Il confine tra cinema e videogioco, specialmente con il progredire di quest’ultimo medium, si sta facendo sempre più sottile. Mi riferisco soprattutto a quel genere di videogiochi d’avventura che pongono l’aspetto narrativo in maniera più centrale rispetto al gameplay, privilegiando il coinvolgimento emotivo dell’utente e intrattenendolo con una trama che diventa l’anima dell’opera stessa.
Negli anni 90 alcune software house si specializzarono nelle avventure grafiche punta e clicca (Lucasarts, Sierra Entertainment, Revolution Software, per dirne alcune), mettendo al centro dei loro titoli narrativa e puzzle da risolvere. Alcuni dei giochi di queste case non erano del tutto lineari, visto che permettevano al videogiocatore di prendere decisioni in grado di influenzare il corso della storia, portando in alcuni casi anche a finali diversi.
Nel 1997 venne pubblicato “Blade Runner”, videogioco d’avventura di Westwood Studios, basato sul film di fantascienza cult di Ridley Scott. Il film a sua volta si ispirava al romanzo “Il cacciatore di androidi” di Philip K. Dick. Io grazie a quel gioco cominciai a capire quanto le decisioni che prendevo di volta in volta portassero a cambiamenti di trama ancora più palpabili, considerando soprattutto la quantità di finali differenti, circa una dozzina.
La realizzazione grafica, l’atmosfera cupa e distopica ed il comparto audio, erano molto fedeli al film, e aumentavano di conseguenza l’immersione del videogiocatore. Inoltre erano presenti delle scene di intermezzo di notevole impatto, che contribuivano a far sì che il giocatore si sentisse coinvolto in un gioco dalla forte impronta cinematografica.
Esperienze interattive
Con l’avanzare del progresso tecnologico in ambito gaming, certe avventure sono diventate sempre più esperienze interattive e realistiche. Determinate software house si sono specializzate in questa ramificazione specifica del genere adventure: Quantic Dream, con Heavy Rain e Detroit: Become Human; Dontnod, nota per la saga di Life Is Strange; Telltale Games, con i suoi videogiochi ad episodi su The Walking Dead, ed altri).
Ritengo che, in questa tipologia di giochi, il puro gameplay non debba essere necessariamente al primo posto. L’esperienza stessa non vive delle nostre abilità manuali, della gestione di risorse in game o altro, ma viene valorizzata dal coinvolgimento che la storia stessa ci regala; le decisioni da prendere durante un dialogo, oppure in una sequenza d’azione (quick time event) fanno scaturire vari tipi di emozioni, poiché scegliere un bivio rispetto ad un altro può avere conseguenze sulla storia.
In ambito cinematografico, Netflix nel 2018 pubblicò sulla propria piattaforma il film “Black Mirror: Bandersnatch”, un vero e proprio film interattivo. Lo spettatore di tanto in tanto, col telecomando, doveva prendere delle decisioni. In base a queste, la storia prendeva l’una o l’altra piega. Quando il cinema prende ispirazione dal videogioco: chi lo avrebbe mai detto un po’ di anni fa?
Walking simulator e affini
In questa tipologia di giochi spesso non dobbiamo far altro che camminare all’interno dei vari scenari, analizzare oggetti, di tanto in tanto interagire con qualche enigma, NPC, ed assistere a scene di intermezzo, essendo partecipi dei pensieri del protagonista e di eventuali altri personaggi.
Uno dei videogiochi che mi colpì più profondamente all’epoca fu “The Town of Light”, un’avventura/thriller psicologica in prima persona. Il gioco è ambientato in Italia, precisamente a Firenze, nell’ex-manicomio di Volterra. Sviluppata da LKA, software house italiana, e pubblicata nel 2016.
Siamo nei panni di Renèe, un tempo paziente dell’istituto, in cerca di verità sul suo passato. L’esplorazione la fa da padrone, con i silenzi che ci tengono in apprensione, un crescendo di curiosità e tensione, uno scavare costante in questo scenario decadente, colmo di verità nascoste sotto polvere e macerie. Solitudine e profondità in un titolo che, con appunti trovati in giro e flashback, ricostruisce la storia della protagonista e ci trasmette emozioni di ogni genere, alcune sorprendenti.
Un’esperienza davvero immersiva
Ed è impossibile non parlare del gioco che diede una ventata di aria fresca alle avventure grafiche di questo specifico sottogenere, vale a dire quel piccolo grande capolavoro del 2017: “What Remains of Edith Finch” (di cui abbiamo approfondito l’importanza in un altro articolo), sviluppato da Giant Sparrow e pubblicato da Annapurna Interactive. La protagonista, Edith Finch Jr, unica sopravvissuta della sua famiglia, torna nella vecchia casa del bisnonno per ricordare e ricostruire la vita di tutti i suoi parenti.
Estetica splendida, ambientazioni pittoriche, un modo artistico e toccante nel raccontare e rivivere i ricordi dei membri della famiglia – tra simbolismi e metafore – una narrativa solida, ed una forte impronta autoriale, rendono questo videogioco d’avventura un titolo imperdibile. Dura poche ore, ma si cuce dentro di noi, dimostrando quanto il fattore longevità possa dipendere anche dal modo in cui si mettono in scena le cose. Mai dispersivo, sempre immersivo, un’esperienza che vi consiglio con tutto il cuore.
Considerazioni finali
La parte di utenza che non gradisce tutto ciò (o parte) che vi ho scritto finora, punta il dito contro il fatto che se non c’è abbastanza interazione, si sente troppo nel ruolo di spettatore, sottolineando quanto si tratta pur sempre di videogiochi e non di film. Per me invece, c’è spazio per tutto; io stesso apprezzo moltissimo sia il videogioco più “classico”, sia quello improntato maggiormente su trama e trasporto emotivo.
Ritengo che il videogiocare non sia solo una sfida manuale, una competizione, oppure un passatempo, ma anche un’esperienza puramente narrativa, un viaggio all’interno di storie che a loro volta si fanno strada tra le nostre emozioni, mettendo radici.