsi – 2018)

Volevo citare, infine, Carmilla, un librogame “doppio” che ho scritto sempre con Watson Edizioni. Tratto dal capolavoro vampirico di Sheridan Lefanu, è particolare perché la storia può essere giocata sia dal punto di vista della vampira Carmilla che da quello della sua vittima, la giovane e inesperta Laura. Una diversità di prospettive che si ricongiunge a quello che vi dicevo prima sull’evoluzione dei librogame moderni. Un esperimento interessante che spero possa piacere anche a chi ama i videogiochi e si approccia per la prima volta al mondo della narrativa interattiva…

Conclusioni

Spero che questa incursione nel mondo dei librogame, poi non così lontano da quello dei videogiochi, possa avervi incuriosito, destando il vostro interesse per qualcosa che ignoravate o, al contrario, riaccendendo la fiamma di una vecchia passione!

Ringrazio ancora Francesco per la sua grande disponibilità e mi auguro di poterlo incontrare di nuovo di persona, sempre in sicurezza, quanto prima.

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Metroid Saga: storia di un capolavoro

L’uscita di Metroid Dread, fissata per l’ 8 ottobre, è ormai vicinissima. Per i fan della saga – come il sottoscritto – l’attesa è stata lunga, lunghissima; precisamente 17 anni fa terminai la mia prima partita a Metroid Fusion – gentilmente prestatomi da un compagno di classe delle medie – lasciando una Samus Aran ormai braccata dalla Federazione dopo i fattacci avvenuti sulla stazione BSL.

Se vi state chiedendo di cosa diavolo parlo i casi sono due:

  • Siete dei giovani gamers, e Metroid Fusion è vostro coetaneo o quasi.
  • L’età avanza, ed i ricordi delle maratone sul GBA si fanno via via più sbiaditi.

A tutto ciò uniamo il fatto che negli ultimi 11 anni la saga è letteralmente sparita dai radar, eccezion fatta per l’ottima parentesi Samus Returns. Con questo articolo voglio fornire una panoramica sulla storia di Metroid, dal 1986 ad oggi, così da rispolverare la vostra cara Power Suit. O farvi scoprire la saga che ha rivoluzionato il genere Adventure 2d.

La cacciatrice di taglie

Prima di tutto introduciamo la protagonista indiscussa della nostra storia. Samus Aran nasce sulla colonia mineraria terrestre K2-L, di cui poi rimarrà l’unica sopravvissuta in seguito ad un attacco da parte dei Pirati Spaziali, capitanati da Ridley. Viene poi tratta in salvo dai Chozo, razza aliena di pennuti antropomorfi, e trasportata sul loro pianeta natale, Zebes.

Evoluzione stilistica di Samus Aran, dagli albori ad oggi.

Viste le condizioni di Zebes avverse alla vita umana i Chozo decidono di donare alla ragazzina una porzione del proprio DNA, al fine di renderla più forte, agile, resistente ed astuta di qualsiasi comune essere umano. È da questo momento che inizia il duro addestramento di Samus Aran, destinata a ricoprire un ruolo chiave nella prossima difesa della galassia.

Tutto quel che ho scritto non lo troverete nei videogiochi in realtà; è Kenji Ishikawa a raccontarci l’infanzia di Samus, tra le pagine del manga ufficiale di Metroid. Quel che ho accennato non è che un piccolo assaggio della storia completa, che partendo da qui condurrà Samus fino agli eventi narrati nel primissimo Metroid. La lettura per tutti gli appassionati è praticamente d’obbligo!

La cronologia della storia di Metroid nei videogiochi
I titoli di Metroid ordinati per eventi della storia.

La missione Zero

Corre l’anno 1986 quando Nintendo pubblica Metroid, capostipite della saga. Titolo sicuramente atipico per gli standard del tempo, Metroid si proprone come un Adventure Platform 2d non lineare. Questa sua caratteristica lo renderà uno dei due titoli che hanno definito il celebre genere Metroidvania, tornato in auge negli ultimi tempi.

Anche se ne riconosco l’importanza storica devo esser sincero, Metroid risulta invecchiato piuttosto male, quindi andrò a parlare del suo remake, Metroid: Zero Mission; oltre a risultare un’ottima riproposizione dell’originale, Zero Mission include una sezione di gioco inedita.

Box Art giapponese di Metroid: Zero Mission.

L’incontro

Samus Aran è ormai divenuta una famosissima cacciatrice di taglie, fidata collaboratrice della Federazione Galattica. L’obiettivo di questa missione è tornare su Zebes – pianeta natale degli ormai estinti Chozo – dove i Pirati Spaziali stanno cercando di controllare i temibili Metroid.

I Metroid, che danno il nome alla saga, saranno un elemento chiave dei vari titoli della saga, in un modo o nell’altro. Forme di vita aliene simili a meduse fluttuanti, questi esseri risultano terribilmente aggressivi, e sono in grado di risucchiare l’energia vitale degli altri esseri viventi. Risultano inoltre incredibilmente resistenti, tanto che l’ unico modo di abbatterli è sfruttare la loro debolezza al ghiaccio; ecco spiegato perchè sia i Pirati che la Federazione sono tanto interessati a questa forma di vita.

La storia di Metroid passa da Ridley.
Ridley, rivale per eccellenza di Samus, in alcune delle sue incarnazioni

Qui Samus esplora le profondità del pianeta Zebes, trasformate in una grande base sotterranea dai Pirati Spaziali. Abbattuti i due luogotenenti, Ridley e Kraid, la cacciatrice affronta Mother Brain, antica IA traditrice di fattura Chozo che ora capeggia la fazione dei Pirati. Dopo esser stata sconfitta Mother Brain attiva il meccanismo di autodistruzione della base; Samus è costretta a scappare, ma durante la fuga la sua navetta viene abbattuta da un fascio laser dei Pirati Spaziali, precipitando nuovamente su Zebes.

Sola e disarmata, Samus si infiltra quindi sulla nave madre dei pirati, e dopo aver recuperato la sua Power Suit procede alla distruzione del vascello. Così si conclude Zero Mission, i Pirati Spaziali sembrano ormai fuori gioco… O forse no?

Gli errori dei Chozo

Il secondo capitolo della saga è Metroid II: Return of Samus, sviluppato per Game Boy nel 1991. Anche di questo capitolo è stato ricavato un ottimo remake – Metroid: Samus Returns – che reinterpreta il titolo Nintendo in salsa moderna, conservandone comunque l’essenza.

La Federazione Galattica è preoccupata, soprattutto dopo la brutta storia su Zebes. Ha quindi in mente un altro lavoro, e sa già chi dovrà compierlo. Samus viene quindi inviata sul pianeta SR388, terra originaria dei Metroid. La missione è semplice quanto ardua: distruzione totale dei Metroid. Gli esseri sono davvero troppo pericolosi, e vanno quindi eliminati, stando a ciò che dice la Federazione.

Alcuni esempi di Metroid che verranno incrociati lungo la storia di Return of Samus

La Regina

Samus affronta quindi i tanti Metroid presenti su SR388, ognuno contraddistinto da uno stadio evoluto ben specifico. Scopre poi che in realtà SR388 non è il pianeta natale delle meduse fluttuanti, ma che esse sono state create dai Chozo. I Metroid sono infatti stati rilasciati su SR388 col fine di annientare il vero essere nativo del luogo, il misterioso Parassita X. Dopo aver assolto il loro compito le creature si sono però ribellate ai Chozo, che con un gesto estremo le hanno sigillate nelle profondità del pianeta.

Samus riesce quindi a distruggere tutti i Metroid presenti su SR388, compresa la temibile Regina, e sancisce così la fine della temuta razza aliena. A quel punto l’enorme vulcano presente in superficie sta per eruttare, e distruggerà qualsiasi cosa, quindi Samus deve raggiungere la navicella ed entrare subito in orbita; lungo la via per la superficie si imbatte però in un uovo in procinto di schiudersi. L’esserino che ne esce, un piccolo Metroid, riconosce in Samus la propria madre per via dell’imprinting, e la assiste durante la fuga, liberandole il passaggio.

Samus sfreccia via sulla Gunship

Nei pressi della navetta Samus si scontra poi con l’onnipresente Ridley, intenzionato a rubare il cucciolo di Metroid; la guerriera ha infine la meglio e riesce a fuggire da SR388, portando con sé l’unico esemplare di Metroid dell’intera galassia.

Capolavoro senza tempo

Giungiamo quindi all’episodio più emblematico dell’intera saga, ovvero Super Metroid, rilasciato per Super Famicom nel 1994. Tutto quel che veniva accennato in Metroid e Metroid II: Return of Samus viene ora elevato all’ennesima potenza; level design che fa ancora scuola, una delle migliori OST di sempre, direzione artistica sublime, gameplay solidissimo ed atmosfera a pacchi. Super Metroid è ancora oggi preso come IL termine di paragone del genere metroidvania, e questo non è affatto un caso. Uno di quei rari titoli senza tempo, che sembra non vogliano proprio invecchiare. Se non lo avete ancora giocato correte, perchè Super Metroid è letteralmente un pezzo di storia videoludica.

Penso che tutti abbiano visto questa immagine almeno una volta. Il cucciolo di Metroid sta per esser rapito.

Il furto

Di ritorno da SR388, Samus consegna il cucciolo Metroid presso la stazione di ricerca Ceres, appartenente alla Federazione. Subito dopo esser ripartita riceve però un segnale S.O.S. dalla medesima stazione, ed al suo ritorno scopre che è stata invasa dai Pirati Spaziali. Qui avviene l’ennesimo scontro con l’arcinemesi, Ridley, che riesce a rubare la capsula contenete il Metroid e scappa, dirigendosi proprio su Zebes.

La vecchia base dei Pirati è stata infatti ricostruita sotto ordine di Mother Brain, l’IA Chozo che tutti credevano scomparsa in seguito alla Missione Zero. Il nuovo piano è quello di clonare il piccolo Metroid al fine di allestire un esercito di bioarmi. È quindi ora per la cacciatrice di tornare là dove tutto ha avuto inizio, sul pianeta Zebes, ed esplorarne nuovamente le profondità.

Super Metroid: una storia così complessa in una mappa così "semplice".
La “semplice” mappa di Super Metroid. Un capolavoro di level design

Mother Brain

Qui Samus affronta nuovamente i luogotenenti dei Pirati Spaziali, e dopo averli sconfitti si dirige nella parte più profonda del pianeta, Tourian, dove Mother Brain la sta aspettando. La IA però non si fa trovare impreparata; essa si è infatti dotata di un grosso esoscheletro apparentemente impenetrabile dai colpi di Samus.

Quando tutto sembra perduto ecco che fa la sua comparsa il “cucciolo” di Metroid, cresciuto a dismisura nel frattempo. L’essere attacca Mother Brain, stordendola, e ne trasferisce l’energia a Samus, ora capace di danneggiare il nemico. La IA però, ripresasi dall’attacco, colpisce il Metroid, uccidendolo, ma viene in seguito sconfitta da Samus che dovrà scappare in superficie per l’ennesima volta, poichè il pianeta sta per esplodere, definitivamente.

Si conclude così Super Metroid, i Pirati Spaziali annientati, Mother Brain sconfitta, ed i Metroid ormai estinti…

Other M, un titolo controverso

Metroid: Other M, rilasciato nel 2010 per Wii, è di fatto l’ultimo titolo della saga principale ad esser stato sviluppato, se non contiamo il remake Samus Returns. Un titolo abbastanza controverso, che si discosta quasi completamente dai suoi predecessori in quanto a gameplay; altro importante cambiamento è l’importanza della narrativa nell’economia di gioco, elemento relegato quasi a pretesto nei precedenti titoli, che ora diviene parte fondamentale dell’esperienza Other M.

Metroid Othen M pone la storia al centro del titolo.
Metroid Other M punta forte sulla componente narrativa, ponendo la storia al centro del titolo

Dopo le vicende raccontate in Super Metroid sembra che la galassia sia un posto sicuro, ma le apparenze ingannano. Samus riceve l’ennesima richiesta di soccorso da uno strano relitto, tale Bottle Ship. Poco dopo l’attracco la cacciatrice incontra il 7° Plotone della Federazione, capeggiato da una sua vecchia conoscenza, l’ufficiale in comando Adam Malkovich. Samus è stata una sottoposta di Adam durante il suo periodo nelle forze della Federazione, che ha poi lasciato per divenire una cacciatrice di taglie. Gli umani, esplorando la Bottle Ship, scoprono che quella nave sta conducendo delle pericolose ricerche – tecnicamente proibite – sulle bioarmi.

La creazione di MB

Una fazione della Federazione Galattica ha infatti ricreato delle forme di vita molto simili ai Pirati Spaziali, al fine di disporre di un piccolo esercito personale; ciò è stato reso possibile grazie a del DNA presente sulla Power Suit di Samus a seguito della missione su Zebes. Per controllarli è stato inoltre necessario creare MB, una interfaccia IA basata sull’ormai defunta Motherbrain ed innestata in un corpo di androide. MB si è ovviamente ribellata ai suoi creatori, impartendo all’intero arsenale di bioarmi un semplice compito, sterminare tutti i ricercatori, eccezion fatta per la sua creatrice, Madeline Bergman.

Come se non bastasse il gruppo fa una scoperta ancora più sinistra: nel Settore Zero della nave-laboratorio gli scienziati hanno ricreato dei Metroid, sempre grazie al DNA presente su Samus. Non Metroid qualsiasi, ma Metroid perfezionati, privati della debolezza alle basse temperature. Ciò li rende di fatto degli esseri praticamente imbattibili.

Questo è un cucciolo di Ridley, che ci crediate o no.

Tragici eventi

Adam Malkovich, ufficiale in carica, decide così di sacrificarsi, facendo irruzione nel Settore Zero al fine di disconnetterlo dalla Bottle Ship ed in seguito farlo detonare, distruggendo definitivamente i Metroid. Nel frattempo Samus si scontra con la sua arcinemesi, Ridley, o per essere precisi un clone di Ridley. La cacciatrice ha ovviamente la meglio, ed un Ridley ferito fugge, per poi finire preda di una Regina Metroid.

Ebbene si, Samus si scontra per la seconda volta con una Regina Metroid, sconfiggendola, e riesce a salvare la Dottoressa Madeline Bergman, direttore ricerca del complesso. La Bottle Ship si avvicina quindi al quartier generale della Federazione, e Samus si confronta finalmente con MB, l’IA responsabile di tutto ciò che è avvenuto. Giunge infine un plotone di marines dal vicino QG della Federazione, capitanati dal Colonnello, che fermano lo scontro tra Samus ed MB, uccidendo di fatto quest’ultima. La situazione è quindi sotto controllo, e Samus, Madeline ed Anthony – un soldato del 7° Plotone – vengono condotti al QG della Federazione.

Nell’ultima sezione di gioco Samus torna sulla Bottle Ship per recuperare un “oggetto insostituibile”; dopo essere arrivata al Ponte di Comando viene assalita da Phantoon, boss già presente in Super Metroid e che qui fa il suo ritorno. Manco a dirlo, lo sconfigge, e recupera il casco del defunto Adam Malkovich, fuggendo poi dalla Bottle Ship, la cui autodetonazione è stata attivata da remoto.

Si conclude così Other M, che come avrete visto presenta una trama ben più articolata dei precedenti capitoli.

Il parassita

Giungiamo quindi a Metroid Fusion, titolo per Gameboy Advance rilasciato nel 2004, che di fatto chiude la storia di Metroid, quantomeno fino alla prossima uscita di Dread. Fusion segue la medesima struttura dei suoi predecessori, quindi grande mappa esplorabile, scelta del percorso da fare e quant’altro. Il titolo riesce inoltre a proporre una riuscitissima atmosfera horror in alcune sezioni, come vedremo più avanti.

La Fusion Suit dona a Samus un look più agile rispetto alla voluminosa Power Suit

L’infezione

Samus viene inviata nuovamente sul pianeta SR388, al fine di condurre una scrupolosa indagine per confermare l’avvenuta estinzione dei Metroid. Qui viene però infettata da un organismo autoctono, il Parassita X, che si innesta nella sua Power Suit. Di ritorno da SR388 Samus accusa un malore; è il Parassita X che sta attaccando il sistema nervoso della cacciatrice. La sua navetta così si schianta su una fascia di asteroidi, rendendo necessario un recupero d’emergenza.

Viene dunque trasportata al Quartier Generale della Federazione; l’infezione ad opera del Parassita si estende velocemente, ed è necessario asportare chirurgicamente la Power Suit, ormai compromessa dal parassita. Risulta inoltre impossibile rimuovere l’organismo dal sistema nervoso di Samus, così la Federazione ha un’idea: utilizzare un vaccino ricavato dall’ultima manciata di cellule del cucciolo Metroid.

Il piano funziona, il parassita viene inibito dal vaccino a base di Metroid, e Samus acquista la totale immunità a quello strano essere, riuscendo addirittura ad assorbirlo senza conseguenze. Samus Aran diviene quindi un ibrido tra essere umano e Metroid, acquisendo sì la naturale immunità al Parassita X, ma anche la debolezza alle basse temperature tipica dei Metroid.

Inoltre perde tutti i suoi “potenziamenti”, essendo la Power Suit irrimediabilmente compromessa dall’infezione; quest’ultima viene inviata sulla stazione di ricerca BSL, al fine di venire studiata più a fondo. Ciò che rimane della famosa tuta è la Fusion Suit, un’unione tra l’originale Power Suit ed il Parassita X.

Chi ha giocato Fusion si ricorderà sicuramente di questo ragazzaccio

L’invasione

Poco dopo viene però avvertita un’esplosione proveniente dalla BSL, ed ovviamente Samus viene inviata ad investigare, “accompagnata” dal computer di bordo della nuova navetta, Adam. Arrivata lì scopre che la stazione è stata invasa dal Parassita X, e che gli scienziati sono tutti morti. Il parassita è inoltre in grado di riprodursi continuamente, essendo asessuato, e presto colonizzerà l’intera BSL.

Da questo momento Samus affronta varie forme del Parassita X, che vanno da bestie di ogni tipo ad un vero e proprio clone di Ridley, fino ad arrivare al più mortale degli avversari: SA-X, o Samus Aran-X, una replica della cacciatrice, resa ancor più pericolosa dalle abilità del Parassita.

Samus quindi esplora la BSL, evitando ove possibile lo scontro con SA-X, nemico decisamente fuori dalla sua portata; è così che scopre un laboratorio segreto in cui – indovinate un pò – la Federazione sta ricreando i Metroid, ancora una volta, l’ennesima volta. SA-X la segue ed attiva la sequenza di autodistruzione di quel laboratorio, essendo i Metroid i predatori naturali dell’organismo. Sia Samus che l’entità riescono comunque a sfuggire all’esplosione, che si spera abbia messo la parola fine alla faccenda Metroid.

Il computer di bordo, ribatezzato Adam dalla stessa Samus, avverte quest’ultima che da quel momento ci penserà la Federazione a metter le cose a posto, ed esorta l’eroina a lasciare la BSL al più presto. Adam lascia anche intendere che la Federazione sia particolarmente interessata alle capacità belliche del Parassita X.

Samus ed SA-X giocando al gatto e al topo per l’intera durata del titolo

La ribellione

A questo punto Samus prende una decisione, deve liberarsi dell’intero BSL, X non deve divenire una bioarma per nessun motivo. E soprattutto il plotone della Federazione in arrivo NON deve incontrare il parassita, che soggiogherebbe facilmente i militare, acquisendone così le conoscenze circa la navigazione interstellare. A quel punto niente potrebbe fermarlo dall’espandersi per tutto l’universo.

È così che Samus decide di andare contro il volere della Federazione Galattica. Il piano prevede di impostare una nuova rotta per la BSL; così facendo la stazione entrerà in collisione con SR388, precipitando sul pianeta ed annientando entrambi. Nessun Parassita X riuscirà a sopravvivere all’evento. Sfortunatamente Samus viene intercettata da SA-X, ed il duello è inevitabile. Fortunatamente la nostra eroina ne esce vittoriosa, e riesce così ad impostare le nuove coordinate di navigazione. A questo punto si avvia verso la navetta per fuggire.

Un ultimo ostacolo si frappone tra la cacciatrice e la sua salvezza; un Metroid Omega, precedentemente fuggito dal laboratorio segreto, la attende nella zona hangar. Samus lotta, ma il nemico è troppo potente, e lei non ha più accesso all’arma letale per qualsiasi Metroid, l’ Ice Beam. Quando tutto sembra perduto compare però SA-X, che istintivamente attacca e danneggia il Metroid, per poi venir colpito e regredire all’originaria forma di nucleo cellulare. Samus quindi assorbe il Parassita, riacquisendo tutto i suoi poteri e la sua Power Suit, e procede così all’eliminazione del Metroid Omega. Così riesce finalmente a fuggire mentre la BSL precipita su SR388, segnando la fine del Parassita X.

Si conclude così la storia di Samus Aran, ricercata dalla Federazione Galattica poichè ha disobbedito agli ordini. L’attesa durerà però ancora per poco, poichè lo ricordo nuovamente, l’8 ottobre potremo finalmente scoprire cosa ne è stato della cacciatrice di taglie più abile della galassia.

Metroid Omega chiude la storia di Fusion.
Così si chiude la storia di Fusion, un duello con il Metroid Omega

Si ok… Ma Prime?

I fan di vecchia data se lo staranno sicuramente chiedendo: che fine ha fatto Metroid Prime nel recap? La verità è che considero Prime una saga separata dai classici titoli 2D. Le vicende dell’intero arco che va da Zero Mission a Fusion è già delineato, e Prime è un “di più”. La trilogia spin-off tratta del periodo intercorso tra Zero Mission e Metroid II: Return of Samus, ed aggiunge un universo a sè stante praticamente. Ritengo che però meriti un articolo tutto suo, quindi ne sentirete parlare in futuro, e spero abbiate voglia di ascoltarmi ancora una volta.

Metroid Dread ci racconterà il proseguo della storia.
Dread ha tutte le carte in regole per essere il prossimo capolavoro in casa Nintendo

Siamo arrivati alla fine, e spero che questo recap vi sia stato utile. La storia di Metroid è molto più complessa di quel che i titoli lascerebbero intendere ad uno sguardo distratto, ed il tempo per rigiocarsi l’intera saga spesso non c’è. Ora scusatemi, ma vado a lucidare il mio Arm Cannon, e vi consiglio di far lo stesso, perchè tra qualche giorno vi servirà di sicuro!

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Editoriali

PES si trasforma in eFootball e diventa gratuito: il ricchissimo mondo dei free-to-play

PES diventa eFootball, e per la prima volta Konami punta sul titolo calcistico con un modello free-to-play. C’erano già state delle anticipazioni a riguardo: da qualche anno viene messa in commercio la versione Lite, qualche mese dopo la release ufficiale, con le funzioni limitate al multiplayer, e lo scorso anno non è uscito PES 2021 ma un update, che sostanzialmente andava ad aggiornare il titolo precedente senza stravolgerlo. A distanza di un anno, però, le cose sono totalmente cambiate, a cominciare dal motore grafico, quindi proprio dalle basi. Sparisce il “PES” dal nome, storico marchio del videogioco, si passa a eFootball, e per giocare basterà scaricarlo. FIFA invece continuerà con la solita formula, cioè uscita annuale a prezzo pieno, più ovviamente tutte le micro-transazioni e le relative polemiche. Ma siamo sicuri che in Konami stiano facendo la scelta giusta? Intanto scopriamo cosa si cela dietro a un prodotto free-to-play.

Che cosa significa free-to-play

Il termine free-to-play, letteralmente “gratis da giocare”, descrive quei videogame che possono essere scaricati senza alcun costo aggiuntivo. Non obbligatorio almeno. Per rendere sostenibile questa tipologia di prodotti, publisher e sviluppatori devono puntare su alcune caratteristiche che possano permettergli di rivaleggiare con titoli nuovi. Statista valuta che nel 2021 il mercato del free-to-play mobile sia intorno ai 100 miliardi di dollari, con una netto apporto del mobile (75%, con un contributo dei player asiatici che vale oltre la metà del segmento), seguito da PC (23 miliardi) e console (2 miliardi). Questi ultimi due sono parecchio indietro, ma la spiegazione è che i prodotti di nota sono sensibilmente di meno (esistono migliaia di ottimi giochi mobile, e spesso di tratta di cloni), e al fatto che lo sviluppo su queste piattaforme è soprattutto legato al mondo multiplayer e, di conseguenza, necessita di un lavoro più lungo e che coinvolge più figure professionali.

Il poter arrivare a tante persone senza doverne pretendere l’acquisto è sicuramente il vantaggio principale del free-to-play, almeno per poterli attrarre una prima volta. Se questo è efficace per l’approccio, però, poi è necessario trovare il modo di farli rimanere connessi e di renderli degli utilizzatori abituali. Bisogna quindi aggiornare il videogioco, continuamente, per far sì che ci sia un’effettiva convenienza a giocare e a collegarsi quotidianamente (o quasi). Come suggerisce Medium, anche i live event possono fare un’enorme differenza, portando a connettersi cifre di giocatori generalmente insolite. In Fortnite è possibile assistere a eventi speciali. Specialissimi anzi, perché parliamo di un fenomeno che è uscito (positivamente) molto al di fuori del contesto videoludico. All’interno del gioco, nel 2020 è stato mostrato un trailer in esclusiva, e  non parliamo di un film di nicchia o di un regista emergente: si tratta di Tenet, di Christopher Nolan, che ha scelto un palco insolito per presentare un prodotto cinematografico. Altri casi che hanno visto Fortnite come protagonista sono i concerti. Marshmello, Travis Scott, Ariana Grande e altri ancora si sono esibiti virtualmente: gli utenti si connettono, e possono assistere all’interno del videogioco a uno spettacolo vero e proprio. Tutte queste attività sono un’elevazione alla n-esima potenza del concetto di “far rimanere i giocatori”.

Come si monetizza da un gioco gratuito?

Ma se finora abbiamo parlato di come far arrivare gli utenti, come si fa a monetizzare? Semplicemente gli si dà il videogioco gratuitamente, e poi gli si fa pagare degli extra facoltativi, che possono aiutare ad esempio a customizzare il proprio personaggio e la propria esperienza di gioco, o semplicemente levare i banner pubblicitari (su mobile). In altri casi si possono acquistare dei veri e propri vantaggi in-game, ma lì ci si allontana un po’ dal classico free-to-play: per i videogiochi sportivi può essere un atleta in particolare o l’aver maggiori possibilità per raggiungerlo, negli FPS possiamo parlare di armi, abilità speciali, e così via. La legge dei grandi numeri dice che più sono i giocatori, più sono quelli che pagano. E quindi si torna al punto precedente, cioè il tenersi stretti quelli che entrano in contatto con il videogame e che sono disposti a investirci tempo e risorse. Un ulteriore boost in questo modo sono anche gli aggiornamenti legati a specifici eventi: Pasqua, Halloween, Natale, e magari altri appuntamenti legati al Paese della casa di sviluppo. In questi frangenti è possibile avere accesso a mappe, modalità di gioco inedite oppure oggetti rarissimi, spingendo di conseguenza ancora più persone a restare in-game. 

Nel marketing viene valorizzato sempre di più il concetto direlazione”. Questo significa che ottimizzare la singola transazione (l’utente che spende 70 euro) è una grande operazione, poiché si riesce a vendere al prezzo desiderato e gli obiettivi minimi di business vengono soddisfatti, ma se si riesce a rendere il rapporto più duraturo, nel lungo periodo si guadagna molto di più. Semplificando il concetto al massimo, viene fatta una stima che tiene conto di quanto un utente può rimanere attivo e quanto è disposto a spendere in un certo lasso di tempo. Il free-to-play si basa proprio su questo concetto, perché non si presta più alla massimizzazione di un acquisto solo (il videogioco, fisico o digiale) ma si punta quasi esclusivamente sulle micro-transazioni che, singolarmente, possono essere risibili e accessibili, ma che sommate nel lungo periodo possono portare a grandi cifre: nel 2020, Honour of Kings è arrivato a 2,45 miliardi di dollari. Non mancano comunque i prodotti non free-to-play che puntano molto su questo modello di business, con la differenza che necessitano di una spesa iniziale.

PES diventa eFootball: la svolta free-to-play è giustificata?

Tornando alla domanda principale: che conviene realizzare un videogioco free-to-play? La risposta è dipende“. Ancor prima della pubblicazione del videogioco bisogna ragionare sulla tipologia di prodotto che si sta creando, sulle risorse finanziarie a disposizione e sulla quantità e qualità degli aggiornamenti che sono previsti dopo il rilascio. Nel caso specifico di eFootball, probabilmente ci sono le condizioni giuste per rendere il modello sostenibile. Ha sicuramente una grande fanbase potenzialmente molto ampia, che nel corso del franchise ha generato 111 milioni di vendite e 400 download su mobile. Il tipo di gioco poi si presta ampiamente ad update ed eventi speciali, come succede già adesso: aggiornamenti in base alle prestazioni di calciatori e squadre, inserimento di campioni del passato. La possibilità di monetizzare invece può essere data dall’acquisto di valuta in-game, o direttamente di calciatori e di skin uniche. Bisogna però anche tenere conto dell’effettiva qualità del risultato finale, il videogioco in sé, che pare non essere stato troppo apprezzato dagli utenti e che vedono eFootball 2022 come un passo indietro rispetto a PES 2021.

Se, almeno esternamente, sembrerebbe una scelta sensata quella di passare al free-to-play, “sacrificando” gli incassi dati dalla vendita del videogioco base per accrescere (sensibilmente) il proprio seguito, la vera domanda da porsi è se questa rivoluzione del franchise basterà per superare FIFA, il rivale di sempre. In realtà ci sarebbe un altro quesito, perché quella che è spesso stata definita una lotta a due, da quest’anno con UFL potrebbe essere a 3. Non sappiamo ancora troppo di quest’ultimo, se non che è gratuito e che quindi opera nello stesso “campo” di eFootball 2022; il free-to-play.

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Editoriali

Diablo, guida alla demonologia dei videogiochi

Diablo si può definire una serie cult per i gamers, siano essi fedelissimi Sony, Xbox o provenienti dal mondo dei PC. Il primo titolo (Diablo I) uscì nel lontano 1996 seguito quattro anni dopo dal suo sequel Diablo II. I giocatori però hanno dovuto attendere ben dodici anni per avere un terzo capitolo. 

Dopo tanti anni d’attesa Diablo III si è presentato al pubblico con una grafica largamente migliorata rispetto ai primi due e oggi, a quasi dieci anni da quella pubblicazione, Blizzard ci offre una chicca. Nell’attesa del quarto capitolo (previsto tra il 2022 e il 2023) si potrà giocare Diablo II: resurrected, la remastered dell’ormai ventenne Diablo II. Grazie ad una grafica migliorata e a dinamiche di gioco semplificate la casa Blizzard offre un tuffo nel passato senza però stravolgerne il ricordo. Diablo II: resurrected è un ottimo punto di partenza per avvicinarsi alla saga per la prima volta o per rivivere le emozioni di un tempo. 

Tutti i Diablo fluttuano attorno all’eterna lotta tra il bene e il male, le schiere infernali e quelle celesti che si contendono il mondo di Sanctuary e la vittoria finale. Vi siete mai chiesti però se i nomi e le ambientazioni del gioco abbiano un qualche richiamo alla demonologia e cosmogonia Cristiana? 

In occasione dell’uscita di Diablo II: resurrected perché non dare una sbirciatina al mondo da cui questa saga prende spunto? 

Diablo e i nomi di Satana

Partiamo appunto dal demone che dà il nome alla serie Diablo, che in spagnolo significa Diavolo. Un sostantivo spesso associato alla figura di Satana. Se usato più generalmente però può diventare un sinonimo di demone e quindi indicare i torturatori dell’inferno e non il Diavolo con la D maiuscola. 

Secondo la Bibbia quest’ultimo è la contrapposizione a Dio, il peccato e il tentatore. Quindi se la mitologia fosse un gioco allora potremmo dire che si tratta del boss finale dell’inferno, il grande male. Questa figura all’interno dei giochi di Blizzard però non è presente, le schiere infernali infatti sono capitanate da un terzetto di demoni maggiori.  

Diablo è uno di loro insieme a Mefisto e Baal. I nomi utilizzati dagli ideatori del gioco per i membri del triumvirato sono tutti nomi che fanno riferimento alla figura di Satana. Diablo è forse quello più usato ma anche gli altri due, in vari passaggi della Bibbia e non solo, vengono usati per parlare del Diavolo. 

Diablo
Diablo

A seconda della sfaccettatura del male che vogliono evidenziare, spesso i riferimenti bibliografici utilizzano nomi diversi per riferirsi a Satana. Astarte, Belfagor, Belzebù, Azazél, Dagon, Moloch, Samael e molti altri. Questo caleidoscopio di volti che Satana può prendere lo si può ritrovare nei titoli utilizzati nel gioco della Blizzard. Diablo per esempio era il signore del Terrore. Questo titolo gli è stato affibbiato probabilmente nella speranza che sembrasse il più temibile nel trio a capo degli inferi. Il terrore infatti è la forma primordiale di minaccia, fin dal suo stato larvale l’umanità ha sempre conosciuto la paura e per questo il demone più potente poteva assumere solo quel titolo. 

Mefisto il diavolo tedesco

Accanto a Diablo, al vertice dell’Inferno, c’è Mefisto detto anche Mefistofele. Questo nome è spesso usato nel folkore tedesco per indicare il Diavolo. La figura di Mefistofele però è diversa da quella caprina di Satana. Il primo infatti è rappresentato spesso come un uomo vestito di nero con in mano un libro rosso. I due hanno in comune la caratteristica di stringere patti in cambio dell’anima della loro vittima. 

Mefistole è un demone menzionato anche nella leggenda di Faust di Goethe nella quale il dottor Faust stringe un patto col Diavolo, scambiando così la sua anima in cambio della conoscenza assoluta. Questo personaggio letterario ha condizionato anche il linguaggio contemporaneo dando origine all’aggettivo mefistofelico, utilizzato in riferimento a qualcosa di perfido, maligno e fuorviante. 

Mefisto in Diablo
Mefisto

Baal dio fenicio o demone?

Ultimo ma non meno importante è Baal. Il nome di questo personaggio potrebbe avere radici nella figura del dio Fenicio Baal. Esso era visto come il padre di tutti gli Dei, assumendo nella mitologia fenicia la stessa funzione di Crono in quella greca. Nella visione cananaica invece era visto come uno degli dei principali ma non come creatore degli dei. 

Molto più probabilmente però, il personaggio di Diablo, prende spunto dal demone Bael. Si tratta di uno dei dodici re dell’inferno e secondo le descrizioni che ne vengono fatte ha l’aspetto di un ragno con tre facce, una felina, una da rospo e una umana. Nel gioco della Blizzard la forma aracnoide è ripresa nel design del signore della distruzione ma anche qui, come nella figura di Mefisto non troviamo nessun’altra caratteristica in comune con la controfigura religiosa. 

Baal Diablo
Baal

Belial il falso idolo

Baal viene confuso spesso con Belial, altro demone della religione cristiana e ulteriore nome usato per riferirsi a Satana. Chi ha giocato il terzo capitolo della saga di Diablo conosce anche Belial. Il giocatore lo incontra nella città di Caldeum e aiuta ad intrappolarlo nella pietra nera delle anime. Belial fa parte di un gruppo di demoni minori che rovesciò il governo degli inferi quando il triumvirato di cui abbiamo parlato finora venne sconfitto. 

In Diablo, Belial è il signore della menzogna e infatti il suo nome in ebraico può prendere il significato di falso idolo. Questo demone dovrebbe quindi incarnare l’antagonismo della figura di Satana verso quella dell’unico e vero Dio cristiano. 

Belial
Belial

Azmodan, re dell’inferno

Nel terzo capitolo della saga di Diablo, una volta sconfitto Belial, entra in scena un demone dall’imponente figura. Si tratta di Azmodan che sfida Leah a fermare le schiere infernali al suo servizio che stanno per invadere Sanctuary. 

La figura di Azmodan sembra essere un potente generale degli inferi ed è sicuramente ispirato ad Asmodeo. Asmodeus è considerato uno dei dodici re degli inferi ed è un demone talmente potente da essere messo alla stregua di Lucifero e Satana. Altri lo associano addirittura al serpente che corruppe Eva nell’Eden e forse da questo deriva il titolo che gli viene dato in Diablo: “signore del peccato”. 

Azmodan Diablo 3
Azmodan nella visione di Leah

I Nephilim di Diablo

Alla fine del capitolo tre l’arcangelo Tyrael è preoccupato perchè il giocatore è diventato talmente potente da essere riuscito a sconfiggere Diablo nella sua forma fisica. Il personaggio giocato, indipendentemente dalla classe scelta, è chiamato il Nephilim per il suo misto tra demoni e angeli. Ebbene non vi sorprenderà sapere che nemmeno questi esseri per metà demoni o angeli sono frutto dell’immaginazione della Blizzard. I Nephilim erano esseri per metà umani e per metà demoni o angeli. 

Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta. 

Genesi 6:1-8

Questo passo della genesi suggerisce che metà del sangue di questi esseri è divino. Per figli di Dio infatti si intendono sia angeli che demoni. Ad una prima interpretazione essi infatti erano stati associati alle schiere di angeli caduti, ma in un secondo momento è sembrato più corretto interpretarli come angeli veri e propri. 

La creatrice Lilith

Arriviamo infine alla figura della creatrice di Sancturay, la demone Lilith. Figlia di Mefisto che assieme a Inarius fuggì dall’eterna guerra tra il cielo e gli inferi creando il mondo degli umani. Il trailer fornito dalla Blizzard durante il Blizzconline di quest’anno annuncia il ritorno di Lilith dal vuoto in cui era stata imprigionata. L’entrata ad effetto della creatrice può preannunciare di sicuro un’avventura epica, d’altronde è della regina dei demoni che stiamo parlando. Nella demonologia infatti Lilith è vista come la madre di tutti i demoni e simbolo della donna che non si sottomette all’uomo. Nel medioevo viene presto associata alla lussuria e alla stregoneria e quindi negli anni prende anche il titolo di prima strega.

Nella cabala ebraica però Lilith è invece la prima donna creata, precedente a Eva, che non accetta di sottomettersi ad Adamo. Ella viene creata dalla terra proprio come il consorte che però voleva comandarla e dimostrarsi superiore, Lilith non volle sottomettersi e quindi le venne affibbiato il titolo di demone.

La storia della Lilith di Diablo sembra accostarsi a quella della sua controparte religiosa. La creatrice di Sanctuary infatti si ribella insieme a Inarius che però alla fine la relega nel vuoto rinnegandola.

Lilith Diablo
Lilith

Diablo: un mondo di gioco indipendente

Nei Diablo i riferimenti demonologici a volte si limitano a rubare un nome o a deformare i personaggi religiosi per renderli conformi alla storia del gioco, tutto questo rende un gioco già magnifico ancora più bello. La storia, inserita tra i round di gioco con cut-scene o nascosta nelle descrizione degli oggetti, si sviluppa insieme al gioco ma anche indipendentemente da esso. L’universo di Diablo infatti, proprio come quello di altri giochi Blizzard, è così ampio da non limitarsi a contenere un unica storia ma lasciando al giocatore la possibilità di immaginare al di fuori del tracciato. Questo è il risultato di un buon world-building che non si limita a creare un universo fine alla storia.

Se le ambientazioni cupe di Diablo, la storia dal retrogusto infernale e i riferimenti alla demonologia cristiana non vi sono bastati allora forse potreste dare una sbirciatina anche a qualche altro gioco che tratta argomenti simili come Dante’s inferno.

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Editoriali

God of War Ragnarök: guida alla leggenda

Spoiler alert!
Questo articolo contiene dettagli rilevanti sulla trama dei precedenti capitoli di God Of War.

L’evento Sony è ormai alle spalle e tra gli appassionati videogiocatori non si parla d’altro. Uno dei titoli tra i tanti presentati è l’attesissimo God of War Ragnarök. Ma cos’è il Ragnarök? Per chi di voi non lo sapesse, questa parola dal suono duro e spigoloso, nella mitolo­gia norrena, indica la fine del mondo e degli dei. Chi porterà all’estinzione quest’ultimi potevamo facilmente immaginarlo ma dalle parole di Atreus nel trailer intuiamo invece che la coppia padre-figlio avrà l’ardito compito di fermare l’apocalisse. Buffo, dato che a darvi inizio sono stati proprio loro. Il nostro buon Kratos infatti, nel quarto titolo della saga, ha ucciso il dio Baldur decretando così l’inizio della fine. La morte di quest’ultimo è difatti il primo segnale del Ragnarök.

Il mito originale 

Nel mito originale la morte di Baldur avviene per mano di Loki durante un banchetto. Il dio stava vantandosi della sua invulnerabilità sfidando gli Aesir (gli dei) a lanciargli addosso qualsiasi cosa nel tentativo di nuocergli. Loki, conscio che il vischio era l’unico elemento a poterlo ferire, ingannò il dio cieco Höðr e lo aiutò a colpire Baldur con una freccia di vischio. Il dio invulnerabile rimase colpito e morì, finendo poi a Hellheim, il mondo dei morti, da cui non poté fare ritorno. 

Baldur, God of War Ragnarok
La morte di Baldur.

La figura di Baldur nel gioco di Santa Monica Studio è abbastanza fedele a quella mitologica, ma sicuramente più importante che nei miti nordici che lo citano ben poche volte. Inoltre l’invulnerabilità del dio è fonte di tormento e non di vanto, in quanto la sua apatia verso il mondo lo rende insensibile a qualsiasi cosa. Per la coerenza mitologica, da apprezzare, è sicuramente la reazione della madre Freya (nella mitologia Frigga) alla vista delle frecce di vischio del giovane Atreus che poi spezzeranno l’incanto che rendeva Baldur invulnerabile. 

Inoltre, come abbiamo potuto notare durante il trailer del PlayStation Showcase 2021, Santa Monica Studio ha intenzione di citare nel prossimo capitolo (God of war Ragnarök) un altro dio norreno poco conosciuto: Tyr. A spiegare questa scelta da parte degli sviluppatori è forse il ruolo di quest’ultimo, che nella mitologia è identificato come il dio della guerra norreno. Quindi vedremo forse in azione non uno ma due God of War? 

Altri segnali dell’inizio del Ragnarök

Il risveglio di Jǫrmungandr, il serpente del mondo, è un altro segno della battaglia finale. Le leggende infatti dicono che il serpente del mondo, addormentato sui fondali oceani­ci, si risveglierà solo alla fine del tempo per prendere parte allo scontro finale, il suo destino sarebbe quello di scontrarsi con Thor e perire. Questo giustifica anche la sua antipatia per il dio del tuono e per tutta la sua famiglia manifestata nel gioco e quindi la sua propensione ad aiutare i due protagonisti.

Essendo Jǫrmungandr morto per mano di Baldur non potrà scontrarsi con Thor che, speriamo vivamente, possa avere a che fare con la coppia Kratos-Atreus nel nuovo capitolo della saga. Un’altra nozione importante da citare sull’enorme serpente è la sua origine, che lo condannerà ad essere etichettato come nemico degli dei e definito un mostro. 

I figli di Loki 

Secondo la mitologia norrena Jǫrmungandr sarebbe figlio di Loki, il dio dell’inganno, e avrebbe due fratelli Fenrir (il lupo gigante) e Hell (la dea della morte). 

Se per Hell non c’è molto da dire (il suo titolo è già abbastanza esplicativo), per suo fratello Fenrir c’è da chiedersi come lo inseriranno nel riadattamento videoludico, essendo destinato a scontrarsi con Odino nel Ragnarök ma anche a divorare il braccio di Tyr. Da che parte starà quindi Fenrir? Dalla parte di suo padre o da quella del padre di tutto? 

Jormungandr, la serpe del mondo
Jormungandr, la serpe del mondo

Loki, nel gioco, è però il nome originale di Atreus, quindi è alquanto improbabile che quest’ultimo ne rivendichi la pater­nità, ciò non preclude però che questi “figli” possano in qualche modo essere legati ai due protagonisti in altri modi. Nelle immagini donateci da Santa Monica Studio durante l’evento Sony ci sono molti indizi sul fatto che la prole del dio dell’inganno potrebbe essere una parte importante del prossimo capitolo, come la ragazzina del finale che si vocifera sia Angrboða, la gigantessa con cui Loki ha concepito i tre mostri citati in questo paragrafo.

A suggerire che dietro al nome di Loki c’è molto più che una semplice sovrapposizione di personaggi è anche una frase di Atreus nel trailer di God of War Ragnarök, in cui il figlio di Kratos esprime al padre la sua volontà di voler scoprire sé stesso, scoprire chi è Loki.

Chi è Loki?

Atreus in God Of War Ragnarök
Atreus

Spendiamo però qualche parola per questo personaggio da cui Atreus prende il nome. Nella mitologia nordica Loki è il dio dell’astuzia, le sue azioni sono ambigue proprio come la sua figura, a volte aiuta gli dei e altre ne è la rovina (come nel caso di Baldur). Questa ambiguità che caratterizza Loki è rappresentata non solo dal suo carattere ma anche dalle sue origini miste tra dei e giganti, proprio come nel gioco. Loki nei testi storici è visto come un male necessario per mantenere l’equilibrio dei mondi e questo aspetto si può rivedere in Atreus che cerca di bilanciare dentro di sé, ma anche in Kratos, la furia di quest’ultimo e gli insegnamenti della madre. 

Se Atreus è Loki quindi vedremo come verrà presentato questo nuovo lato del figlio di Kratos nel Ragnarök. 

Cosa potremmo vedere in God of War Ragnarök?

Tornando però alla fine dei tempi, la mitologia ci anticipa un gran numero di scontri epici e paesaggi mozzafiato. Come la comparsa di Surtr (il gigante di fuoco), l’esercito degli Einherjar (le anime del Valhalla), l’arrivo di Hell su Naglfar (una nave fatta con le unghie dei morti) o lo scioglimento di tutti i confini dei nove mondi. Quest’ultimo particolare potrebbe suggerire, ci auguriamo, la possibilità di visitare i mondi a cui era impossibile accedere nel capitolo precedente della saga. 

Lo scontro più atteso però è sicuramente quello contro Odino, il padre degli dei norreni. C’è da chiedersi però, a questo punto, chi sconfiggerà l’alter-ego nordico di Zeus, sarà compito di Kratos o di Atreus? Potrebbe essere il figlio a combattere con il dio supremo norreno, magari per vendicare l’uccisione del padre? Una cosa è certa: Loki, sia nel mito che nel gioco, avrà un ruolo fondamentale nel Ragnarök. 

Le premesse dell’ultimo gioco infatti sembrano suggerire che la fine del mondo non sarà l’unica conclusione a cui Atreus e i videogiocatori assisteranno. Dalle immagini premonitrici del finale sembra che nel nuovo capitolo assisteremo anche alla morte del nostro amato Kratos, ma d’altronde non sarebbe la prima volta. 

La fine come concetto di inizio

Nel credo norreno però la fine non è così definitiva come si può pensare ma sicuramente ineluttabile. Il Ragnarök non era inteso come la fine del mondo ma come il concludersi di un ciclo. Yggdrasil infatti dopo la sua fine è destinato a ricominciare dal principio, questo solo per andare incontro ad un altro Ragnarök.

Se ci si pensa bene è esattamente lo stesso destino riservato a Kratos. Nato umano vide finire la sua vita di spartano solo per iniziare una lunga crociata di vendetta che lo ha portato a trasformarsi nel dio della guerra che tutti conosciamo. La fine di un uomo e l’inizio di un dio. Una volta sconfitto Zeus però vediamo come la fine del vendicatore dà la luce ad un Kratos che si sacrifica per liberare la speranza nel mondo.

Kratos: prima e ora.
Kratos: prima e ora.

Ritiratosi poi nelle terre scandinave comincia nuovamente una vita normale che verrà devastata dalla perdita della moglie. Inizia quindi un viaggio con il figlio al fine di assecondare l’ultimo desiderio della defunta compagna, durante il quale possiamo notare che Kratos non è più lo stesso che in preda alla furia sterminò tutti il pantheon greco.

A sottolineare questo suo cambiamento è la scena toccante in cui Atreus chiede al padre di ragionare come un generale e non come un padre. La negazione secca di Kratos suggerisce che quest’ultimo ha riconsiderato le sue priorità e che manderebbe al diavolo tutto e tutti pur di proteggere il figlio. 

Seguendo la storia di questo tormentato personaggio si può quindi notare come la sua vita sia caratterizzata da vari cicli di morte e rinascita dei vari ruoli assunti dal dio della guerra. 

Quindi chi può dire che quella profetizza­ta dai bassorilievi a Jǫtunheimr non sia solo la fine di un capitolo in vista di un altro ancora più epico? In attesa che God of War Ragnarök dissipi tutti i nostri dubbi possiamo solo rigiocare i vecchi titoli o buttarsi in un’altra avventura al gusto di mitologia nordica: Assassin’s Creed: Valhalla.